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Piero Cipriano, giovane psichiatra, parla del suo libro “La fabbrica della cura mentale”. Reparto psichiatrico o manicomio?
Post n°8661 pubblicato il 03 Marzo 2014 da cile54
La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante Cos’è cambiato oggi nei luoghi della cura, a più di 35 anni dalla legge di riforma psichiatrica? Quali sono le buone pratiche da considerare esemplari? E quali invece vanno rifuggite per non far in modo che l’eterno presente del manicomio sia trasformato nell’eterno ritorno del reparto psichiatrico (SPDC), dove le persone vengono ricoverate, legate, controllate a vista da telecamere, sedate? Piero Cipriano, giovane psichiatra, nel suo libro “La fabbrica della cura mentale”, ci introduce immediatamente nel problema. Da psichiatra ‘riluttante’ come si definisce manifesta il suo dissenso alla presa in carico della persona come all’interno di una fabbrica, dove le dinamiche dell’assistenza sono organizzate più o meno secondo i criteri della catena di montaggio: ognuno impegnato a svolgere il suo ruolo nella macchina gerarchicamente costituita della cura mentale, la macchina che si occupa di “aggiustare” i pezzi difettosi della società. Come si aggiusta un pezzo difettoso, viene allora spontaneo chiedersi? Quale tipo di formazione, accademica o paraccademica, occorre acquisire? E come si diventa maestri della normalità? Imprenditori della ragione? Domande importanti e ardue a cui uno psichiatra “di fabbrica” saprebbe sicuramente rispondere. Uno di quelli che pensa di poter aggiustare il prodotto imperfetto, ripercorrendo un protocollo di tecnicismo e scientificità appositamente stilato: fatto da diagnosi, da somministrazioni di farmaci e dove necessario (naturalmente sempre estremamente necessario!) fatto anche da contenzione. Eppure, spiega l’autore, già Kant, nel 1764, nel suo Saggio sulle malattie della mente, sapeva che la competenza del medico non si poteva esaurire nel dar nomi alle malattie della testa. Troppo spesso la soggettività esistenziale ed esperienziale delle persone viene sacrificata dagli psichiatri per la preoccupazione di nominare quella cosa (la malattia), sedarla, renderla innocua e annullarla. Somministrando farmaci, legando, ignorando. Mettendo in atto una serie di operazioni che con la cura non hanno più nulla a che vedere. Poichè quel tipo di cura è la banalità della cura, per non dire “del male” e citare Anna Harendt! Chi è allora lo psichiatra dissidente? È chi innanzi tutto si ferma a riflettere. Chi esce dalla “fila indiana”, come dice Ascanio Celestini. Ne scruta i meccanismi di fabbrica e necessariamente comprende di non poter trovare condivisione d’idee tra quegli spazi. E si chiede come mai si faccia così, se una legge di assistenza psichiatrica che tenga inesorabilmente conto dei vincoli costituzionali stessi, del rispetto della persona e della dignità umana sia stata approvata. Che motivo c’è di fare come se non fosse mai stata approvata? Basta poco ad attuare pratiche di cura positive: basta curare somigliando all’autentico senso legislativo, filosofico, etico e amministrativo della legge. È più difficile non rispettarla, perché le cattive pratiche, ognuna a suo modo, disorientano e determinano esclusione anziché inclusione, cronicizzazione anziché recupero, prigionia anziché libertà. Non a caso, “tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.”(L. Tolstoj, Anna Karenina) Silvia D’Autilia 20/2/2014 “La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante” di Piero Cipriano (Eleuthera ed. 2013)
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