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VICENDA COGNE FUORI DALLO SPETTACOLO

Post n°292 pubblicato il 24 Maggio 2007 da cile54
Foto di cile54

Società Informazione Giustizia

...e il loro stato di salute

VICENDA COGNE intervista al medico legale Roberto Testi *

Parlare di fatti di cronaca notissimi non è cosa facile, a meno che non si decida di fotocopiare le impostazioni date dai media dominanti, parlare quindi del caso Franzoni è per noi molto difficile perché in questi anni abbiamo assistito a ben più di una tragedia, oltre alla morte violenta di un bambino, che già è di per sé drammatica, assistere ai teatrini di pseudoinformazione che hanno violato ogni senso della decenza e del rispetto delle vittime ci ha portato ad apprezzare sempre di più il silenzio come unica forma in cui rapportarsi al dolore dei vivi e al ricordo dei morti.

Vittime al plurale perché se certamente Samuele lo è a prescindere, la madre lo è che sia colpevole oppure no, vittima di un ingranaggio in cui si è messa o l'hanno messa (non sapremo mai chi ha deciso certe strategie), vittima del silenzio, del dolore e con molta probabilità di una qualche malattia della mente da cui è stata doppiamente colpita, perché scatenante l'omicidio (se è stata lei) e perché le ha impedito di elaborarlo e magari di cominciare un percorso di cura, restando così prigioniera di un fantasma spaventoso.

L'idea che sostiene il nostro affrontare questo argomento è cercare di capire come la legge italiana affronti i delitti di natura psichiatrica, quali i mezzi per comprendere la patologia e i suoi comportamenti, quali i percorsi di pena e/o di cura quando si accerti la colpa, l'attenzione sarà rivolta ad un'umana ricerca di capire, gli aspetti morbosi cercheremo di lasciarli "ai professionisti", il rispetto di chi è coinvolto in questa tragedia, della cui gravità ed efferatezza non discutiamo, è il nostro primo intento, pur non rinunciando a fare domande e a cercare risposte.

Redazione

L'intervista

Dr. Testi  i fatti di Cogne da ormai un bel po' di anni sono alla ribalta dei media, Lei cosa dice; omicidio, infanticidio, figlicidio? E quali sono le differenze tra queste tre definizioni?

Per omicidio si intende l'uccisione di un uomo, per figlicidio quella di un figlio, mentre l'infanticidio è una fattispecie che si applica solo quando una madre, in stato di abbandono morale o materiale, uccide il figlio subito dopo la nascita (per intenderci, i neonati abbandonati nei cassonetti).

La differenza è che mentre il figlicidio è un omicidio "aggravato" (l'art. 577 prevede come aggravante dell'omicidio l'essere compiuto su discendenti o ascendenti), l'infan-ticidio è un caso di omicidio "attenuato" (come l'omicidio del consenziente o l'aiuto al suicidio).

Nel caso di Cogne non vi è dubbio: si tratta di un caso di figlicidio, quindi di un omicidio aggravato.

Tutta questa vicenda è diventata appunto un fatto mediatico, secondo Lei questo fatto può avere condizionato l'atteggiamento della Magistratura?

Solo uno stupido può pensare che l'interesse dei media, e quindi, di riflesso, di tutto o quasi tutto il paese per questo caso giudiziario possa non aver giocato un ruolo importante in questo processo. E poiché non voglio fare la figura dello stupido (specie con persone con le quali lavoro) non tento neanche di dire che per chi opera nella Giustizia ogni caso è uguale agli altri.

Penso, sinceramente, che chiunque si sia dovuto occupare professionalmente di questa vicenda ne sia stato coinvolto e comunque abbia sentito il peso della straordinaria attenzione che lo accompagna. Ma altrettanto sinceramente penso che questo peso non abbia condizionato l'affermazione della Giustizia che si manifesta con le sentenze.

Mi spiego: penso che Pubblici Ministeri, Giudici, Giuria Popolare e, perché no, i consulenti dell'Ufficio, abbiano passato degli anni non facili per l'interesse dei media (attenzione di tutti e vili attacchi di qualcuno), ma, alla fine, penso che le sentenze che hanno concluso i processi non abbiano risentito di tutto questo.

L'uomo e la donna della strada pensano che la giustizia sia una cosa da ricchi, pare che infatti presso il carcere psichiatrico di Castiglione delle stiviere Ci sia un gran numero di madri "assassine" che nessuno conosce. Tutte poveracce che non hanno i soldi per l'avvocato Taormina e per il detective privato?

Se guardiamo questa storia con un po' di ironia (non è facile) verrebbe da dire che poche o forse nessuna delle madri assassine rinchiuse a Castiglione delle Stiviere si è presa, con giudizio abbreviato, 30 anni in primo grado e 24 in appello (quindi pene severissime). E nessuna, per andare dietro a ipotetiche tracce miracolosamente scovate da detectives e consulenti più o meno improvvisati, si trova indagata per frode processuale e calunnia. Non so, quindi, se i soldi in questo caso siano serviti a qualcosa. O, comunque, se siano stati spesi bene.

Per dire qualcosa di più serio, invece, è chiaro che i soldi aiutano molto se ci si deve difendere in un aula di Giustizia.  D'altronde non mi vengono in mente molte difficoltà della vita che si affrontino meglio senza soldi.  Ho lavorato troppi anni in carcere per non rendermi conto che è un ambiente dove non si incontrano molti ricchi; ma, per contro, giro troppo il mondo per non essermi persuaso che, in fondo, il nostro sistema Giudiziario è uno dei più giusti per quanto riguarda la possibilità di difesa che viene data a tutti i cittadini.

E poi, in fondo, per tornare al nostro caso, la condanna alla signora Franzoni è stata ridotta in appello grazie alla difesa di un (ottimo) avvocato d'ufficio…

Rispetto alle altre, perchè la Franzoni a parte un breve periodo, non è mai stata in carcere?

Questa è una delle cose che più incuriosisce e spesso scandalizza il cittadino medio, ma se pensiamo un attimo in termini tecnici è una cosa che non deve stupire. Nel nostro sistema Giudiziario l'esecuzione della pena inizia dopo che la condanna diventa definitiva, ossia dopo il terzo grado di giudizio (la Corte di Cassazione), sempre che l'imputato vi ricorra.

Fino ad allora l'imputato può essere incarcerato solo qualora ricorrano le condizioni per la custodia cautelare, che sono pericolo di reiterazione del reato, pericolo di fuga e pericolo di inquinamento delle prove.

Già nel 2002 il Tribunale del Riesame di Torino, che aveva accolto il ricorso della difesa dopo l'arresto della signora Franzoni, ha affermato la mancanza di tali elementi e la Procura Generale non ha chiesto l'arresto neanche dopo la sentenza di appello, non ritenendo che la situazione sia mutata. Che un imputato giunga al proprio processo libero e vada in carcere solo dopo la condanna definitiva ritengo sia un segno di grande civiltà Giuridica.

Il problema è quello della lunghezza dei processi, che nel nostro paese è inaccettabile, per cui la condanna definitiva arriva dopo parecchi anni dai fatti.

Altro fatto che la gente non comprende; voi raccoglievate, o meglio, cercavate delle prove oggettive. Addirittura si è arrivati ad insinuare il dubbio sul suo operato e su quello dei RIS. Mi spiega come funziona la cosa? Qui tutti cercano le loro prove, la domanda può apparire ingenua, ma la verità non è una?

Al giorno d'oggi gli elementi tecnico-scientifici nei processi hanno un rilievo enorme, molto maggiore di quello che avevano anche solo pochi anni or sono. Ciò è dovuto ai progressi delle scienze forensi, davvero straordinari in pochi anni, con la possibilità, oggi, di risolvere casi con l'utilizzo di tecniche fino a poco tempo fa neanche immaginabili. Il rovescio della medaglia è che sempre più ci si aspetta in ogni processo la cosiddetta "prova regina", quella inoppugnabile, che non può essere messa in discussione e inchioda il colpevole.

Nel caso di Cogne, di fatto, l'unico elemento che può essere indicato come prova e non come indizio nella sentenza di primo grado è il fatto che il pigiama della signora Franzoni si sia sporcato di sangue mentre era indossato da chi ha aggredito Samuele. E' chiaro che chi ha difeso Anna Maria Franzoni non poteva che cercare di smontare questo elemento di prova: l'unico non superabile con le semplici motivazioni logiche. E tutti i consulenti che si sono succeduti nelle file della difesa (mi pare siano stati almeno 8) hanno cercato di inventarsi nuove mirabolanti teorie per mettere in dubbio quello che, fin dall'inizio, è stato fatto, dal sopralluogo alle analisi di laboratorio.

E per correre dietro a queste teorie, posso dire serenamente, noi consulenti della Procura abbiamo davvero fatto e rifatto qualsiasi accertamento per verificare se potessero avere un fondamento. Non sono ancora a disposizione le motivazioni della sentenza (ossia il dispositivo che spiega le ragioni per le quali la Corte ha deciso per la colpevolezza), ma se la Franzoni è stata condannata è certo che i dubbi sul nostro operato che si sono letti sui giornali (per la verità solo su alcuni) non sono stati condivisi dalla Giuria.

In termini generali è giusto che la difesa possa controllare e confutare le tesi dell'accusa: fa parte della fisiologia di un processo "sano". Purtroppo, però, i consulenti di parte nel nostro sistema processuale godono di una sorta di impunità etica per la quale possono dire qualsiasi cosa, anche se palesemente falsa, senza che se ne possa poi chiedere conto e senza che gli ordini professionali intervengano.

La prima condanna è stata a trent'anni, la seconda a ventiquattro, quindi di condanna si tratta, perchè questa differenza?

E' semplice. In primo grado non sono state concesse attenuanti. Nell'appello la Corte ha riconosciuto le attenuanti (si tratta di incensurata che ha agito in condizione di disagio psichico) come equivalenti alle aggravanti (fatto compiuto contro il discendente). In questo caso il codice prevede una pena tra i 21 e i 24 anni. Ai 24 anni, ossia la pena maggiore che poteva essere inflitta, è stato poi tolto un terzo per la scelta del rito abbreviato.

Ma il punto è un altro. Mi chiedo se sia giusto parlare di condanna e di anni di galera quando il motivo del processo è la morte di un bambino di tre anni con la testa fracassata nel letto dei genitori. Anche se è stata la madre e alla fine sconterà una giusta pena detentiva, questo darà giustizia a quel bambino? Ho paura che, come per tante altre cose in questo mondo, non ci sia modo di ricostituire un ordine accettabile, di sanare una tragedia così grande. 

Professionalmente pensa che questa esperienza le sia servita?

Dal punto di vista strettamente professionale non è stato certamente un caso di particolare complessità o che mi ha dato, come invece altri, quella soddisfazione ì'''''''''''''''''''che deriva dallo scoprire una verità difficile. E' un caso molto più banale di come l'hanno fatto diventare.

Certamente, invece, è stato unico per l'impatto emotivo legato certamente, da un lato, all'attenzione della gente, ma dall'altro ad un apparato di difesa che ha utilizzato contro di noi, e non per cercare la verità, qualsiasi mezzo.

E con questo intendo la famiglia, gli avvocati, i consulenti e una buona fetta di giornalisti che hanno barattato la obiettività della informazione da loro fornita con un atteggiamento bonario da parte del clan Franzoni, che con una intervista o una comparsa in televisione, di fatto, garantisce lettori ed ascolti. Non mi era mai capitato, e spero non mi capiti mai più, di trovare tanta malafede, tanta strumentalità nell'affrontare l'informazione come in questo caso.

Ho però imparato molte cose e, soprattutto, ho apprezzato molto di più di prima i valori che ho e le persone che mi circondano. Se devo dire cosa mi resta di questo processo, direi certamente la conferma dell'amicizia e della collaborazione ventennale con Luciano Garofano, il comandante del RIS di Parma, l'onore di collaborare con un reparto di livello elevatissimo, dove ogni ufficiale è uno scienziato appassionato del lavoro che fa e la grande solidarietà che c'è stata tra tutti coloro che hanno lavorato al caso presso la Procura della Repubblica di Torino.

Domandone finale: la sua opinione?

La mia opinione la sintetizzerei in una speranza ed in un augurio. La speranza è che il sistema Giudiziario, che nel nostro paese è straordinariamente giusto in termini di garanzie ma è oggettivamente inefficiente per la difficoltà di applicarlo nei fatti, impari da questa vicenda che ci ha mostrato il paradosso di un processo che i media continuano ancora a celebrare, con improvvisati opinionisti che propongono teorie sempre più fantasiose, e che invece in aula, per due gradi di giudizio, ha dimostrato inesorabilmente la colpevolezza dell'imputato, concludendosi con chiare sentenze. E impari che la difficile armonizzazione tra i diritti del singolo e le esigenze di sicurezza dei cittadini, si può raggiungere solo con un serio confronto nel processo, tra professionisti che si attengono alla più rigorosa deontologia, consci che lavorare per la Giustizia non è una passerella televisiva ma un servizio che si presta alla società, e del quale bisogna essere fieri. Possibilmente in silenzio.

L'augurio, credimi, non retorico, è che le persone per bene ogni tanto pensino a quel bambino e non alla vicenda processuale che i giornali ci hanno raccontato. Solo per tornare a casa e poter dare un bacio ai propri figli con gli occhi un po' più lucidi del solito…

* Roberto Testi, dirigente della Medicina Legale asl 3 di Torino, uno dei più autorevoli medici legali d’Italia, collaboratore da anni del Ris

Intervista  a cura di Arnaldo Sanità

 
 
 
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