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Un Paese orfano della democrazia è un Paese senza i comunisti in Parlamento e un popolo di sinistra poco lucido nelle scelte

Post n°4165 pubblicato il 24 Dicembre 2010 da cile54

Paese reale senza rappresentanza

Si è tanto parlato negli anni scorsi di due società, di due o tre Italie, e così via. Ma ciò che sta succedendo negli ultimi mesi fa impallidire i tentativi tradizionali di analizzare le fratture sociali mai ricomposte in questo paese. Il 14 dicembre è stato l'emblema di una spaccatura, forse irreversibile, tra il mondo autistico della politica e quello reale degli studenti, dei precari, degli immigrati, dei lavoratori, dei sommersi e degli abbandonati (come gli abitanti dell'Aquila). Si prova un moto di fastidio davanti ai Bondi, alle Rosi Mauro, alle Gelmini, ai Maroni, a tutti questi feroci comprimari impegnati, contemporaneamente, nella difesa spasmodica del Capo e in un programma di restaurazione liberista che dia un senso compiuto alla destra allo sbando.

E gli altri? Appannata la figura di Fini, restano il centro opportunista e una sinistra parlamentare priva di idee, di progetti, di qualsiasi appeal. Basti pensare a Fassino, tolto dalla naftalina per finire la carriera a Torino, allo stucchevole balletto tra D'Alema e Veltroni, gli eterni perdenti, all'incognita Vendola che sembra giocarsi tutta tra l'appello ai sentimenti e l'entrismo in un Pd privo di identità.

Tutto ciò non ha più nulla a che fare con il paese reale. E questo può spiegare, stando ai sondaggi, il disinteresse dilagante per la politica elettorale: un 30% di indecisi, tra il 30 e il 40 di potenziali astenuti. Ma perché i giovani e vecchi disoccupati, gli studenti privi di futuro, gli operai mollati dai sindacati, i futuri pensionati, a cui si dice che in pochi anni perderanno un terzo del reddito, dovrebbero appassionarsi all'alternativa tra Berlusconi e Fini, tra una destra trucida e una in doppiopetto, magari con l'appoggio del Pd?

La banale verità è che un pezzo gigantesco di società non è più rappresentato, né nella politica locale, né in quella nazionale e nemmeno in quella sindacale. A modo suo, Berlusconi rappresenta, materialmente e simbolicamente un mondo esistente, l'Italia dispotica di sempre, così come la Lega l'ottuso egoismo padano. Ma gli altri? Non è facendo un giretto sui tetti che si rappresenta un movimento che non si batte solo contro una sciagurata riforma dell'università, ma, se si guarda lontano, contro l'esclusione di massa.

E con ciò la lotta di questi giorni si collega, e non solo idealmente, con quelle che investono tutta l'Europa. Incapace di innovare in economia e tecnologia, chiuso nei suoi nazionalismi, prono all'europeismo bancario, il vecchissimo continente non sa far altro che tagliare le risorse pubbliche, affidarsi ai privati, smantellare, una dopo l'altra, le istituzioni che mantenevano un minimo di senso sociale. Amputando la scuola e l'università in nome del rigore e del merito, dei conti pubblici e della lotta all'inflazione, le destre al potere in Europa non stanno solo decretando la marginalità per le giovani generazioni. Stanno impoverendo un continente già emarginato nei giochi globali. E soprattutto gettando le basi per un autoritarismo dagli sviluppi imprevedibili.

C'è poco da alzare le spalle quando il governo ungherese adotta un provvedimento-bavaglio contro la stampa. Questo, se pensiamo a Sarkozy e Berlusconi, comincia a riguardarci direttamente. D'altronde una politica impopolare come quella della destra in Europa non può reggere alla lunga, se non ricorrendo a qualche prova di regime.

La scelta della piazza, in questa fase deprimente della nostra storia, non è solo uno strumento di pressione contro le politiche liberiste nei campi dell'istruzione e del lavoro. E' anche un modo di manifestare un'esistenza collettiva, di auto-rappresentarsi, di parlare al resto della società o in suo nome. E' un modo di raccogliere le proteste di chi è costretto, perché privo di voce o visibilità, ad arrampicarsi sulla cima delle gru, sui tetti delle fabbriche, delle facoltà e dei centri di identificazione ed espulsione. E' un modo di opporsi alla vacuità della politica di casta e di classe.

C'è da sperare che le voci di questi giorni siano riprese da chi rappresenta i lavoratori e da ciò che resta della sinistra in Italia. Se così non fosse, e ci si limitasse alle solite giaculatorie contro la violenza dei pochi o alle litanie sul senso di responsabilità e così via, si perderebbe un'occasione storica di invertire o almeno fermare il cammino verso l'autoritarismo.

Alessandro Dal Lago

23/12/2010

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