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150 anni: non solo l’Italia degli eroi, ma l’Italia degli intrighi, dei ladri, dei corruttori. Senza memoria non c'è futuro!

Post n°4466 pubblicato il 13 Marzo 2011 da cile54

Giusto ricordare i fondatori della 'giovine' nazione. Ma non dimentichiamo la piaga che dal 1861 perseguita il popolo italiano. Storia delle nostre mani nere che Sergio Turone comincia a scrivere nel 1984, libro tragicamente attuale. Da rileggere

«Ecco perché riteniamo che la denuncia documentata e sobria del malcostume politico, lungi dall’essere sfogo fustigatorio, sia un oggettivo contributo alla governabilità delle democrazie. I partiti di potere sono apparsi finora incapaci di cogliere la valenza soprattutto politica della “questione morale”». Sono passati quasi trent’anni da quando Sergio Turone – giornalista, docente universitario e parlamentare, scomparso nel 1995 – pronunciò queste parole. Due anni prima la Rai dei partiti aveva “accantonato” l’amico e collega Corrado Stajano, dopo alcune sue inchieste tv dedicate a Piazza Fontana e ad altri fattacci della storia italiana. Sono tanti i giornalisti che, da allora, hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti dei “fascismi dal linguaggio democratico”, per citare il titolo di uno dei paragrafi introduttivi del libro di Turone “Corrotti e corruttori. Dall’Unità d’Italia alla P2”, pubblicato da Laterza nel 1984.

Libro di successo, oggi dimenticato. Sequestrato in un primo momento dal tribunale di Varese in seguito alla denuncia di Umberto Ortolani, allora potentissimo braccio destro di Gelli, condannato in via definitiva nel 1998 a 12 anni per il crack del Banco Ambrosiano, morto tuttavia nel letto di casa sua a Roma, nel 2002. Destino identico a quello di un altro saggio pubblicato in quel periodo dall’editore barese: “Il banchiere di Dio. Roberto Calvi”, traduzione dell’inchiesta del giornalista inglese Rupert Cornwell. Sono passati trent’anni da quel 1984: data spartiacque nella storia della Repubblica, iniziava con l’omicidio del coraggioso giornalista Pippo Fava, direttore de “I Siciliani” (5 gennaio) e conclusosi nel sangue con 15 morti e centinaia di feriti sul Rapido 904 (23 dicembre, “la strage di Natale”). In giugno era morto Enrico Berlinguer, lasciando un vuoto che si dimostrerà incolmabile. A ottobre Craxi aveva partorito il decreto che salva Berlusconi dall’ordinanza dei pretori che impediva alle reti Fininvest di continuare ad aggirare il monopolio Rai. Un «decreto – scriverà nel 1990 un certo Vittorio Feltri – che perfino in una repubblica delle banane avrebbe suscitato scandalo e sarebbe stato cancellato dalla magistratura, in un soprassalto di dignità, e che invece in Italia è ancora spudoratamente in vigore senza che i suoi genitori siano morti suicidi per la vergogna». Decreto approvato definitivamente nel 1985 grazie ad un voto di fiducia col quale Craxi espropriò la sovranità del Parlamento. “Stupro politico” che venticinque anni dopo il Caimano ha trasformato in routine istituzionale.

In realtà, solo il capitolo finale del libro di Turone è dedicato al “partito piduista (1978-1983)”. Audace ma rigorosa controstoria d’Italia, autobiografia non autorizzata dei poteri nazionali (costantemente influenzati da poteri extranazionali, a cominciare da quello d’Oltretevere). Storia appassionante che inizia con un agguato notturno: «Vigilia dell’estate 1869 a Firenze. L’Unità d’Italia ha solo otto anni di vita, Roma è ancora sotto il papa. È una notte senza luna. I lampioni a gas non bastano che a rendere meno compatto il buio. Rumori di rade carrozze, pochissimi passanti. Mezz’ora fa è suonato il tocco, a separare il 14 dal 15 giugno. È una notte totale, come dovevano essere le notti del secolo passato. Firenze è la capitale del Regno. Un uomo cammina rapido per via Sant’Antonino: è Cristiano Lobbia, un deputato della Sinistra. (…) uno sconosciuto gli si avventa contro vibrando un pugnale. La lama è diretta al cuore, ma il cuoio duro del portafogli la fa deviare. L’aggredito – un uomo aitante, sui quarant’anni – non resta passivo. I due rotolano sul marciapiedi. Il deputato ha in tasca una pistola, ma la stretta dell’aggressore gli impedisce di estrarla. Il pugnale scende altre due volte; la seconda ferita, alla testa, è abbastanza seria. Ma nel frattempo Lobbia è riuscito a estrarre la pistola e fa fuoco. Forse ferito, il sicario fugge. Il deputato sanguina, ma è salvo. Accorre gente. Con questa sequenza potrebbe aprirsi il film sulla corruzione politica in Italia, se il regista – così fortunato da trovare un produttore disposto a finanziare un’impresa tanto rischiosa – volesse dare fin dall’inizio, in termini spettacolari, un’idea veritiera della tumultuosa vivacità che ha sempre caratterizzato il rapporto tra lotta politica e affarismo. (…) fu l’episodio più drammatico di quel clamoroso “scandalo della Regìa” (così allora si chiamava il Monopolio dei Tabacchi) attorno al quale si sviluppò una lotta sorda e violenta in parlamento, nei tribunali, nelle piazze, e soprattutto negli uffici felpati delle banche e in quelli inaccessibili dei ministeri». Cosa aveva combinato questo deputato – morto sei anni dopo, a soli 45 anni – per meritarsi tre pugnalate dirette al cuore? «Lo scandalo della Regìa maturò fra il 1868 e il 1869. Presidente del Consiglio era Luigi Federico Menabrea, uomo di assoluta fiducia dei Savoia, già aiutante di campo di Vittorio Emanuele II. Ministro delle Finanze – e promotore dell’operazione – era il marchese Luigi Guglielmo Cambray-Digny, esponente della grande proprietà terriera. La Sinistra all’opposizione. (…) Nel decalogo dell’uomo di potere, un comandamento fondamentale insegna – quando si vuole imporre una certa scelta – a contrabbandarla come una “riforma”. Usava così anche allora. (…) Si riteneva utile affidare la Regìa dei Tabacchi – disse il ministro Cambray-Digny nella relazione alla Camera – a “una associazione di capitalisti, la quale, svincolata dai molti legami e tradizioni degli uffici governativi, potesse sradicare gi abusi, procedere a decisive riforme, ed avere l’interesse privato a sprone nell’introdurvi quelle norme e quei sistemi più semplici e capaci di cavarne un prodotto maggiore”. È curioso: lo Stato italiano aveva sette anni, e già un suo ministro parlava in termini così spregiativi di “legami e tradizioni degli uffici governativi”».

La controstoria prosegue, mostrandoci via via quanto siano radicati i guasti della politica italiana: dall’ambiguità della sinistra di Crispi e Depretis («Nacque allora la formula definita del “trasformismo”, che, presumibilmente concepita come strumento utile a garantire quella che oggi definiremmo “governabilità”, si risolse in un elemento di corruzione spicciola e di cooptazione interessata»), all’omicidio del banchiere Emanuele Notarbartolo, pugnalato e scaraventato fuori dal treno Messina-Palermo, nel 1893: assassinio che «chiosava col sangue, per intervento di mafia, gli sviluppi siciliani dello scandalo scoppiato a Roma con il crack della Banca Romana». Un caso di giustizia manipolata, uno dei tanti delitti impuniti della nostra storia. Fino agli scandali affaristici del fascismo, denunciati e pagati con la vita da Giacomo Matteotti: il “tesoro misterioso” di Farinacci, gli “scandali d’alcova nella concorrenza fra gerarchi”, lo champagne e il caviale del “sultano” Italo Balbo (governatore della Libia!). E ancora la scomparsa dell’oro e dei soldi che Mussolini aveva con sé quando fu fermato dai partigiani a Musso, sul lago di Como, il 25 luglio 1945.

Sergio Turone arriva poi a descrivere la nascita della Repubblica, raccontando l’evoluzione di quella che definisce “cinismocrazia”: dal caso Montesi, all’amante segreta del ministro Scelba; dallo scandalo Lockheed a quello dell’Italcasse, dal caso Moro alla fuga a Parigi – favorita dall’allora presidente del Consiglio, Francesco Cossiga – del terrorista rosso Marco Donat Cattin, figlio dell’ex ministro democristiano Carlo e membro del commando di Prima Linea che aveva ucciso il giudice Emilio Alessandrini. Bisognerà aspettare Tangentopoli e le stragi del 1993 perché la corruzione torni, per un attimo, al centro dell’attenzione dei telespettatori italiani. La Democrazia Cristiana e il potere craxiano furono costretti (finalmente) a farsi processare. Intanto il Potere aveva già deciso – sulla pelle del popolo italiano – i nuovi equilibri della cosiddetta seconda Repubblica. Com’era accaduto nel 1962 con l’eliminazione di Enrico Mattei – fatto che sancì la definitiva subalternità (politica, economica e culturale) dei governi italiani a quello statunitense -, l’Italia nel 1993 vide scomparire di scena alcuni tra i protagonisti del potere economico: Raul Gardini, Sergio Castellari, Gabriele Cagliari. È la stagione di Mani Pulite, ennesima rivoluzione mancata: da allora la corruzione è aumentata. Meno tangenti, più evasione fiscale; meno mazzette, più finanza creativa; meno lavoro, più controllo sociale; meno nascite, più clericalismo; meno bombe, più tv. Partitocrazia e terrorismo hanno lasciato il posto alla telecrazia. Ma la lobotomizzazione catodica degli italiani era iniziata da tempo. Esempi straordinari di italiani come Tina Anselmi e Sandro Pertini, a prescindere dai processi, avevano capito – e lo dicevano – che la loggia P2 era una «associazione per delinquere».

Effettivamente le attività svolte dalla P2 erano note ben prima della scoperta degli elenchi (incompleti) di Gelli. Proprio per questo il vero scandalo furono le mancate dimissioni, prima, e il ritorno sulla scena, successivamente, di tanti politici presenti in quella lista. Basti pensare che Mino Pecorelli – “capo dell’ufficio stampa della P2” ucciso nel 1979 – già nel ’77 descriveva così i suoi “fratelli”: «Si ha un bel dire che sia un covo di golpisti e sovversivi… Vi aderiscono personaggi politici delle più diverse espressioni, ma tutti di primo piano; militari, magistrati, alti funzionari della pubblica amministrazione. Si può dire che Gelli rappresenti quel che resta dello Stato. E ormai si può aggiungere pure che tutti insieme i fratelli della P2 hanno giurato di far giustizia e pulizia».

Dopo l’84 le Anselmi e i Pertini scomparvero progressivamente dalle istituzioni, dai partiti, dalla televisione e, infine, dall’immaginario degli italiani. Avanzava un nuovo che nuovo non era: Silvio Berlusconi, il signor Tv, tessera P2 n. 1816. Campione mondiale di maleducazione civica. Ennesimo contributo negativo dell’Italia alla storia d’Europa.

Il mondo nel frattempo è cambiato, ma la questione morale in Italia resta questione primaria ed irrisolta. Proprio come il conflitto d’interessi. Chissà se un giorno i testi scolastici racconteranno chi, come e perché nel 1994 gli consentì di candidarsi e di essere eletto, in barba alla legge. Gli italiani del futuro si vergogneranno della lunga accondiscendenza al berlusconismo/piduismo, spesso travestita da “moderazione”. Equilibrismo spacciato per equilibrio.

Già, il futuro. Cosa sta per succedere al Belpaese? L’Italia s’è desta? Le scosse mediterranee contageranno anche il nostro suolo? Forse. Vedremo se i giovani d’oggi si dimostreranno meno addomesticabili dei giovani cresciuti nell’Italia governata da Licio Gelli. Intanto la storia d’Italia, come ai tempi del generale Dalla Chiesa, si gioca ancora tra Milano e Palermo. Tra il Palazzo, le piazze e le procure. Al posto del bianco DC c’è l’azzurro forzitaliota; al posto dell’edera repubblicana un acido verde leghista; al posto del rosso socialista e comunista c’è il rosso della vergogna e di una crescente indignazione popolare. Turone non poteva prevederlo. Ma anche oggi che la degradazione antropologica denunciata da Pasolini è arrivata al culmine, forse, non cambierebbe il finale del suo libro di storia: «analizzare il fenomeno della corruzione politica, scriverne, discuterne, sottrarsi all’omertà cinica della rassegnazione, giova, se non a eliminare la piaga, a contenerne la pericolosità e a dimostrare che anche in politica l’onestà non è – o non sempre – una fatica inutile».

Fortunatamente la storia non è fatta solo dal Potere: i suoi percorsi sono segnati anche dai passi di chi continua a camminare in direzione ostinata e contraria. Lo scorso 1° marzo, mentre gli stranieri d’Italia scioperavano, è partita la Carovana antimafie di Libera: 96 giorni attraverso regioni italiane e nazioni vicine, per un totale di 17.440 chilometri. Realismo ed ottimismo si fondono nelle parole di don Luigi Ciotti: «Sono 150 anni dall’unità d’Italia, sono 150 anni di presenza criminale mafiosa nel nostro Paese, ma anche 150 anni di lotte contro la violenza criminale». E il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso lancia un messaggio, forte e chiaro, agli italiani: «E’ vero che i garibaldini partirono in mille – dice – ma arrivarono in Toscana che erano già decine di migliaia, perchè il germe della ribellione ai Borbone era già nell’aria. Oggi come allora si svegli ora la voglia di alzare la testa, in particolare tra i giovani. Per questo il ruolo della cultura e della scuola è fondamentale».

Come nel 1861 e come nel 1943, oggi siamo ad un bivio: risorgere o rassegnarsi.

Riccardo Lenzi

07-03-2011

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Roma, 12 maggio 1977

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