RACCONTI & OPINIONIPagine di Lavoro, Salute, Politica, Cultura, Relazioni sociali - a cura di franco cilenti |
Segui il nuovo blog "Lavoro e Salute" su wordpress www.blog-lavoroesalute.org
---------------------------------------
Chi è interessato a scrivere e distribuire la rivìsta nel suo posto di lavoro, o pubblicare una propria edizione territoriale di Lavoro e Salute, sriva a info@lavoroesalute.org
Distribuito gratuitamente da 37 anni. A cura di operatori e operatrici della sanità. Finanziato dai promotori con il contributo dei lettori.
Tutti i numeri in pdf
LA RIVISTA NAZIONALE
MEDICINA DEMOCRATICA
movimento di lotta per la salute
TUTTO IL CONGRESSO SU
AREA PERSONALE
MENU
CERCA IN QUESTO BLOG
MAPPA LETTORI
Messaggi del 02/06/2012
Post n°6458 pubblicato il 02 Giugno 2012 da cile54
|
Post n°6457 pubblicato il 02 Giugno 2012 da cile54
I MALATI GRAVISSIMI ANCORA IN PIAZZA PER DIRE AL GOVERNO: NON DIMENTICATECI!
A PARTIRE DALLE ORE 10,30 DEL 7 GIUGNO, DAVANTI AL MINISTERO DELL'ECONOMIA
|
Post n°6456 pubblicato il 02 Giugno 2012 da cile54
La Sicilia “pattumiera” degli Usa: allarme acqua avvelenata a Sigonella e Niscemi!
Dichiarazione di Luca Cangemi del coordinamento nazionale della Federazione della Sinistra, che cita un giornalista di valore come Antonio Mazzeo. “Il giornalista Antonio Mazzeo riprendendo fonti ufficiali delle forze armate americane ha lanciato un grave allarme circa il fatto che l’acqua della base di Sigonella e dell’installazione di telecomunicazioni di Niscemi è stata contaminata dal bromato e al personale militare, è stato ordinato di non bere più dai rubinetti. Origine della presenza della sostanza, che può avere gravissimi effetti sulla salute umana, sarebbero le procedure adottate dagli stessi apparati militari statunitensi per la disinfezione delle acque. Questa inquietante notizia rilancia la preoccupazione sul devastante impatto ambientale delle basi americane nell’isola. In particolare già in passato era stato denunciato che la base di Sigonella sia una vera e propria idrovora che monopolizza una parte consistente delle risorse idriche del territorio. Ci chiediamo quali sono le informazioni che sull’avvelenamento delle acque nelle basi americane hanno le autorità statali del nostro paese e gli enti locali delle provincie di Catania, Siracusa, Caltanissetta e quali sono le misure messe in atto per prevenire che i cittadini italiani che vivono sul vasto territorio interessato alla presenza delle basi possano essere danneggiati da questo ennesimo comportamento irresponsabile delle forze armate degli Stati Uniti?”
1 giugno 2012 Leggi anche http://www.cadoinpiedi.it/2012/04/09/il_ministero_teme_che_la_base_usa_ |
Post n°6455 pubblicato il 02 Giugno 2012 da cile54
Il terremoto scopre la classe operaia migrante Il terremoto non discrimina tra cittadini e meteci, tra chi ha la nazionalità italiana e chi è reputato così inferiore che la sua nazionalità è detta “etnia”, se mai distingue tra borghesi e proletari. Colpisce più spesso i secondi, soprattutto se operai costretti dal padrone a lavorare mentre la terra trema e con essa i capannoni mal costruiti. Lo dicono chiaramente le cifre: fra le 24 vittime delle due ondate sismiche 4 erano persone immigrate; fra le 17 della seconda ondata, 12 sono morte sui luoghi di lavoro. La catastrofi se ne infischiano dei sacri confini padani inventati dalle menti malate di malfattori in camicia verde. Smascherano le retoriche razziste dell’invasione degli alieni praticate da tribuni di ogni risma, compresi quelli a cinque stelle. Smentiscono la leggenda dell’ “estraneità radicale non integrabile” degli islamici propalata dal preteso campione del pensiero liberale, Giovanni Sartori. Mostrano che, sebbene esclusi dalla nazionalità italiana, loro e la loro progenie, i migranti appartengono al nostro stesso paese. Si spaccano la schiena nei capannoni industriali, fanno i turni di notte, lavorano in condizioni estreme nei cantieri edili e nelle campagne del Sud e del Nord, garantiscono la sopravvivenza di molte attività produttive, insomma contribuiscono all’economia italiana con un apporto ben superiore alla loro incidenza demografica. E non solo: i meteci formano famiglie, mandano i figli a scuola, affidano all’Italia il futuro loro e della loro prole. Tarik Naouch, cittadino marocchino, morto la notte del 20 maggio nel crollo del capannone di una fabbrica di polistirolo, la Ursa di Ponte Rodoni di Bondeno, aveva 29 anni e da sei lavorava in quello stabilimento. Lavorava duro, anche di notte, per poter accogliere degnamente la giovane moglie ancora in Marocco. Era bambino quando approdò in Italia con i genitori da Beni Mellal, una delle regioni più povere del paese, fucina di emigrazione a ciclo continuo fin dagli anni settanta. Nel Belpaese aveva trascorso quasi tutta la sua vita, ma non era cittadino italiano. Eppure doveva sentirsi così responsabile che, dopo essere fuggito dal capannone alle prime scosse, era rientrato in fabbrica per azionare i sistemi di sicurezza, raccontano i suoi compagni, ed è stato allora che un pilone gli è crollato addosso. Anche Mohamed Arzak, vittima della seconda ondata sismica, era un cittadino marocchino, anch’egli operaio, anch’egli morto durante il turno di notte per il crollo del capannone della fabbrica: la Meta, una ditta di meccanica di precisione, nel polo industriale di San Felice sul Panaro. Aveva 46 anni ed era molto conosciuto a San Felice perché era il responsabile del centro islamico. Qualcuno lo riferisca a Sartori: perfino un alieno così credente da dirigere un centro islamico può essere un buon lavoratore, un onestuomo rispettato e “integrato”. La seconda vittima del crollo della Meta è Kuman Pawan, 27 anni, indiano del Punjab, che in quella fabbrica lavorava da ben cinque anni. Pur così giovane, aveva a suo carico la moglie e due bambini piccoli. Compagni di lavoro e familiari raccontano che anche lui, come Mohamed, temeva di tornare in quel vecchio capannone insicuro. Ma il padrone aveva preteso che si riprendesse a lavorare, malgrado il rischio enorme che già il primo terremoto aveva mostrato tragicamente. È probabile che Mohamed e Kuman si fossero infine piegati a quell’ordine assurdo per timore di perdere il lavoro. Se si è immigrati, il licenziamento significa perdere non solo occupazione e reddito, ma anche il permesso di soggiorno e quell’avanzamento minimo di status e di sicurezza che esso comporta. Dell’ultima vittima di nazionalità “straniera” non sappiamo altro se non che si chiamava Li Hongli Zhou, morto a Mirandola mentre cercava di fuggire dal crollo della sua casa. Oggi i mezzi d’informazione arrivano perfino a chiamare con nome e cognome le vittime “straniere”, a corredare le notizie con qualche cenno alle loro biografie, sottraendole così, per una volta, al magma dell’alterità indistinta in cui di solito annegano l’individualità dei migranti. Quando l’attenzione e la commozione si saranno spente, torneranno a parlare di “extracomunitari”, “clandestini”, “individui di etnia cinese”, “delinquenti di etnia latino-americana” (cito alla lettera). Noi, invece, dovremmo far tesoro della lezione che la catastrofe ci consegna: i meteci – inclusi nell’economia, ma esclusi da diritti civili e politici, perfino da alcuni diritti sociali – sono parte integrante della classe operaia, così negletta eppure così indispensabile e valorosa. Per ricompattare la classe, come si diceva un tempo, e renderla capace di resistere agli assalti della crisi, alle politiche di austerità e ai loro dissennati gestori, occorre battersi non solo contro il progetto di seppellire l’articolo 18 e altri diritti fondamentali, ma anche affinché i meteci possano diventare cittadini a pieno titolo: almeno sulla carta, per cominciare. Intanto conviene rilanciare la più realistica rivendicazione del Coordinamento Migranti di Bologna e provincia: ai cittadini immigrati sia garantito il rinnovo del permesso e della carta di soggiorno, anche se nei prossimi due anni non potranno soddisfare i criteri di lavoro, reddito, abitazione previsti dalla legge; la tassa per il rinnovo del permesso sia sospesa per i prossimi due anni; sia assicurato trattamento uguale nei soccorsi e nell’assistenza, a prescindere dalla regolarità del soggiorno. Annamaria Rivera 01/06/2012 www.ilmanifesto.it |
Post n°6454 pubblicato il 02 Giugno 2012 da cile54
LAVORO: LA TRUFFA DEL REINTEGRO
Non avrei mai pensato di rivolgere al presidente Monti e al ministro Fornero la stessa domanda (retorica) tante volte fatta a B&C: ma ci siete o ci fate? E invece… L’art. 14 comma 7 del ddl sulla riforma del lavoro (Tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo) dice: “il giudice che accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (sarebbe il licenziamento per motivi economici) applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del medesimo articolo” (il reintegro ). E, poco più avanti: “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”. Che consiste nel dichiarare “risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva” (l’indennizzo).
TUTTO RUOTA intorno a due paroline: “manifesta insussistenza”. Cosa vogliono dire? In linguaggio comune è semplice: il fatto posto alla base del licenziamento non esiste; perciò il lavoratore va reintegrato nel posto di lavoro, poche storie. Ma, per un giurista, insussistenza senza aggettivi è cosa diversa dall’insussistenza “manifesta”. Il giurista si chiede: ma perché questi hanno sentito il bisogno di scrivere che l’insussistenza deve essere “manifesta”? Un fatto o sussiste o non sussiste; quanto sia complicato accertare che esista non incide sulla sua esistenza, solo sulla difficoltà della prova.
Per capirci meglio, un assassino va condannato sia che lo si becchi con il coltello sanguinante in mano, sia che la sua responsabilità emerga dopo un complicato lavoro di indagine (movente, alibi, testimonianze etc). Dunque, pensa il giurista, questi hanno scritto “manifesta insussistenza” proprio per differenziare questi casi da quelli in cui c’è l’insussistenza semplice; e per differenziare il trattamento conseguente, reintegro nel primo caso, solo indennizzo nel secondo.
Come tecnica legislativa non è una novità. Quando, in un processo, si solleva un’eccezione di illegittimità costituzionale, il giudice la accoglie solo quando la questione non è “manifestamente infondata”. Se è sicuro che la legge è conforme alla Costituzione, respinge l’eccezione. Insomma, solo quando il giudice ha qualche dubbio sulla costituzionalità della legge (o, naturalmente, quando è sicuro che sia incostituzionale), chiede alla Corte costituzionale di valutare. Ne deriva che la Corte non riceve tutte le questioni di illegittimità costituzionale ma solo quelle che i giudici ritengono “non manifestamente” infondate. Può darsi che tra le altre, quelle che il giudice ha respinto (sbagliando), ce ne fossero di fondate; ma la loro fondatezza non era “manifesta”; e quindi…
Tornando all’art. 18, siccome i criteri di interpretazione giuridica delle leggi questi sono (art. 12 del codice civile), ne deriva che il giudice potrà reintegrare il licenziato solo quando, da subito, senza indagini, senza prove, “manifestamente ”appunto, è sicuro che il motivo economico non sussiste. Se invece dubita, se per decidere deve acquisire prove, allora niente reintegro. E cosa al suo posto? Ma è chiaro, l’indennizzo. E infatti Monti-Fornero lo dicono espressamente: “nelle altre ipotesi”, cioè quando l’insussistenza del motivo economico va accertata con una normale istruttoria dibattimentale (prove, testimonianze, perizie), quando dunque non è “manifesta”, di reintegro non se ne parla. Magari alla fine salterà fuori che il motivo economico non c’è; ma, siccome è stato necessario un vero e proprio processo per rendersene conto, niente reintegro, solo un po’ di soldi.
DA QUI DERIVANO TRE CONSEGUENZE MICIDIALI:
LA PRIMA: Il reintegro per motivi economici non ci sarà mai. Davvero si può pensare che un’azienda licenzi con motivazioni che da subito, senza alcun dubbio, “manifestamente”, si capisce che sono una palla? Se anche la motivazione economica è infondata, sarà certamente motivata bene; e quindi sarà necessario un normale processo, come si fa sempre. Solo che, a questo punto, l’insussistenza del motivo economico, anche se accertata, non è “manifesta”; e il lavoratore non potrà essere reintegrato.
LA SECONDA: I giudici saranno in un mare di guano. Perché, in alcuni casi, l’insussistenza del motivo economico ci sarà; ma, per essere sicuri, un po’ di istruttoria va fatta. Un giudice non può dire: “È così’”. Deve motivare perché è così; e per questo è necessaria l’istruttoria. Ma, se la fa, addio reintegro. Mica male come dilemma.
LA TERZA: Aseconda dell’interpretazione che il giudice darà del concetto “manifesta insussistenza” gli diranno che è uno sporco comunista o uno sporco capitalista. Della serie: “Se la mente del giudice funziona, la legge è sempre buona” (Snoopy sul tetto della sua cuccia). “Certo che con questi giudici…; anche le leggi migliori, che il sindacato si è ammazzato per ottenerle (o che il governo si è dannato per scriverle), non funzioneranno mai. La responsabilità per gli errori dei magistrati, ecco quello che ci vuole”.
Ma, a questo punto: davvero Camusso & C, Bersani & C, a tutto questo non ci hanno pensato? O si sono accontentati di una (finta) dimostrazione di forza, del tipo: “Abbiamo costretto il governo etc etc; guardate come siamo bravi”?
Bruno Tinti ex magistrato http://giacomosalerno.wordpress.com 12/4/2012 |
L'informazione dipendente, dai fatti
Nel Paese della bugia la verità è una malattia
(Gianni Rodari)
SI IUS SOLI
notizie, conflitti, lotte......in tempo reale
--------------------------
www.osservatoriorepressione.info
G8 GENOVA 2011/ UN LIBRO ILLUSTRATO, MAURO BIANI
Diaz. La vignetta è nel mio libro “Chi semina racconta, sussidiario di resistenza sociale“.
Più di 240 pagine e 250 vignette e illustrazioni/storie per raccontare (dal 2005 al 2012) com’è che siamo finiti così.
> andate in fondo alla pagina linkata e acquistatelo on line.
Giorgiana Masi
Roma, 12 maggio 1977
omicidio di Stato
DARE CORPO ALLE ICONE