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Messaggi del 03/06/2012

 
 

Come in Grecia, l'attacco allo stato sociale mette a rischio le condizioni psicofisiche della gran parte degli italiani

Post n°6461 pubblicato il 03 Giugno 2012 da cile54

MAL DI CRISI

 

Nel 2013-2014 il sistema sanitario dovrà realizzare risparmi per 8 miliardi. Esperienze di altri paesi, non ultima la Grecia, mostrano che una grave crisi economica e politica ha dirette ripercussioni sullo stato di salute dei cittadini. Perché aumenta lo stress psicologico legato all'incertezza e perché la diminuzione del reddito non consente più l'accesso ad alcune cure. Ancora più gravi le conseguenze se a essere messo discussione è l'intero sistema istituzionale e di stato sociale. Il ruolo di collante dell'unità nazionale svolto in passato dal Ssn.

La manovra del luglio 2011, oltre ai nuovi ticket per visite ed esami specialistici (circa 800 milioni a regime), ha programmato per il Sistema sanitario nazionale 8 miliardi di risparmi da realizzare nel 2013-14 attraverso misure, da definire in accordo con le Regioni, concernenti la spesa farmaceutica, per il personale e per dispositivi medici e l’introduzione di ulteriori ticket. E probabilmente non è finita qui. È presto per verificare le possibili conseguenze della manovra in sanità, ma si può avanzare qualche riflessione.

 

LA SALUTE DOPO I TAGLI

Un rapporto dell’Unicef riporta il caso particolarmente grave dei paesi in transizione dal socialismo reale all’economia di mercato: in Russia, Estonia, Lituania, le difficoltà si sono tradotte addirittura in un cambiamento delle tendenze demografiche (aumento del tasso di mortalità, riduzione della fertilità e dei matrimoni), un evento eccezionalmente raro. La spiegazione può essere cercata nella crisi economica, con conseguente incremento della disoccupazione e della povertà, nell’aumento dell’alcolismo e nel degrado dei servizi sanitari, ma un fattore fondamentale è stato individuato nell’aumento dello stress psicologico e nello sconquassamento generale delle istituzioni.

Oggi, la Grecia sprofonda in una grave crisi economica e politica, che ha dirette ripercussioni sulla sanità: stato di salute dichiarato in peggioramento e aumento delle rinunce a visite mediche, spesso per motivi di accesso fisico; per gli ospedali, riduzione del 40 per cento dei bilanci, carenze di personale, probabile uso di mance per saltare le code, aumento dei ricoveri nel settore pubblico (+24 per cento nel 2010 e +8 per cento nella prima metà del 2011) e diminuzione nel privato (-25/30 per cento); aumento dello stress sociale, segnalato dall’incremento dei suicidi (+17 per cento nel 2009 rispetto al 2007, +25 per cento nel 2010 e +40 per cento nella prima metà del 2011), legati spesso all’indebitamento; raddoppio degli omicidi e dei furti tra il 2007 e il 2009; aumento delle infezioni da Hiv del 50 per cento nel 2011; diminuzione dei soggetti in grado di ottenere indennità di malattia; aumento dell’uso, da parte dei greci, delle “ cliniche di strada” gestite dalle ong, prima frequentate dagli immigrati (dal 3-4 per cento al 30 per cento). (1) Un rapporto Unicef-università di Atene denuncia la presenza di 439mila bambini in famiglie (il 20 per cento del totale) sotto la soglia di povertà, con diffusi problemi di denutrizione e condizioni di vita malsane, casi di svenimenti a scuola, ritorno del lavoro minorile. (2)

In definitiva, sembra che gli effetti dei risparmi in sanità, attuati in fase di recessione, possano essere più o meno gravi a seconda delle diverse: 1) condizioni epidemiologiche e il livello tecnologico delle cure richieste; 2) capacità di gestire i tagli secondo criteri di costo-efficacia invece di ridurre l’accesso; 3) grado di aumento del rischio sociale; 4) tenuta delle istituzioni.

 

COME STA L’ITALIA

In Italia la mortalità è legata alle patologie dell’età matura, che richiedono trattamenti costosi e un mix di interventi sanitari e assistenziali. Pertanto i tagli di spesa solo in parte possono essere compensati da una più mirata allocazione delle risorse o controbilanciati da un progresso tecnico cost saving.

Il sistema è complessivamente poco costoso (spesa sanitaria pubblica/Pil nel 2009 pari al 7,4 per cento, inferiore a Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti), ma sottoposto da anni a una ristrutturazione difficile. Il deficit complessivo del Ssn, pari al 5,1 per cento del finanziamento nel periodo 2001-2005, è calato al 2,3 per cento nel 2010: il Lazio ha ridotto il disavanzo del 36 per cento, la Campania del 43 per cento e la Sicilia dell’89 per cento. Tuttavia, non sono garantiti ovunque i livelli essenziali di assistenza, resta “critica” la posizione di sei Regioni. (3)

A metà degli anni Novanta i tagli della spesa pubblica sono stati compensati da un aumento di

quella privata. Tra il 2007 e il 2009 le famiglie hanno sofferto un consistente calo del reddito

disponibile, ma la spesa privata per servizi sanitari è cresciuta dell’8,1 per cento, contro il +2,6 per cento del consumo totale. (4)

I bisogni insoddisfatti dichiarati di visite mediche per barriere di accesso sono aumentati del 13 per cento nel 2009 rispetto al 2007, recuperando un poco nel 2010 (-5 per cento), in coincidenza con la breve ripresa; quelli motivati dal costo eccessivo sono arrivati all’8,9 per cento nel 2008 nel primo quintile di reddito (il 20 per cento di famiglie più povere) e al 14 per cento per le visite dentistiche, per poi calare al 7,2 per cento. (5)

Non siamo ancora in grado di valutare se i futuri risparmi di spesa saranno selettivi o indiscriminati, ma è difficile non peggiorare le condizioni di accesso fisico ed economico, soprattutto laddove le capacità amministrativo-gestionali sono scarse e dove sono più forti le pressioni di interessi privati.

Eventuali modifiche al sistema delle compartecipazioni, come la recente ipotesi di introduzione di una franchigia, devono essere studiate attentamente.

Ma l’impatto più grave si realizza quando alla caduta del Pil pro-capite si affianca la messa in

discussione dell’intero sistema istituzionale e di stato sociale. Un attacco drastico alla sanità

potrebbe suscitare reazioni allarmate da parte dei cittadini e potrebbe alimentare l’insoddisfazione sociale, anche per il ruolo di collante dell’unità nazionale svolto in passato dal Ssn. Qualora poi il livello di rischio sociale dovesse aumentare significativamente, come in Grecia, e come segnalato dall’intensificarsi dei suicidi riportati dalle cronache, le conseguenze potrebbero divenire “sistemiche”, perché ai problemi di accesso fisico o economico alle cure si aggiungerebbe un rilevante aumento dello stress sociale, dovuto alla maggiore incertezza. Tanto più che il welfare italiano soffre già di gravi limiti e carenze - non si dispone di un sistema universale di long term care, né di sostegno al reddito - e i pochi finanziamenti per l’assistenza sono stati drasticamente tagliati.

Anche la questione della lunghezza dei tempi di pagamento ai fornitori da parte del Ssn può

diventare esiziale per le imprese in una fase di stretta sul credito, con ricadute economiche e sociali.

 

Infine, l’irrigidirsi del vincolo di bilancio, concordato a livello europeo, potrà provocare una

degenerazione dei rapporti intergovernativi, con accrescimento dei tentativi reciproci di spostare la responsabilità politica dei tagli e possibile rifiuto della concertazione da parte delle Regioni. Più in generale, va riconosciuto che in questa fase la debolezza del sistema politico nazionale e una sottovalutazione a livello europeo dei problemi di tenuta democratica dei paesi sottoposti a una forzata, e sempre più controversa, austerità giustificano una certa inquietudine.

 

(1) http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(11)61556-0/fulltext

(2) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-06/unicef-grecia-439mila-bambini-192328.shtml?uuid

(3) http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1534_allegato.pdf

(4) http://www3.istat.it/dati/catalogo/20110523_00/

(5) http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/health/public_health/data_public_health/databas

 

Stefania Gabriele e George France

22.05.2012

www.lavoce.info

 
 
 

In poco meno di due minuti i senatori della Confindustria hanno demolito il più importante baluardo di civiltà del lavoro

Post n°6460 pubblicato il 03 Giugno 2012 da cile54

Libertà di licenziare, ecco i senatori che hanno votato per la demolizione dell’Art. 18

In poco meno di due minuti, tanto è durata la votazione elettronica, ieri al Senato hanno demolito il più importante baluardo di civiltà del lavoro in Italia, frutto di decenni di lotte e conquiste: l’articolo 18.

244 senatori (Pd, Pdl, Terzo Polo) hanno approvato la cosiddetta riforma del lavoro di Elsa Fornero che introduce, di fatto, la libertà di licenziare per motivi economici, salvo casi di “manifesta insussistenza” (cioè mai) a fronte di un modesto indennizzo al lavoratore; il più grande regalo alla Banca Centrale Europea e al Fondo Monetario che da tempo chiedono al governo Monti (e prima a Berlusconi) di intervenire in tal senso.Con questo provvedimento, l’Italia diventa il primo Paese europeo a non disporre di una tutela (né reintegro, né forti risarcimenti) in caso di licenziamento senza giusta causa. Per fare un esempio, nel modello tedesco, il reintegro è previsto persino nelle aziende con 10 dipendenti.

Ovviamente, dopo l’approvazione del testo, gioisce la Fornero che non sta più nella pelle dalla gioia (foto a destra). A votare contro soltanto Idv e Lega. Adesso l’iter parlamentare prevede che il testo passi alla Camera per la definitiva approvazione. Da Anna Finocchiaro a Rutelli, da Gasparri a Giovanardi fino all’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ecco i nomi di chi ha votato per la demolizione dell’articolo 18:

l’elenco qui :

http://isegretidellacasta.blogspot....

working class

1 giugno 2012

 
 
 

Tagli a pensioni, istruzione, sistema sanitario, trattamento dei dipendenti pubblici, i servizi sociali, mai alle spese di morte

Post n°6459 pubblicato il 03 Giugno 2012 da cile54

Più arsenali e meno granai, la crisi non ferma la lobby bellica

 

Durante questi primi cinque anni di crisi internazionale, la ricetta dei tagli alla spesa pubblica (per ridurre il debito) è stata al centro delle politiche e delle richieste avanzate dalle istituzioni internazionali, dai governi dei paesi più forti e dai mercati finanziari. Nell’elenco delle spese pubbliche da ridurre sono entrate le pensioni, l’istruzione, il sistema sanitario, il trattamento dei dipendenti pubblici, i servizi sociali. Quasi mai o solo di sfuggita sono state inserite nell’elenco le spese militari.

Eppure nel mondo si spendono ogni anno più di 1.600 miliardi di dollari per le armi: la riduzione del 10% a livello globale della spesa militare avrebbe liberato risorse necessarie a fermare la speculazione in Grecia e si sarebbe potuto salvare il paese dal crac finanziario senza ulteriori conseguenze per l’Europa e l’economia mondiale. Ma la strada scelta è stata un’altra, complici la resistenza della lobby bellica, della casta dei militari, degli interessi consolidati di una parte del mondo politico nel business militare. È la ragione, non l’unica, di tante guerre degli ultimi 20 anni: tenere fiorente l’industria e il mercato delle armi, legittimare il potere della casta politico-militare, consolidare la costruzione di un sostanziale unipolarismo incentrato sul ruolo della Nato.

In Italia, si spende troppo per le forze armate: troppi sprechi, troppe spese inutili, troppi privilegi per una casta che in questi anni ha saputo ben difendere i propri interessi corporativi e rinviare quella necessaria riforma della difesa che manca da troppo tempo. Doveva essere la crisi economica a scoperchiare la pentola. Il ministro della difesa Di Paola ha ammesso in qualche modo la necessità di una riduzione di alcuni costi (in particolare per il personale: si è parlato di una riduzione programmata di 30mila unità in 10 anni) in modo tale da avere più capitale da investire nell’efficienza (cioè armi) delle forze armate. Il ministro-ammiraglio se la prende comoda: ha detto che ci vorranno 10 anni. Per mandare a casa gli operai della Irisbus e della Thyssen bastano poche ore, per ridurre il numero di generali due lustri. E poi in realtà bisognerebbe ridurre almeno il doppio di quanto previsto da Di Paola.

È paradossale che mentre le sofferenze sociali per la crisi economica stanno ancora crescendo in modo esponenziale, i generali del nostro paese si dilettino a spendere questa montagna di soldi in “giochi di guerra” che niente hanno a che vedere con un’idea di “difesa sufficiente” coerente con l’art. 11 (l’Italia ripudia la guerra) e l’art. 52 (ruolo nazionale e democratico delle forze armate) della nostra Costituzione. Meglio sarebbe risparmiare questi soldi, evitando sovrapposizioni e moltiplicazioni di sistemi d’arma – fortunatamente! – non utilizzati e magari già in possesso di paesi alleati: uno spreco inutile. Mai come in questo momento bisognerebbe “svuotare gli arsenali e riempire i granai”.

 

Giulio Marcon

02/06/2012 www.ilmanifesto.it

 
 
 
 

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(Gianni Rodari)

 

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

omicidio di Stato

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