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filo aperto con tutti coloro che s'interrogano sull'organizzazione politica della società e che sognano una democrazia sul modello della Grecia classica

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IL SENSO IN SČ E LA COMPETIZIONE

Post n°1069 pubblicato il 25 Dicembre 2022 da rteo1

IL SENSO IN SÈ E LA COMPETIZIONE

L'uomo ha bisogno di un "senso" al suo "esserci" nel mondo. Egli non riesce a vivere senza "darsi un senso" e a "dare un senso" all'esistenza, soprattutto in funzione del "dopo". Anzi, è proprio quest'ultimo, "il dopo", che lo tormenta di più, tanto che i più fragili psicologicamente - ossia la stragrande maggioranza degli umani - preferiscono non pensarci e fare ricorso ad inutili e superstiziosi "scongiuri" come se questi siano utili per cancellare l'evento finale. L'idea di dare un senso alle cose, alle azioni, agli accadimenti, che si manifestano nella realtà fenomenica strugge il pensiero. È questo -il pensiero- che tormenta la vita. Non di tutti, ovviamente, ma di certo di tutti coloro che sono convinti che esso sia il mezzo di interlocuzione con l'universale, col Tutto, l'infinito, l'indeterminato, l'Essere. La Costituzione italiana lo "celebra" all'art.21, comma 1, ove è sancito che "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", salvo, poi, limitarlo, al comma 6 : "Sono vietate le pubblicazioni a mezzo stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni", oltre a sanzionarlo penalmente con i "reati di opinione" (vilipendio) e di "satira" (ingiuria e diffamazione).  Ma questo "dualismo" costituzionale e giuridico non è altro che la prova indiretta che ad essere duale è proprio "il pensiero". Ma si ha "paura" di ammetterlo perché così crollerebbe una certezza fondamentale su cui è stato strutturato l'intero "castello di sabbia" degli esseri umani. Hegel nel suo saggio "La fenomenologia dello spirito", sosteneva che "la realtà è autocontraddittoria, tende a superare sé stessa e a divenire altro da quello che è". Diceva anche che l'idea deve manifestarsi e che lo fa diventando realtà naturale la quale ha in sé la "ragione". Il problema, a mio avviso, è quello di capire se già l'idea sia in sé "autocontraddittoria" oppure se lo diventi dopo, nel momento in cui la "realtà" si manifesti. La risposta (peraltro, allo stato, senza alcun fondamento scientifico) non è priva di conseguenze: Postulare, infatti, che già il pensiero sia contraddittorio in sé vuol dire ammettere che, da una parte, verso "l'alto", tutto l'universo è autocontraddittorio, e, dall'altra, verso il "basso", che tutte le decisioni umane (individuali o collettive, sociali, politiche, istituzionali, economiche, ecc.) sono autocontraddittorie. Relativamente al "basso", ossia ai rapporti tra gli esseri umani, tra le molteplici e diverse "contrapposizioni" assurge quella del dare "senso" alle cose (e, prima di tutto, alla vita) perché automaticamente ne deriva un dualismo con il "non senso". Questa distinzione avviene per opera della c.d. "ragione" umana, che è frutto di convenzioni sociali "assolutizzate" che la elevano anche a parametro supremo di tutti i comportamenti e delle elaborazioni politiche. Mediante tale "distinzione" alcune azioni sono consentite (perché avrebbero senso) e altre escluse (perché non avrebbero senso). Questo non vuol dire, ovviamente (anzi potrebbe essere vero il contrario), che tale contrapposizione sia valida anche nel "mondo" dell'illimitato, dell'indifferenziato (com'è, ad es., anche il "mondo quantico"), dove in potenza tutto è possibile e nulla impossibile, ove, perciò, potrebbe essere che  senso e non senso siano un tutt'uno, coessenziali a sé stessi e a tutti gli enti universali. Purtroppo, però, non se ne può avere certezza che sia così perché il "libero pensiero" è socialmente condizionato, segregato e plasmato dalle "regole" del "super-Io" (interiore ed esterno) che governa la mente e parte della psiche umana. E così gli esseri umani continuano a rimettersi alla "ragione" che scinde, divide, ciò che si reputa avere senso rispetto a ciò che non ne ha, anche se (forse) nell'indifferenziato (com'è peraltro anche il subconscio umano) non esista alcuna "contrapposizione"; che "senso e non senso" siano equivalenti (senso-non senso e viceversa), ovverosia esista un "senso in sé" di tutti gli enti dell'universale (uomini inclusi, ovviamente). E allora, se le cose stessero così (e non si può escludere. Anzi, ben si potrebbe affermare.), sorgerebbe inevitabile la seguente domanda: esiste un senso in sé, in generale, e della stessa vita ? Una canzone dal titolo "Un senso" di un noto artista italiano contiene il seguente brano: «Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l'ha ». Gli artisti, si sa, hanno una sensibilità particolare che consente loro di travalicare i limiti della "ragione" e di avvicinarsi al "senso ontologico" delle cose e del Tutto. Bisogna, perciò, tenerne sempre conto, ma non si può, ovviamente, abdicare mai la verifica, la ricerca della prova mediante il proprio pensiero. Ed è proprio questo che fa subito emergere l'aporia, la contraddizione in sé, del predetto brano musicale: se si ritenga, infatti, che la vita non abbia senso, allora non ha senso cercare (trovare) un senso. Invece è evidente l'errore di escludere, a priori, che "la vita abbia un senso in sé stessa" (così come la sua antagonista: la morte). Certamente questa soluzione ridimensiona l'uomo e il suo egocentrismo e relativo antropocentrismo ma consente di comprendere che non è vero che non esista alcun senso, in assoluto, ma che invece il senso esista, come "senso in sé", sia della vita che di tutte le cose, e che questa "conclusione" non impedisce agli uomini di darsi e dare un senso anche se essi stessi sono posseduti e dominati dal "senso in sé". Un modo, seppur indiretto, per "dimostrarlo", tra i tanti possibili, risulta essere quello relativo ad alcuni rituali fondamentali esistenti in natura. Il primo è certamente quello del "corteggiamento", finalizzato alla riproduzione. Tutte le specie viventi sono "schiave" di tale rituale, che prelude la selezione del partner. Solitamente è il "maschio" che si esibisce, come su di un palcoscenico, assumendo le "pose" più ardimentose, ma anche "ridicole", al tempo stesso. Si ostentano piumaggi, canti, stridi, muscoli, e si fa ricorso alla "competizione", alla "lotta", tra gli aspiranti per il primato dell'accoppiamento. La "femmina" solitamente attende che la "contesa" abbia termine, e a volte sceglie anche il partner che ritenga più idoneo allo scopo (questa libertà di scelta e anche d'iniziativa sono diventate, ormai, "patrimonio culturale" di buona parte del "mondo occidentale"). In natura, quindi, tutto avviene secondo la "competizione" in vista dell'accoppiamento per la "riproduzione". È questo, quindi, il "trofeo", il "premio" in palio, che consente la trasmissione del "patrimonio genetico" e la prosecuzione della specie. Anche gli esseri umani soggiacciono alle stesse leggi della natura. Ma essi, che hanno anche il "dono" della fantasia, frutto della follia che abita l'inconscio, ci aggiungono anche altro, che è il prodotto della società e della cosiddetta "civiltà": i riti. Sono questi, infatti, che più di tutto marcano la differenza tra gli umani e le altre specie viventi, e non perché queste ultime non abbiano i propri "riti", giacché anch'esse ne hanno (secondo natura), ma perché gli umani hanno anche l'esigenza di "dare senso" alle proprie azioni, per cui "inventano" rituali, spesso bizzarri ed estrosi, che a volte travalicano ogni (buon) senso, fino al punto che "il senso non ha più alcun senso". Per comprendere queste "pazzie" tipiche del mondo umano è sufficiente riflettere sulla complessità e varietà dei "corteggiamenti", ma anche sull'accoppiamento, che precede, prescinde, o segue il rituale del matrimonio, che spesso si conclude con i "festeggiamenti" a cui prendono parte "processioni" di invitati. Lo stesso dicasi per i "rituali" politici, istituzionali, sociali prescritti dalle "regole" giuridiche, etiche, morali, religiose, che a volte non hanno alcun collegamento col reale, col naturale, "costringendo" gli individui e le masse a credere o accettare per fede (o per appartenenza) che simboli e segni abbiano in sé ed esprimano principi e valori "assoluti", trascendenti, metafisici, senza rendersi conto che durante lo spazio-tempo del divenire, senza il libero pensiero, "un essere relativo e finito non può capire e scoprire l'assoluto né l'infinito". E ciò nonostante, gli umani continuano a voler imporre in generale le loro produzioni, sacralizzandole con i riti, come se fossero l'espressione della "verità". Alla base, comunque, dell'esistenza, sia umana che non, vi è, come detto, la "competizione" che, in generale, secondo natura, è finalizzata alla "riproduzione", e quest'ultima, a sua volta, alla stessa "competizione", intesa secondo il suo significato originario (da cum petere, andare insieme verso lo stesso obiettivo), diverso dal "Polemos" (il conflitto eracliteo), dall'autocontraddittorietà della realtà hegeliana e anche dalla "dialettica socratica" (seppur, quest'ultima, affine in ordine alla ricerca della "verità"). La "competizione", perciò, come innanzi intesa (andare verso il "comune obiettivo", cioè il "pensiero puro, dell'energia), e la riproduzione (in funzione della prima e viceversa), costituiscono i veri fondamentali di tutti gli esseri viventi e delle organizzazioni umane. Anche le "leggi", quindi, così come la competizione per l'assunzione di funzioni e ruoli pubblici, hanno come substrato, più o meno inconscio, dominato dall'economia della specie, il fine della "riproduzione". In ordine a quest'ultima giova sottolineare che essa nell'élite intellettuale e creativa tende spesso a "sublimarsi" e, così, l'élite trae "piacere"  dalla creazione di prodotti artistici, culturali, politici, economici, ovvero, nel campo istituzionale, mediante la identificazione col potere costituito, e, nel mondo religioso, con la missione verso il trascendente. La "riproduzione", perciò, quale esigenza primaria ed essenziale per la natura, interconnessa con la competizione, nel consorzio umano impone il suo "senso in sé", non curandosi  del "non senso umano" che mediante la divaricazione dell'intelletto, per esigenze socio-politiche, oltre che psicologiche dell'individuo, spinge a "dissociare" "l'essere" dal "dover essere", mediante l'apparire (che è anch'essa una forma della "competizione"). E cosi può accadere di assistere a "rituali" pubblici, privati e sociali del tutto analoghi a quelli tipici dell'infanzia, seppur celebrati con "solennità". Ma si tratta solo e sempre del "senso" convenzionalmente distinto dal "non senso" per appagare l'esigenza tutta umana di credere di avere il primato assoluto sia in natura che su tutte le altre specie viventi. Ma soprattutto di credere di "essere altro" rispetto a ciò che realmente si è e che si manifesta ai sensi. Tutto comunque, e si ribadisce, si muove sempre in base alla competizione. Nulla e nessuno la può impedire perché essa è alla base della natura (anche la pandemia virale costituisce un esempio di "competizione" tra specie diverse) ed ha senso "in sé stessa". Tale "competizione" in ambito sociale viene disciplinata mediante le "regole" e le istituzioni. Lo sport, come ad es. il calcio, ne costituisce l'esempio per eccellenza, dove il "trofeo" (la coppa) costituisce l'equivalente simbolico del risultato dell'accoppiamento e "riproduzione sessuale o intellettuale". Il "frutto" è il trofeo in palio, la coppa, come l'elezione alla carica pubblica è il premio della competizione elettorale (e il "posto fisso", il premio del concorso pubblico). Certamente senza né regole socio-politiche né istituzioni tutti gli umani sarebbero preda delle basilari "pulsioni naturali" (alimentari, per la sopravvivenza, e sessuali, per la prosecuzione della specie), che pur tuttavia, seppur in modo più o meno inconscio, continuano ad orientare i comportamenti degli umani, singoli e associati. E tanto è vero che analizzando i criteri di distribuzione delle risorse economiche prodotte dalle società "civili" ben si coglie come tali risorse siano distribuite sulla base (iniqua ma resa legale) della "competizione" tra le diverse funzioni e ruoli pubblici e privati, secondo gerarchie più o meno rigide tra classi e caste. Relativamente a queste va detto che la "democratizzazione della Repubblica", come è accaduto nel dopoguerra in Italia (ma anche in molti altri Stati europei), ha consentito di superare le dure ed estreme contrapposizioni sociali di stampo ottocentesco, ben analizzate e sviluppate nel Manifesto del 1848 e nel Capitale di K. Marx, che, secondo la logica dialettica dell'ineludibile conflitto tra le classi, avrebbero dovuto portare la "classe proletaria" (operai e contadini) alla conquista del potere politico diventato prerogativa della "borghesia", che lo aveva sottratto alla "classe feudataria". Per effetto della "democratizzazione", che ha "imborghesito" i proletari, come argutamente osservato dal filosofo Aldo Masullo nella relazione "crisi della fenomenologia e fenomenologia della crisi", la contrapposizione tra le classi si è diluita, soprattutto dopo i "moti del 1968". La "contrapposizione", così, nell'attuale "Repubblica democratica", ha ridimensionato il potenziale "rivoluzionario" della "classe proletaria" e ha assunto la forma e la natura della "competizione" tra molteplici "gruppi di interessi" (partiti, in primis, sindacati, corporazioni professionali, burocratiche, istituzionali, associazioni, ecc.). La sostanza, però, non è cambiata in modo radicale perché anche nella "Repubblica democratica" permane la "competizione" per la conquista del "premio" (l'accaparramento delle risorse economiche), finalizzata "all'accoppiamento" (scegliere o essere scelti dal partner) o alla sublimazione (assunzione ed esercizio del potere, et similia). Ovviamente la "competizione", però, può anche giungere a livelli estremi, come accade (e sta avvenendo) tra le potenze statali, che spingono la competizione nel campo bellico nel quale, a causa dell'esistenza delle pulsioni distruttive nell'inconscio umano, la soppressione della vita del "nemico" diventa il "trofeo" da conquistare. E gli "Stati", strumenti idonei ad esaltare le virtù dei cittadini, se mal gestiti diventano  amplificatori delle "pulsioni distruttive" che scaricano la "forza" e la "violenza" cieche e bieche dimostrando che la "ragione" è pura convenzione. L'esperienza, però, finora maturata, anche grazie al contributo della cultura, delle idee liberali, della scienza e della tecnologia, induce a ritenere che il (buon) senso umano possa avere senso, così come è avvenuto con la "democratizzazione della competizione" che seppur ostacolata dalle élites e ancora imperfetta, perché trascura e a volte vessa, tiranneggia, le minoranze politiche (e non solo), costituisce la migliore soluzione sociale e politica finora adottata. Per questo essa dovrebbe essere estesa, quanto più è possibile, in tutti gli ambiti (istituzionali, politici, economici), con l'adozione di "statuti di libertà per le minoranze", se si vogliano ridurre i contrasti sociali (e le guerre civili e tra Stati). Certamente la "competizione" prima o poi "supererà" le odierne civiltà più "evolute" e anche l'attuale democrazia, come già si coglie dai segnali che si registrano sia all'interno che all'esterno dell'Italia. E questa sarà la prova evidente dell'esistenza del ciclo vitale di tutto ciò che esiste in natura; ma anche che tale ciclo ha il "senso in sé" così come nella fondamentale e ineliminabile "competizione", a cui tutto è assoggettato. È la "competizione", quindi, secondo il suo "senso in sé", di concorso verso il comune obiettivo (il pensiero puro, l'energia), "il principio fondamentale" che coinvolge la vita stessa e la natura. Tuttavia, nel divenire, c'è anche spazio per il "senso" degli esseri umani, singoli o associati, utile per metter ordine e dare speranza alla vita individuale, sociale e politica degli esseri umani. L'importante, però, è che tale "senso", prodotto dalla "ragione", da cui si originano "le convenzioni", non diventi mai "verità assoluta" perché questa, è interconnessa alla "competizione", che ha in sé stessa il proprio senso, ben diverso dal "senso in sé" degli esseri umani e di ogni cosa ed enti dell'assoluto.

 
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UMANO, ESSERE-UMANO E LIBERO-PENSIERO

Post n°1068 pubblicato il 02 Ottobre 2022 da rteo1

UMANO, ESSERE-UMANO E LIBERO-PENSIERO

Parafrasando e liberamente interpretando il pensiero di Parmenide mi viene da scrivere che "l'essere umano è, e non può non essere" e che "l'essere non umano non può essere umano". L'essere, perciò, "è", ciò che "è" e non può essere altro, diverso da quello che "è". Durante il "divenire" egli si "trasforma", a partire dall'origine, cui seguono la crescita, lo sviluppo, la procreazione e la fine del ciclo. Sia individuale che collettivo, sia delle città che delle civiltà. Così come argutamente scriveva G.B. Vico, ma era già arcinoto ai filosofi Greci, che inserivano tali cicli in quello più generale della natura. Anche "l'essere non umano" ha il proprio ciclo. Non esiste, comunque, almeno nella forma fenomenica, un "non essere", se non nella distinzione che precede, ossia tra "essere umano" e "essere non umano". Ma senza alcun giudizio di valore, come spesso si usa fare, né di rilevanza o primogenitura nel cosmo perché quivi "l'Uno" e il "molteplice" si fondono, sono la stessa cosa. Gli "esseri umani" nel corso dei millenni hanno "creato" sovrastrutture nelle quali hanno disciplinato i loro comportamenti, non più secondo natura ma secondo "convenzioni". Il "diritto", la morale, l'etica, la scienza, le lettere, l'arte, le istituzioni, ne sono i prodotti, "grazie ai quali" viene disciplinata la "convivenza", sia tra singoli che tra gruppi, organizzati in società e Stati. Anche questi ultimi seguono le regole delle "convenzioni" (Trattati, in genere), senza aver, tuttavia, mai abbandonata la forza della violenza delle armi, come è avvenuto nella recente guerra tra la Russia e l'Ucraina. In questi casi, come noto, la barbarie prende il sopravvento e orienta tutti i comportamenti degli esseri umani, sia posti ai vertici delle istituzioni di governo sia dei semplici cittadini. Tutti prendono parte ai conflitti, e tutti secondo "ragione", ma mai come in questi casi la "ragione" si rivela per ciò che essa è: "convenzione". E così si constata che l'essere umano è anche irrazionalità, follia, inconscio. Lo "scibile" umano ha consentito di poter descrivere l'essere umano in una miriade di forme, attività, e tutte le "creazioni" ne costituiscono il migliore "prodotto" per poterlo decriptare. Una cosa è però certa: è un essere relativo, come sosteneva Protagora, anche se l'essere umano è sempre più convinto di essere stato "prescelto" per compiere "La Missione" e di conoscere l'Assoluto. Ma un essere "finito" non può conoscere "l'infinito"; analogamente, un essere "relativo" non può conoscere "l'Assoluto". Perciò "l'essere umano è ciò che è" e non può essere "altro", così come si manifesta nella sua molteplicità e diversità nel "divenire". Se proprio una distinzione si vuole tentare è quella che riguarda le "convenzioni" in virtù delle quali si usano indifferentemente i termini di essere umano e di uomo (o umano). Ad es., nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 si legge che «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» (art.1); nella Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950: «Obbligo di rispettare i diritti dell'uomo» (art.1); nella Costituzione italiana è sancito che « La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art.2). Invece, nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, si dichiara che «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti» (art.1). Come si vede, uomini, uomo ed esseri umani sono ritenuti equivalenti, alternativi, sinonimi, secondo le "convenzioni". Eppure, volendo "spigolare", si potrebbe rilevare tra tali termini una certa differenza, e forse non soltanto formale. Ne propongo una. Le "distinzioni" sottendono due differenti "fedi": laica e religiosa, materiale e spirituale. Dire "uomo o uomini", perciò, è diverso che dire "esseri umani". Nel primo caso l'Essere non ha alcuna rilevanza, nessun collegamento, nessuna importanza: l'uomo è l'uomo e basta (lo zoon Politikon di Aristotele, per capirci). Nel secondo caso, invece, l'uomo è parte dell'Essere, perciò "essere umano". In verità è quest'ultimo concetto ad essere più problematico perché porta sia a sostenere che l'Essere "abita" l'umano, sia che quest'ultimo sia in costante collegamento con l'Essere supremo. E da queste due convinzioni  conseguono la "sacralità" dell'essere umano, la primogenitura di questi, ma anche i "conflitti" per avere il monopolio della rappresentanza terrena. Tralasciando, qui, queste problematiche di tipo "religioso", può essere utile, invece, ricercare delle "peculiarità" sia dell'uomo che dell'essere umano rispetto alle "convenzioni", in particolare rispetto alla "libertà di pensiero". È questa, infatti, a mio avviso, la vera e unica caratteristica degli esseri umani, tanto che tutti gli ordinamenti la "temono" e la disciplinano. I tempi bui del medioevo per fortuna sono ormai passati, anche se la ciclicità degli eventi li riporta nella storia umana. Oggi sembra che stiano avanzando, e ciò lo si è visto sia a causa della pandemia che della guerra che hanno dato ai governanti (e alla maggioranza dei cittadini) il potere di limitare (o cancellare) il "diritto di critica", che è una forma della libera espressione del pensiero. Resiste, comunque, il valore della scienza, grazie alla quale è stato possibile comprendere anche l'origine dell'universo e la sua evoluzione. Anche se molte cose ancora si ignorano, ma ormai la strada della scienza è stata tracciata e la tecnologia concorre a scoprire anche i segreti più microscopici della natura. Prima o poi altre scoperte si aggiungeranno a quelle finora conseguite e il genere umano farà un ulteriore "salto evolutivo" (salvo che la "follia" non lo riporti all'età della pietra o alla scomparsa definitiva), come è avvenuto con  le teorie della relatività sia ristretta che generale di Einstein e nei tempi più recenti con la teoria dei quanti L'importante, comunque, è che i "custodi" della "fede" non divengano intolleranti così come purtroppo ormai lo sono diventati molti governanti, anche spacciatisi per "liberali e democratici", e sia sempre consentito al "pensiero" di essere "libero" di procedere verso (o dentro) la "verità". È infatti solo il "libero-pensiero" che eleva l'uomo e gli consente di immaginare "l'Assoluto", oltre che capire quanto a volte siano "miseri" gli umani, anche incaricati di responsabilità piramidali. E forse è proprio per impedire che l'uomo divenga consapevole di sé e, come Terenzio, conosca meglio tutti i vizi dei suoi simili, che si tende ad imporre sempre il "pensiero dominante" come "unico" e a reprimere quello delle minoranze e degli intellettuali illuminati e impegnati. È un dato di fatto, facilmente verificabile, che tutti i governanti, in genere, e gli ordinamenti giuridici, siano inclini ad ostacolare o impedire, con il perimetro spesso angusto della "legalità" sostenuta dalle sanzioni penali, il libero esercizio del pensiero. Anche di quello del mondo dell'arte, della scrittura, e persino di quello dei Poeti, che con la loro ispirazione riescono ad uscire dagli schemi sociali artificiali e a cogliere "il senso" che sta oltre il reale. Epperò più una società coltiva il libero-pensiero, lo premia, lo valorizza, lo stimola, e più esce dalla "caverna" di Platone, soprattutto quando tale scelta "liberale" consenta di mettere in discussione i pregiudizi, l'intolleranza, le arbitrarie diseguaglianze sociali ed economiche e le caste e classi professionali e istituzionali. Purtroppo le tendenze "umane" sono spesso "autolimitative". Basta, infatti, riflettere sugli ordinamenti, in generale, e sulle varie e diverse consorterie di tipo associativo per rendersi conto di quanto gli "umani" adorino le "gerarchie", alle quali si sottopongono con non poco piacere. Non si tratta, infatti, come si vuole credere, di "socialità" (e comunque non soltanto) ma di "rinuncia" all'esercizio del libero pensiero, demandando ad altri il potere di pensare e decidere. E così si afferma l'appartenenza, l'essere faziosi di parte (come nei "partiti"), a prescindere dalla riflessione, dal "giudizio critico". È certamente un "male", perché, come sopra detto, solo grazie al "libero pensiero" l'umano può essere definito "essere umano". Altrimenti, rimane soltanto "umano", inteso nel senso stretto della natura, come specie tra i milioni di specie. Occorre, perciò, "demolire" le costruzioni mentali, gli stereotipi, abbattere i muri, i luoghi comuni, i confini, per guardare il cielo sovrastante e l'universo intero con le sue leggi immutabili. Scandagliare anche l'universo che è dentro di sé, che ognuno può conoscere, solo se lo si voglia. L'unica guida, infatti, deve essere la "Verità", che è la sintesi di ciò che è umanamente ritenuto corretto e dell'errore. Così come sosteneva Hegel, secondo il quale "La verità è l'intero" e "l'Assoluto è la risultante di tutte le mediazioni del reale nel divenire". L'unica vera peculiarità dell'essere umano è perciò sempre e solo il "pensiero". È soltanto quest'ultimo, infatti, che  consente di "dialogare", sia all'interno di se stessi, anche mediante la "critica" del proprio pensiero, sia verso l'esterno, quando si rivolga il "pensiero" all'Assoluto, al mondo esterno e all'ultraterreno. Il pensiero, però, capace di "dialogare", nell'uno e nell'altro caso, deve essere necessariamente libero da ogni e qualsiasi condizionamento, di nessuna natura, né politica, né giuridica, né tantomeno religiosa o sociale. E bisogna sempre ricordare che l'uomo non è altro che un organismo "relativo", perciò anche le sue idee ritenute "assolute" sono sempre e solo relative. Quindi è puro fanatismo assolutizzare le proprie convinzioni contro il "relativismo" nei rapporti civili e di ogni altra e diversa natura. Ogni cosa, incluso il pensiero, nel mondo fenomenico si "manifesta" in modo "dialogico", apparentemente conflittuale, e questo è la conseguenza dell'essere "relativi". Soltanto nell'Assoluto, infatti, è tutto indistinto, indeterminato, illimitato, eterno. L'uomo, quindi, è soltanto un semplice "mediatore" che nel "divenire" partecipa all'opera di trasformazione dell'Assoluto. E le sue idee sono "necessariamente" conflittuali, sia che abbiano un collegamento con l'Assoluto, sia che si originino solo all'interno di se stesso, mediante un semplice, per quanto complesso, processo biochimico. Il dualismo conflittuale, perciò, è parte dell'essere umano (e anche dell'umano), anche quando si manifesti in modo "distruttivo". E l'uomo è "dentro il mondo" e non "fuori dal mondo". Non un semplice osservatore, ma parte attiva e passiva del mondo. L'essere-umano, però, ha la possibilità di esprimersi come "essere", collegato all'illimitato (Àpeiron, di Anassimandro), da cui è uscito per "entrare" nel mondo reale, anziché agire come semplice "umano" che asseconda le sue pulsioni naturali. La "scelta" dipende soltanto dall'uomo: decidere se conservare in sé il proprio "essere", oppure allontanarsene, porsi in contrapposizione all'Assoluto, ove tuttavia si dovrà fare comunque ritorno, perché è il prezzo da pagare per essersi differenziato dall'illimitato. L'essere-umano, però, per essere tale, dovrà sempre rivendicare ed esercitare il "libero-pensiero" durante la sua esistenza perché è l'unico modo per fondere la duale soggettività di "essere" e di "umano", come energia-materia, o spirito-materia, nel proprio "divenire" sospinto dalla "freccia del tempo". E grazie a tale "fusione" l'essere-umano col libero pensiero potrà anche trascendersi per impedire (o limitare) gli "opposti" (bene e male, pace e guerra, odio e amore,ecc.), che agiscono nel solo mondo "relativo" e non nell'Assoluto. 

 
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IL 25 SETTEMBRE SI VOTERA'. ATTENTI AL LISTINO

Post n°1066 pubblicato il 26 Luglio 2022 da rteo1

21.9.2022: VOTERÒ CONTRO LA GUERRA ! METTERÒ LA CROCE SUL SIMBOLO CHE HA NEL PRORAMMA IL RIPUDIO DELLA GUERRA" E DELL'INVIO DELLE ARMI ! E NON PER "PAURA DELLA GUERRA NUCLEARE" MA PER MANIFESTARE IL MIO DISSENSO CONTRO LA STUPIDITÀ DEI POLITICI CHE CI GOVERNANO CHE NON HANNO VALUTATO I DANNI ALL'ECONOMIA NAZIONALE E CHE IL CONFLITTO RIGUARDAVA DUE STATI ESTRANEI ALLA NATO E ALLA.U.E.. INOLTRE PERCHÉ IL GOVERNO HA RINUNCIATO A SVOLGERE L'UNICO RUOLO DI CUI L'ITALIA POTEVA ANDARE FIERA: QUELLO DELLA TRADIZIONE DIPLOMATICA.

26.8.2022: se il candidato all'uninominale è sostenuto da più liste del proporzionale si potrebbe scegliere la lista che ha il capolista più gradito (o meno sgradito) al di là dell'appartenenza politica del candidato all'uninominale e alla propria appartenenza partitica. Sopratutto se si tratta di "digerire" un candidato blindato imposto dalla segreteria romana. È questo un modo per dare la preferenza aggirando la legge che non lo consente.

IL 25 SETTEMBRE SI VOTERA'. ATTENTI AL LISTINO !

Prendo spunto da una relazione di qualche anno fa tenuta dal filosofo Aldo Masullo, nolano (come il Grande Giordano Bruno), anche se nato ad Avellino (nel 1923, e deceduto a Napoli nel 2020). Egli sviluppava le sue tesi su la "Crisi della Fenomenologia e la Fenomenologia della crisi". Relativamente a quest'ultima, avente ad oggetto l'antropologia, la storia, la sociologia, la politica, ripercorreva il processo della "classe operaia" che dal secondo dopoguerra si era "imborghesita" e fusa con le classi intermedie (professionisti, artigiani, piccoli imprenditori, ecc.). Egli attribuiva all'imborghesimento una connotazione positiva, e non c'è motivo per non condividerla. Nella dinamica, infatti, della "lotta di classe", anche il proletariato (soprattutto operai e contadini) riusciva ad avere finalmente un ruolo politico nel Paese. I partiti che raccoglievano i consensi dell'ex proletariato erano soprattutto quelli di sinistra (il PCI, più degli altri) ma anche i "conservarori di centro" (DC). Dalle prime elezioni politiche del 1948 ad oggi è notevolmente mutata la rappresentanza. Sono sorti tanti nuovi partiti e movimenti e oggi la "sinistra" non è più "sinistra". Da un recente sondaggio, infatti, è emerso che oltre il 55% degli elettori del PD (erede, piuttosto lontano, ormai, degli ex PCI e DC) percepisce un reddito medio alto. Sono prevalentemente le "classi dirigenti" pubbliche, e questo spiega perchè tale partito è fortemente "governista", anche a discapito dei meno abbienti, che hanno dovuto trovare altri "rappresentanti" (come ad es, il Movimento 5S) oppure disertare le urne con l'astensionismo. Certamente questo non è un bene, soprattutto per i diseredati (circa 5 milioni di poveri assoluti e 5 milioni di poveri relativi), ma alla "ex sinistra" poco importa perchè ciò che conta è continuare a garantire il reddito alla classe dirigente, che ha anche il compito politico di "soggiogare" i più deboli per orientarne il consenso elettorale (anche le candidature al parlamento dei sindaci  e consiglieri regionali vanno in tale direzione perchè essi col potere locale e territoriale gestiscono le "speranze" dei cittadini emarginati). Per "fortuna" nella passata legislatura c'è stato il M5S che ha raccolto il disagio sociale. Molti provvedimenti favorevoli agli emarginati sono stati varati. Peccato, però, che ora tale M5S si sia liquefatto (in parte) perchè una buona parte, anche a causa del vincolo del doppio mandato senza deroghe ha preferito cercare nuove strade politiche. Il divieto del terzo mandato se osservato da tutti i partiti (e magari costituzionalizzato) sarebbe però una buona cosa perchè consentirebbe di avvicendare i cittadini nella cura della cosa pubblica e di spezzare il vincolo psicologico col potere che si genera quando si entra nelle "stanze dei bottoni". Indubbiamente molti parlamentari, che non avevano, e spesso ancora non hanno, "nè arte nè parte", non sanno come riorganizzare la propria vita una volta usciti dal parlamento ma di certo il bene collettivo se ne avvantaggia perchè ritornare ad essere tutti dei comuni cittadini è sempre un bene. Personalmente, perciò, do un notevole valore al limite del doppio mandato e osservo con preoccupazione tutti quei partiti che non lo adottano come criterio. Certamente, però, la candidatura non dovrà avvenire soltanto in base alla detta regola. La vigente legge elettorale prevde collegi uninominali e plurinominali (secondo il criterio proporzionale). Per questi ultimi i partiti compongono dei "listini" con i nominativi dei candidati (fedeli al capo) da far eleggere. L'elezione avviene secondo l'ordine di lista. Perciò è sempre il primo della lista ad essere eletto, perchè non ci sono preferenze da esprimere. Attenzione, perciò, a non limitarsi a leggere il solo nominativo del candidato all'uninominale perchè questi funge anche da "cavallo di Troia" per tirare l'elezione al primo candidato del listino collegato. Spesso quest'ultimo è un "politico" che non ha nulla a che fare col territorio del collegio, perciò gli elettori devono soltanto "obbedire" come gli schiavi dell'antica America del sud. Certamente molti obbediranno perchè hanno un debito col partito (o una promessa che deve essere mantenuta) ma, per fortuna, alcuni cittadini (anche se pochi) sono ancora liberi di scegliere. E questi lo dovranno fare, se hanno a cuore l'evoluzione civile della propria specie. Per quanto concerne "gli ultimi" è senz'altro utile che essi difendano la propria dignità ed evitino di affidare la cura dei propri interessi ai partiti, anche se si dichiarano di sinistra, che, come detto, rappresentano soprattutto le "classi dirigenti". Perciò vanno evitati quelli che vorrebbero continuare l'esperienza del governo passato, che certamente non è stata proprio vicina ai meno abbienti, soprattutto a causa  dell'ostinazione nella politica bellicistica che ha provocato immensi danni economici al Paese (che si manifesteranno ancor più in autunno). In conclusione (per ora): gli "ultimi", secondo l'analisi che precede, dovrebbero orientare le proprie scelte elettorali secondo il criterio della lotta di classe, per cui se si è "ultimi" (i 10 milioni circa di italiani emarginati) occorre stare alla larga dai partiti di ex sinistra che garantiscono le classi dirigenti e sostenere, invece, chi ancora intende curarsi degli emarginati, ma con i fatti e non a parole. Anche la regola statutaria del doppio mandato potrà essere un buon segno dello spirito civile e democratico del partito, o movimento, da scegliere perchè impedisce di trasformare in tiranni, dittatori, i cittadini che entrano nella gestione del potere istituzionale. E bisogna NON VOTARE quei candidati dell'UNINOMINALE che hannno un LISTINO COLLEGATO col primo nominativo ESTRANEO AL TERRITORIO DEL COLLEGIO. E occorrerà, inoltre, anche considerare i profili personali dei candidati perchè è importante chi sono, che hanno fatto nella vita, se siano o meno persone oneste e competenti, ecc., soprattutto in questa nuova fase costituzionale in cui il Parlamento è stato ridotto di 400 unità.  

 
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UN BUON STATISTA Č SOLO UN POLITICO E MAI UN TECNICO

Post n°1065 pubblicato il 30 Giugno 2022 da rteo1

UN BUON STATISTA È SOLO UN POLITICO E MAI UN TECNICO

La guerra tra la Russia e l'Ucraìna oltre ai tantissimi problemi, di vario ordine e grado, che sta diffondendo, soprattutto a livello europeo, sta anche ponendo l'interrogativo ai cittadini di chi possa essere ritenuto "statista" tra i diversi capi di governo che hanno la responsabilità di decidere il destino dei popoli. Ovviamente, per poter dare una riposta a tale quesito, occorre stabilire che cosa si debba intendere per "statista". Una opinione comune e corrente differenzia il "politico" dallo "statista" ritenendo, il primo, come colui che agisce sul presente, sul contingente, mentre il secondo, invece, avrebbe una visione proiettata sul futuro, nel senso che sarebbe capace di "prevedere" come si evolverà la società e il contesto generale e approntare in anticipo i giusti e opportuni rimedi. Può darsi che questa distinzione sia soddisfacente, tuttavia essa non consente di "parametrare" i risultati, e quindi di "oggettivare" il giudizio. Per questo occorre avere degli schemi, possibilmente semplificati, per esprimere, a colpo d'occhio, una valutazione sul capo del governo, onde considerarlo o meno "statista". Ebbene, a tal fine, si ritiene essere utile partire dai "fondamentali" dello "Stato", sia inteso, quest'ultimo, in senso tecnico-giuridico, sia in senso politico, come Repubblica e Popolo. I "fondamentali" sono - e non possono non essere  - i dati economico-contabili dai quali è possibile desumere il livello di benessere generale dei cittadini: Pil, occupazione-disoccupazione, debito pubblico, numero dei reati consumati, relazioni diplomatiche, ordine pubblico e sicurezza, numero di poveri, ecc. Sono tutti questi dati, perciò, che ad ogni "cambio" della guida del governo bisogna fare riferimento per poter valutare, ad ogni fase successiva, e alla fine del mandato, coi "risultati alla mano", se il capo del governo sia stato un buono o pessimo "statista". Non vi è dubbio che se un capo del governo quando assuma l'incarico "erediti" un debito pari al 150% del Pil e faccia lievitare questo rapporto, aggravando il debito, sia difficile poter esprimere un "voto" positivo, anche se tale dato da solo non è sufficiente. Ma se ad esso si aggiungesse anche l'aumento del numero di disoccupati, dei poveri, delle imprese che chiudono, ecc., di certo non sarebbe più un azzardo valutare come inadeguato il capo del governo in carica. Anche rispetto alle relazioni diplomatiche, ovviamente, con gli altri Stati, e non solo quelli cosiddetti "alleati" politicamente (come l'U.E.) e militarmente (NATO) ma anche con quelli con cui si hanno interessi economici e scambi commerciali. Uno "statista", infatti, deve essere sempre in grado di garantire la "pace" al suo popolo perché la "pace" è la condizione necessarie ed essenziale per una vita serena. Grazie alla "pace" i popoli progrediscono, mentre si abbrutiscono e arretrano culturalmente e come civiltà quando scelgano la strada della "guerra". E questa non può mai giustificarsi sol perché si faccia parte di un'alleanza militare quando non risulta possibile escludere in assoluto che siano state tentate tutte le soluzioni possibili per evitare la guerra. Va sempre tenuto ben presente, infatti, che esiste sempre almeno una soluzione possibile per evitare la guerra e non averla trovata depone già negativamente sul giudizio da dare sul capo del governo. Comunque, osservando la situazione generale, visti gli scarsi risultati finora conseguiti, sia a livello dei singoli Stati, che Europeo e internazionale, si può certamente affermare che il capo del governo non ha superato ancora l'esame. Per quanto gli osanna non manchino, e se ne celebrino le abilità ineguagliabili. Di certo alcune esternazioni, con ricadute sulle relazioni diplomatiche, non depongono bene, soprattutto se raffrontate con i comportamenti "felpati" tenuti dai capi di governo con maggiore caratura politica (e forse una prima differenza sta già in questo: capo del governo tecnico e capo del governo politico). Un ulteriore riferimento, però, per valutare lo "statista" di turno è certamente il regime costituzionale in cui esso si collochi. Una cosa, infatti, è il contesto monarchico, altra cosa, invece, è una repubblica. In quest'ultima, infatti, se  è caratterizzata in senso  democratico, lo "statista" deve sempre perseguire l'interesse della democrazia, ossia del Popolo in senso generale, assoluto, affinché il popolo non subisca danni sia rispetto al livello di benessere che di sicurezza collettiva e individuale. Le decisioni, quindi, dello "statista democratico" non possono essere mai prese contro l'interesse generale del Popolo, neppure se - come innanzi detto - si faccia parte di un'alleanza politico-economica (U.E.) o politico-militare (NATO). Lo statista, infatti, non è il "dittatore" che può prendere decisioni indipendenti e autonome, secondo la sua personale visione del mondo e della politica. Perciò egli potrebbe pure essere di diverso avviso rispetto alla volontà popolare ma non ne può prescindere se è al servizio della democrazia e si troverebbe irrimediabilmente nel "torto politico" se dalle sue decisioni il Popolo ne ricevesse dei danni. Relativamente a questi, poi, va detto che qualsiasi "statista" che conduca il Popolo alla guerra è sempre un pessimo statista. Soltanto gli "Statisti" che riescono ad evitare la guerra al proprio popolo sono degni di essere stimati come statisti. Non c'è mai alcuna giustificazione, neppure se fosse una "guerra di difesa", perché anche in questo caso vorrebbe dire che lo statista non è stato in grado di trovare la migliore soluzione possibile (ce n'è sempre una, almeno) per evitare la guerra, e quindi impedire la inutile perdita di vite umane e la distruzione dei territori. Ecco perché, di fronte alla guerra tra la Russia e l'Ucraìna non è assolutamente possibile sostenere che i due capi di Stato (Putin e Zelensky) siano degli "statisti", come neppure si può sostenere che lo siano quelli americano e inglese. Anzi, è proprio il bellicismo irrazionale di questi ultimi a non renderli "statisti". Così come non è possibile rinvenirli a livello europeo dove alcuni rappresentanti delle istituzioni (a cominciare dalla presidente della Commissione che vuole "vincere la guerra contro la Russia, al presidente del Consiglio europeo e del presidente del Parlamento, che sono sulla stessa linea del fronte) stanno trascinando i Popoli dell'Unione e nazionali in una guerra indiretta (per ora), propagandata come a favore dell'aggredito contro l'aggressore e per la libertà e la democrazia. In verità la cosa più difficile da fare per uno statista è garantire la pace e non fare la guerra. Questa, infatti, è il comportamento più stolto e primitivo possibile che fa regredire gli uomini al loro stadio originario, ossia quello animalesco. Soltanto la Pace, perciò, è il prodotto migliore della civiltà, che vuol dire anche cultura, progresso, saggezza, equilibrio, razionalità, conoscenza, valori umani. Si potrebbe, perciò, concludere che è statista colui che evita al suo popolo di fare una guerra, diretta o indiretta, di offesa o di difesa; e, inoltre, colui che garantisce a tutti i propri cittadini il migliore benessere possibile. E questo benessere non sembra essere compatibile col riarmo in corso né con l'allargamento e l'ampliamento della NATO, strumento militare di offesa, sostanziale, e di difesa, formale. Da quanto precede ne deriva, per ora, che i giudizi positivi finora espressi sull'attuale premiership siano stati piuttosto esagerati; essi andrebbero rivisti, e comunque sembra essere saggio "sospendere il giudizio", in attesa di raffrontare meglio e in modo oggettivo tutti i dati economico-finanziari e delle relazioni diplomatiche con quelli esistenti alla data dell'assunzione della guida del governo. Una prima conclusione, tuttavia, sembra già possibile: tra un "tecnico", per quanto bravo, e un "politico" è sempre meglio quest'ultimo alla guida del governo quando le soluzioni devono essere politiche, come nell'attuale crisi determinata dalla guerra tra la Russia e l'Ucraina.

 
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UMANO, ESSERE-UMANO E LIBERO-PENSIERO

Post n°1064 pubblicato il 18 Giugno 2022 da rteo1

UMANO, ESSERE-UMANO E LIBERO-PENSIERO

di T. R.

Parafrasando e liberamente interpretando il pensiero di Parmenide mi viene da scrivere che "l'essere umano è, e non può non essere" e che "l'essere non umano non può essere umano". L'essere, perciò, "è", ciò che "è" e non può essere altro, diverso da quello che "è". Durante il "divenire" egli si "trasforma", a partire dall'origine, cui seguono la crescita, lo sviluppo, la procreazione e la fine del ciclo. Sia individuale che collettivo, sia delle città che delle civiltà. Così come argutamente scriveva G.B. Vico, ma già era arcinoto ai filosofi Greci, che inserivano tali cicli in quello più generale della natura. Anche "l'essere non umano" ha il proprio ciclo. Non esiste, comunque, almeno nella forma fenomenica, un "non essere", se non nella distinzione che precede, ossia tra "essere umano" e "essere non umano". Ma senza alcun giudizio di valore, come spesso si usa fare, né di rilevanza o primogenitura nel cosmo perché quivi "l'Uno" e il "molteplice" si fondono, sono la stessa cosa. Gli "esseri umani" nel corso dei millenni hanno "creato" sovrastrutture nelle quali hanno disciplinato i loro comportamenti, non più secondo natura ma secondo "convenzioni". Il "diritto", la morale, l'etica, la scienza, le lettere, l'arte, le istituzioni, ne sono i prodotti, "grazie ai quali" viene disciplinata la "convivenza", sia tra singoli che tra gruppi, organizzati in società e Stati. Anche questi, seguono le regole delle "convenzioni" (trattati, in genere), senza aver, tuttavia, mai abbandonata la forza della violenza delle armi, come è avvenuto nella guerra tra la Russia e l'Ucraina. In questi casi, come noto, la barbarie prende il sopravvento e orienta tutti i comportamenti degli esseri umani, sia posti ai vertici delle istituzioni di governo sia dei semplici cittadini. Tutti prendono parte ai conflitti, e tutti secondo "ragione", ma mai come in questi casi la "ragione" si rivela per ciò che essa è: "convenzione". E così si constata che l'essere umano è anche irrazionalità, follia, inconscio. Lo "scibile" umano ha descritto l'essere umano in una miriade di forme, attività, e tutte le sue "creazioni" ne costituiscono il migliore "prodotto" per poterlo decriptare. Una cosa è però certa: è un essere relativo, come sosteneva Protagora, anche se l'essere umano è sempre più convinto di essere stato "prescelto" per compiere "La Missione" e di conoscere l'Assoluto. Ma un essere "finito" non può conoscere "l'infinito". Perciò "l'essere umano è ciò che è" e non può essere "altro". Se proprio una distinzione si vuole tentare è quella che riguarda le "convenzioni" in virtù delle quali si usano indifferentemente i termini di essere umano e di uomo (o umano). Ad es., nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 si legge che «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» (art.1); nella Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950: «Obbligo di rispettare i diritti dell'uomo» (art.1); nella Costituzione italiana è sancito che « La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art.2). Invece, nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, si dichiara che «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti» (art.1). Come si vede, uomini, uomo ed esseri umani sono equivalenti, alternativi, sinonimi, secondo le "convenzioni". Eppure, volendo "spigolare", si potrebbe rilevare tra tali termini una certa differenza, e forse non soltanto formale. Ne propongo una. Le "distinzioni" sottendono due differenti "fedi": laica e religiosa, materiale e spirituale. Dire "uomo o uomini", perciò, è diverso che dire "esseri umani". Nel primo caso l'Essere non ha alcuna rilevanza, nessun collegamento, nessuna importanza: l'uomo è l'uomo e basta (lo zoon Politikon di Aristotele, per capirci). Nel secondo caso, invece, l'uomo è parte dell'Essere, perciò "essere umano". In verità è quest'ultimo concetto ad essere più problematico perché porta sia a sostenere che l'Essere "abita" l'umano, sia che quest'ultimo sia in costante collegamento con l'Essere supremo. E da queste due convinzioni  conseguono la "sacralità" dell'essere umano, la primogenitura di questi, ma anche i "conflitti" per avere il monopolio della rappresentanza terrena. Tralasciando, qui, queste problematiche di tipo "religioso", può essere utile, invece, ricercare delle "peculiarità" sia dell'uomo che dell'essere umano rispetto alle "convenzioni", in particolare rispetto alla "libertà di pensiero". È questa, infatti, a mio avviso, la vera e unica caratteristica degli esseri umani, tanto che tutti gli ordinamenti la "temono" e la disciplinano. I tempi bui del medioevo per fortuna sono ormai passati, anche se la ciclicità degli eventi li riporta nella storia umana. Oggi sembra che stiano avanzando, e ciò lo si è visto sia a causa della pandemia che della guerra che hanno dato ai governanti (e alla maggioranza dei cittadini) il potere di limitare (o cancellare) il "diritto di critica", che è una forma della libera espressione del pensiero. Resiste, comunque, il valore della scienza, grazie alla quale è stato possibile comprendere anche l'origine dell'universo e la sua evoluzione. Anche se molte cose ancora si ignorano, ma ormai la strada della scienza è stata tracciata e la tecnologia concorre a scoprire anche i segreti più microscopici della natura. Prima o poi altre scoperte si aggiungeranno a quelle finora conseguite e il genere umano farà un ulteriore "salto evolutivo" (salvo che la "follia" non lo riporti all'età della pietra o alla scomparsa definitiva). Come è avvenuto con  le teorie della relatività sia ristretta che generale di Einstein e nei tempi più recenti con la teoria dei quanti. L'importante, comunque, è che i "custodi" della "fede" non divengano intolleranti così come purtroppo ormai lo sono diventati molti governanti, anche spacciatisi per "liberali e democratici", e sia sempre consentito al "pensiero" di essere "libero" di procedere verso (o dentro) la "verità". È infatti solo il "libero-pensiero" che eleva l'uomo e gli consente di immaginare "l'Assoluto", oltre che capire quanto a volte siano "miseri" gli umani, anche incaricati di responsabilità piramidali. E forse è proprio per impedire che l'uomo divenga consapevole di sé e, come Terenzio, conosca meglio tutti i vizi dei suoi simili, che si tende ad imporre sempre il "pensiero dominante" come "unico" e a reprimere quello delle minoranze e degli intellettuali illuminati e impegnati. È un dato di fatto, facilmente verificabile, che tutti i governanti, in genere, e gli ordinamenti giuridici, siano inclini ad ostacolare o impedire, con il perimetro spesso angusto della "legalità" sostenuta dalle sanzioni penali, il libero esercizio del pensiero. Anche di quello del mondo dell'arte, della scrittura, e persino di quello dei Poeti, che con la loro ispirazione riescono ad uscire dagli schemi sociali artificiali e a cogliere "il senso" che sta oltre il reale. Epperò più una società coltiva il libero-pensiero, lo premia, lo valorizza, lo stimola, e più esce dalla "caverna" di Platone, soprattutto quando tale scelta "liberale" consenta di mettere in discussione i pregiudizi, l'intolleranza, le arbitrarie diseguaglianze sociali ed economiche e le caste e classi professionali e istituzionali. Purtroppo le tendenze "umane" sono spesso "autolimitative". Basta, infatti, riflettere sulle varie e diverse consorterie di tipo associativo per rendersi conto di quanto gli "umani" adorino le "gerarchie", alle quali si sottopongono con non poco piacere. Non si tratta, infatti, come si vuole credere, di "socialità" (e comunque non soltanto) ma di "rinunciare" all'esercizio del libero pensiero, demandando ad altri il potere di pensare e decidere. E così si afferma l'appartenenza, l'essere di parte (come nei "partiti"), a prescindere dalla riflessione, dal "giudizio critico". È certamente un "male", perché, come sopra detto, solo grazie al "libero pensiero" l'umano può essere definito "essere umano". Altrimenti, rimane soltanto "umano", ma nel senso stretto della natura, come specie tra i milioni di specie. Occorrerebbe, perciò, "demolire" le costruzioni mentali, abbattere i muri, i confini, per guardare il cielo sovrastante e l'universo intero. Anche quello che è dentro di sé, che ognuno può conoscere, solo se lo si voglia. L'unica guida, infatti, è la "Verità", che è la sintesi della "verità e della menzogna". Così come sosteneva Hegel, secondo il quale "La verità è l'intero" e "l'Assoluto è la risultante di tutte le mediazioni del reale nel divenire". L'unica vera peculiarità dell'essere umano è perciò sempre e solo il "pensiero". È soltanto quest'ultimo, infatti, che  consente di "dialogare", sia all'interno di se stessi, anche mediante la "critica" del proprio pensiero, sia verso l'esterno, quando si rivolga il "pensiero" all'Assoluto, al mondo esterno e all'ultraterreno. Il pensiero, però, capace di "dialogare", nell'uno e nell'altro caso, dev'essere necessariamente libero da ogni e qualsiasi condizionamento, di nessuna natura, né politica, né giuridica, né tantomeno religiosa o sociale. Occorre però sempre ricordare che l'uomo non è altro che un organismo "relativo", perciò anche le sue idee ritenute "assolute" sono sempre e solo relative. Perciò è puro fanatismo assolutizzare le proprie convinzioni contro il "relativismo" nei rapporti civili e di ogni altra e diversa natura. Ogni cosa, incluso il pensiero, nel mondo fenomenico si "manifesta" in modo "dialogico", apparentemente conflittuale, e questo è la conseguenza dell'essere "relativi". Soltanto nell'Assoluto, infatti, è tutto indistinto, indeterminato, illimitato, eterno. L'uomo, quindi, è soltanto un semplice "mediatore". E le sue idee sono "necessariamente" conflittuali, sia che abbiano un collegamento con l'Assoluto, sia che si originino solo all'interno di se stesso, mediante un semplice, per quanto complesso, processo biochimico. Il dualismo conflittuale, perciò, è parte dell'essere umano ma anche dell'umano, anche quando si manifesti in modo distruttivo. E l'uomo è "dentro il mondo" e non "fuori dal mondo". Non un semplice osservatore, ma parte attiva e passiva del mondo. Tuttavia l'essere-umano ha la possibilità di esprimersi come "essere", collegato all'illimitato (Àpeiron, di Anassimandro), da cui è uscito per "entrare" nel mondo reale, anziché agire come semplice "umano" assecondando la sua natura. Dipende soltanto da lui la "scelta": decidere se conservare in sé il suo "essere", oppure allontanarsene e porsi temporaneamente in contrapposizione all'Assoluto, ove tuttavia dovrà fare comunque ritorno, perché è il prezzo da pagare per essersi differenziato dall'illimitato. Sarebbe, perciò, una "buona" scelta per l'essere-umano rivendicare ed esercitare sempre il "libero-pensiero" durante la sua esistenza perché è l'unico modo per fondere la duale soggettività di "essere" e di "umano", come energia-materia, o spirito-materia, nel proprio "divenire" sospinto dalla "freccia del tempo". E grazie a tale "fusione" l'essere-umano col libero pensiero potrà anche trascendersi per impedire (o limitare) gli "opposti" (bene e male, pace e guerra, odio e amore,ecc.), che agiscono nel solo mondo "relativo" e non nell'Assoluto. 

 
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