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Rivista di approfondimento culturale e politico dell'Associazione SocialismoeSinistra
 

 

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Post N° 56

Post n°56 pubblicato il 19 Gennaio 2009 da socialismoesinistra

 

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Globalizzazione: i compiti della Sinistra

parte terza

(Ragionando sul documento di Bartolomei del ’99)

 .

Ho conosciuto Franco Bartolomei più di trentanni fa, alle assise nazionali della gioventù socialista del 1975. Con il passare degli anni ha conservato intatta la critica verso il capitalismo e la passione per l’analisi delle trasformazioni dell’economia, che caratterizzavano i maestri della nostra giovinezza: Rosa Luxemburg e Riccardo Lombardi. Il documento che egli scrisse nel 1999 e che ritorna d’attualità oggi, ne è una testimonianza.

La globalizzazione è stata assunta come un fenomeno allo stesso tempo inevitabile e ingovernabile, come l’unico destino possibile della storia, ricadendo in una filosofia della storia dal fine più cupo e demoralizzante rispetto al tanto deprecato marxismo, che almeno ci regalava l’illusione di un’umanità in armonia e libera dai bisogni.

Non c’è mai stata un’autentica gestione politica dell’economia a livello internazionale, pensiamo alle sceneggiate dei G7 o G8. Anche nel processo di integrazione europea c’è soltanto un coordinamento tra Banca Centrale Europea , da un parte, e ministri economici, dall’altra, e solo relativamente ai mercati finanziari. Evidentemente si è ritenuto che ciò fosse sufficiente o, meglio, che non fosse il caso di ingabbiare con troppi vincoli la vitalità dell’economia reale.

E’ vero, la sinistra è stata culturalmente subalterna all’ondata degli economisti, dei banchieri e degli uomini d’affari, che tessevano le lodi della nuova era dell’economia.  Ma non ci siamo chiesti perché ciò sia accaduto. Molti dei mali di cui ha sofferto  l’economia degli Stati avanzati negli ultimi trent’anni, dopo il primo shock petrolifero, sono addebitabili alla crisi fiscale dello Stato, usando l’espressione di O’ Connor.

L’attività politica delle socialdemocrazie nei paesi europei, al governo o all’opposizione, aveva consentito l’allargamento dei diritti (i diritti sociali) a fasce sempre più ampie di popolazione e il varo di una legislazione di  sostegno ai diritti di lavoratori sul posto di lavoro. Avevamo creato la civiltà dello Stato sociale. Ma tutto ciò ha avuto un costo economico, pagato attraverso un lento ed inesorabile aumento della pressione fiscale su cittadini e imprese, provocandone il malcontento verso tutto ciò che è pubblico. Le imprese, dal canto loro, hanno vissuto la legislazione sociale come una rigidità imposta alla loro libertà di scelta e come una causa di costi di produzione aggiuntivi.

L’apertura di nuovi spazi economici con la caduta del comunismo nell’Est Europa e la fame di progresso dell’area del Sud Est asiatico, in cui i costi di produzione (e soprattutto di quello del fattore-lavoro) sono sensibilmente inferiori a quelli europei,  hanno messo in crisi di competitività le industrie  europee ed hanno fatto pensare a molti che il modello da seguire fosse quello: bassi salari, mercato senza regole. La socialdemocrazia, accusata di aver fatto aumentare i costi di produzione delle imprese e di averle messe fuori mercato rispetto ai nuovi concorrenti internazionali, si è trovata con le spalle al muro. Non poteva proporre un aumento dell’intervento dello Stato nell’economia, poichè era proprio ciò ad essere indicato come l’origine dei mali delle imprese, ma non è stata neanche in grado di creare una nuova elaborazione teorica per rispondere ai problemi creati dal nuovo scenario economico. Abbiamo, per ora, una risposta sul piano delle politiche del lavoro: la flexecurity, teorizzata e messa in pratica dall’attuale presidente del PSE, Poul Rasmussen, quando era primo ministro in Danimarca, e divenuta poi linea-guida dell’Unione Europea.. Questa politica si basa sull’intervento dello Stato, a favore del lavoratore disoccupato, con sussidi economici dignitosi e con corsi di formazione professionale per attrezzarlo a svolgere nuovi lavori. Ma in Italia, con lo stock del debito pubblico oltre il 100% del prodotto interno lordo, sarebbe difficile reperire le risorse necessarie  per finanziare questi ammortizzatori sociali, a meno di ristrutturare la spesa sociale, troppo sbilanciata sulle pensioni ed in particolare su quelle francamente sproporzionate di alcuni settori del pubblico impiego.

La crisi della globalizzazione come trionfo degli “animal spirits” del capitalismo si è avuta negli ultimi mesi, quando il livello più raffinato dell’economia, quello finanziario, è crollato come un castello di carte. Come aveva previsto Bartolomei nel ‘99, si è verificata una sfasatura tra  l’economia reale e quella finanziaria e la crisi dell’economia finanziaria ha rischiato di trascinare con sé quella reale. Nella ricchezza distrutta da crolli di borsa e da fallimenti, però, c’erano anche i risparmi dei lavoratori, c’erano anche i loro fondi pensione che dovrebbero integrare la magre pensioni del futuro.

Di colpo, sotto la minaccia di una crisi dell’economia reale ancora più grave di quella del 1929, si è alzata anche da parte dei settori più liberisti la richiesta di aiuto agli Stati . Le linee-guida degli interventi sono state dettate da un governo socialista, quello britannico, attraverso l’acquisto di partecipazioni azionarie nelle banche a rischio di fallimento. Però, com’è stato detto giustamente, in questo modo si sono salvate le economie nazionali e quella globale, ma si sono socializzate le perdite di gradi imprese private, realizzate a causa di una gestione nefasta da parte dei managers.

Su qualche punto ho delle opinioni in parte divergenti da quelle di Bartolomei.

Un’autonomia di elaborazione culturale su queste tematiche non passa solo attraverso per un recupero di concetti come quello di sfruttamento. Possiamo parlare di sfruttamento quando il lavoro viene retribuito in modo ingiusto, ma sappiamo che l’ingiustizia nella società si manifesta anche con altre modalità e fuori dei luoghi della produzione.

L’omologazione tra nazioni rientra nell’esperienza della  storia: il vecchio Marx diceva che è il paese più sviluppato ad indicare la strada che sarà percorsa dagli altri.

La mobilità sociale non deve essere vista come un pericolo da evitare: l’unica alternativa ad essa sarebbe la fissità sociale e la sclerosi della società nel suo complesso. Si rifletta anche sul fatto che le società occidentali sono dominate dall’individualismo di massa, per cui qualsiasi individuo ha legittimi bisogni e aspettative. Occorre invece democratizzare la mobilità tra le classi, offrire a tutti i cittadini le stesse opportunità, portando tutti sulla stessa linea di partenza attraverso un efficiente  sistema dell’istruzione pubblica. 

Una linea socialista deve andare verso un governo mondiale dell’economia e la fissazione di regole stringenti per gli operatori dei mercati finanziari. La famosa pecora di cui parlava Olaf Palme ha raggiunto dimensioni planetarie e deve essere tosata in modo da dare benessere ai paesi poveri, senza intaccare le condizioni di vita raggiunte nei paesi avanzati.

In Italia, il recupero del valore e dell’intervento dello Stato in economia non deve far ritornare al vecchio carrozzone delle partecipazioni statali, ma ad una politica selettiva di investimenti pubblici nei settori strategici dell’industria e nella ricerca scientifica, cioè lì dove si svolge la competizione tra paesi avanzati.

Ma soprattutto il socialismo non deve produrre schemi astratti da applicare in campo economico a prescindere dai mutamenti della realtà. Deve invece far tesoro, in modo duttile, di tutti gli apporti scientifici, traendone indicazioni operative, da tradurre in politiche concrete, sempre alla luce dei propri valori.  

Nicolino Corrado  

Direttivo Provinciale del PS di Imperia    

 
 
 
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