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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Città del Messico

Post n°124 pubblicato il 09 Aprile 2007 da falco58dgl
 

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Un’ampia strada, di sei corsie. Anticamente si chiamava rio,
il fiume. Fiumi di veicoli nei due sensi. Taxi, autobus di linea,
peseros, automobili americane che passano rapide o a
singhiozzo, fino a punteggiare il corso come un caleidoscopio
in movimento. Il parco secolare davanti.
Vista dall’alto, la città è un’estensione amorfa e infinita di case
basse, di isolati rettangolari, spazi rappresi e duplicati,
tagliati da strisce d’asfalto. Dal basso, si vede un cielo azzurro,
solcato da nubi e un ribollire di edifici mal costruiti, traverse
chiuse e numeri civici a quattro cifre.
Sullo stretto marciapiede s’addensa una folla che sembra non
aver fretta, compressa tra i venditori ambulanti di chicles,
caramelle e cioccolata, i chioschi di tacos, una moltitudine di
bancarelle, le edicole, i negozi di articoli informatici, le farmacie,
i centri commerciali ampi e lussuosi. Un ospedale e un cancello
da cui entrano ed escono centinaia di persone vestite con
jeans o con gonne a scacchi, qualche camice bianco.

Un odore di cipolla fritta, di carne, di mais che impasta l’aria.
Con permiso, con permiso. Cerco di farmi largo nel muro di
persone che sembra ostruire il passaggio, pensando che il
Distretto Federale, l’antica Tenochtitlàn, la sterminata
Città del Messico non è cambiata, è rimasta uguale nel
tempo.
Forse un po’ più caotica e rumorosa,  magari ancora
più  inquinata, ma identica  a se stessa.
Con permiso, con permiso. Attraverso correndo l’incrocio tra
Universidad e Rio Churubusco, schivo un gruppo di studenti
nella  loro uniforme - maglia verde e pantaloni neri -, vengo
guardato distrattamente da una donna dai tratti indigeni che
allatta il suo bambino seduta sul bordo della strada, scendo
una scala e m’inoltro nella metropolitana.

 Sono le due del pomeriggio, non è l’ora di punta,
quando agonizzi in vagoni ricolmi e non riesci a uscire,
se non spinto da flussi contrastanti di passeggeri.
Vado verso il centro, alla ricerca di un ricordo che
sbiadisce al ripresentarsi, sostituito da immagini sempre
un po’ diverse. Negli scompartimenti, a ogni stazione,
entrano dei giovani e, con voce stentorea, provano
a vendere coltellini multiuso, giornali, penne biro,
manuali di ortografia, ombrelli. Tutto per pochi pesos,
poche centinaia di lire. Qualche cieco, appoggiato
al suo bastone, canta e mantiene un equilibrio miracoloso
tra la folla indifferente. Molti dormono, seduti sui sedili
verdi o addossati alle pareti oscillanti. Qualcuno legge
fumetti con assorta concentrazione.
Eugenia, Etiopia,
Centro Medico, Niños Héroes. La metropolitana
mi riporta indietro. Ogni fermata un anno. Quando
arrivo a Balderas e scendo con energia frettolosa,
è come se fossi tornato al 1986. 1986, l’anno del
ritorno, del rientro in un paese benestante e ignaro,
in un'Italia che aveva perso i propri figli per strada
e che m’accoglieva con un turbinio ostile di immagini.
Resisto alla tentazione di rivedere la mia vecchia casa.
Dopo il terremoto, il paesaggio è cambiato. Hanno
costruito un parcheggio, la strada si è trasformata
in un luogo di sosta di autobus e furgoni. L’edificio a tre
piani in cui ho trascorso cinque anni è schiacciato
tra enormi costruzioni di cemento e la
fontana delle
Cibeles si è disseccata.
 
 

Vado verso il parco di Chapultepec, dove andavo a correre
nelle mattine di inverni assolati o di estati umide, presaghe
di pioggia a  scrosci. Anche lì bancarelle, venditori ambulanti,
coppie di ragazzi
che si tengono per mano. Il panorama
urbano è diventato una distesa omogenea di
commerci. Bevo un succo d’arancia a un tavolino.
Da lì scorgo il castello e il bosco, quasi incongruo nella sua
solitudine. Rimango a bere un caffè de olla, servito in una
tazza gigante, mentre passano famiglie, gruppi, persone che
paiono in vacanza e ridono.
Guardo l’orologio. Sono le quindici e trenta. Tra poco dovrò
andare in aeroporto a prendere Maria Isabel che arriva da
Cancun. 
 

Non ho più voglia di tornare a vivere in Messico. La sensazione
mi  colpisce come una frustata, mentre mi alzo, pago e vado
alla ricerca
di un taxi.

Il taxista mi guarda di sbieco e mi chiede, dopo qualche minuto,
Usted de donde es?”. “
Italiano, pero estuve viviendo varios
años en México
”.
“Ah- fa lui sforzandosi di simulare interesse- còmo es Italia”?
Non so cosa rispondere. Gli dico qualcosa tipo “un bel paese,
ricco e fragile”. Lui non capisce e mi guarda come se avessi
bevuto.
Incomincio a tessere le lodi del Messico, ripercorrendo un
periodo  che, nel tempo, assume i contorni di un sogno
raccontato troppe volte.
Que bueno que le gustò México”, mi dice lui nel congedarmi.

***

Sono in anticipo. Mi potrei forse bere una birra in uno dei bar
di questa aerostazione costruita assurdamente quasi nel centro
della città e attendere che Isabel mi racconti delle spiagge
bianche dello Yucatan.
Opto per una tequila e guardo la massa di gente che parte,
staziona  e arriva. Tanta, troppa gente, sempre, dovunque.
Ecco, spunta Isabel in mezzo a due americani enormi.
Cammina  con calma, trascinando una valigia di pelle
marrone. Accenna un sorriso, si guarda intorno, mi lascia la
valigia.


“Come sono andate le vacanze?”
“Benissimo. E le tue?”
“ Niente male. Sono stato in Guatemala tre settimane. Un po’ di
pioggia, ma grandi luoghi. Tu piuttosto sembri una mulatta.”
“Sì, a Playa del Carmen faceva un caldo tremendo. Andiamo.”

Ci incamminiamo verso il parcheggio dei taxi ufficiali. Si paga in
anticipo e ti danno un biglietto che consegni all’autista. Saliamo.
Il traffico è aumentato e si formano delle code agli incroci.
Prendiamo strade  che non riconosco e che sembrano tutte
uguali.
Scendiamo. Ancora prima di entrare in casa, Isabel mi
guarda complice e mi passa un  cannone senza filtro, una
cartina arrotolata intorno a una cima di marijuana della costa.


“Dai, non è prudente”. “Stai invecchiando, Gianni. Un tempo te lo
saresti fumato anche al cine”. “Va bene, dammelo”. Aspiro il fumo,
entro in  quella casa che conoscevo bene, mi siedo, poi mi alzo.
M’affaccio alla finestra e rimango sorpreso dal silenzio. Un’onda
circolare sale dallo stomaco e arriva alla fronte

 Isabel mi viene addosso quasi di slancio, ridendo. Mi
bacia con impeto. Vorrei abbracciarla e sentire le punte
 dei suoi seni contro di me, ma si scosta, all’improvviso.
“No, no se puede. Hai dimenticato di essere un uomo
sposato?”
“E tu te ne sei ricordata proprio adesso?”
Isabel ride, mostrando i suoi denti grandi e bianchi.
“No, non l’ho mai scordato. Per questo non farò l’amore con te
questa sera”.
“Ma non fare la…”, non finisco neanche la frase, la bacio con furia,
come se volessi farle male. La stringo quasi temessi di perderla e
vorrei trascinarla in camera da letto.

Lei mi guarda curiosa. Fa due passi indietro e mormora “Seguimi,
ma te ne pentirai”.

***

Sono le quattro del mattino. Un’aria fredda che sa di laguna
e di
 
v
ulcani mi sferza la faccia. Sono contento. Sono
disperato.  Cerco un taxi che mi riporti a casa. Cammino
tre isolati, cercando di non pensare a quello che è successo.
Si ferma un furgone, con due ceffi a bordo.
Salgo.  Vanno veloce verso la mia casa provvisoria, mi
riportano in una villa troppo  vasta popolata di ombre.
Individuo la chiave, entro, salgo le scale.
Buio e silenzio.
Accendo la luce, temendo di trovare presenze estranee
accovacciate  negli angoli della stanza.
La stanza è vuota, il letto rifatto.
Mi spoglio, accendo una sigaretta. Do un’occhiata verso il
giardino interno ricoperto da una sfacciata buganvillea.
Mi butto sul letto e penso, con rabbia e sollievo che tra
un paio di giorni torno in Italia.

Merda, dico tra me e me, merda, poco prima di addormentarmi.

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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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