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Messaggi di Ottobre 2017

Il carbone per Trump (FEDERICO RAMPINI)

Post n°4087 pubblicato il 12 Ottobre 2017 da ninograg1
 

Viaggio in Ohio, dove il dietrofront ambientale degli Usa è già realtà “Così le energie fossili saranno di nuovo la prima fonte d’America”

Nella “terra nera” delle miniere Usa “Addio rinnovabili”.

RITORNO AL PASSATO.
BELLAIRE (OHIO) – «Cinquant’anni fa questa era la terra del King Coal, il re carbone. Oggi non siamo più dominanti ma siamo pur sempre della famiglia reale». Così riassume la rinascita del capitalismo a carbone Ed Spiker, manager di Westmoreland Resources. Mi rivela in anticipo un sorpasso clamoroso: «L’anno prossimo, secondo i dati ufficiali del governo, il carbone tornerà ad essere la prima fonte di alimentazione delle centrali elettriche americane, il 38% della corrente la produrremo noi, contro il 36% del gas naturale ».

 

È un’inversione di tendenza che sarebbe stata impossibile sotto l’Amministrazione Obama, che in omaggio agli accordi di Parigi fece di tutto per penalizzare le energie fossili. Ma Donald Trump sconfessa la lotta al cambiamento climatico e accelera la deregulationenergetica. Proprio in queste ore, applicando gli ordini del presidente, l’Environmental Protection Agency smantella i limiti alle emissioni carboniche delle centrali elettriche. In mezzo a questo revival del carbone incontro Spiker sul suo luogo di lavoro: in riva al fiume Ohio che dà il nome allo Stato. È una di quelle autostrade fluviali che sono le arterie strategiche del trasporto merci, l’Ohio confluisce nel Mississippi.
Siamo circondati da un viavai ininterrotto di camion. Arrivano dalle miniere a cielo aperto delle colline cicostanti, rovesciano carbone sulle montagne nere di questo vasto deposito. Da un silos il carbone viene trasportato su carrelli mobili che finiscono nella pancia delle chiatte fluviali attraccate sul molo qui a fianco. Ogni 35 minuti viene riempita una chiatta da 1.700 tonnellate, che parte lungo il fiume per raggiungere le centrali elettriche della regione: Ohio, Pennsylvania, Kentucky, West Virginia. «È per questo che noi del Midwest paghiamo bollette della luce più basse di voi newyorchesi, la nostra elettricità va a carbone», mi dice Spiker.
Un’altra varietà di questa “terra nera” – il coaking coal – finisce nelle tante acciaierie di questa zona. Per arrivare fino al porto di Bellaire, in un’ora e mezza di strada da Pittsburgh, ho attraversato quello che fu il cuore del primo capitalismo americano. Qui hanno costruito le loro fortune le famiglie Carnegie, Mellon, Frick, i protagonisti della rivoluzione industriale che fecero affluire immigrati dall’Italia, dalla Polonia, per lavorare nelle miniere e negli altiforni. Oggi questa Rust Belt, “cintura della ruggine”, è afflitta dalla deindustrializzazione, impoverita e spopolata dopo decenni di concorrenza cinese. Ma chi non si rassegna al declino ha trovato il suo profeta: Trump ha promesso una seconda vita al Re carbone. È una delle ragioni per cui oggi si trova lui alla Casa Bianca.
«Un anno fa – ricorda Spiker – Hillary da queste parti venne a dire che le miniere andavano chiuse, che il futuro è delle energie rinnovabili. Molti dei miei collaboratori e dipendenti, che avevano votato sempre democratico, a quel punto hanno scelto Trump». Voti decisivi, in questi “swing State” del Midwest che sono passati dalla casella democratica a quella repubblicana. Proprio qui si è giocata su minuscole frazioni percentuali l’elezione dell’8 novembre scorso. E Trump oggi restituisce il favore. «Le leggi di Obama – dice Spiker – ci stavano facendo parecchio male, la svolta di Trump è ottima per noi». A 61 anni, con alle spalle una formazione in Scienze politiche, questo manager che ama le canzoni di Celentano e ha una famiglia multietnica (nuore e generi cinesi e ispanici) non è un “trumpiano” a oltranza. La sua difesa del capitalismo a carbone è moderata. «Voi ambientalisti – dice – ci considerate persone malvagie, ma l’industria del carbone oggi deve rispettare standard di sicurezza molto severi, e le ex-miniere esaurite le riconvertiamo all’agricoltura. Certo questo presidente a volte ci fa inorridire e anch’io sogno per i miei nipoti un pianeta senza inquinamento, senza energie fossili. Solo che non è realistico immaginare di arrivarci subito. Carbone e gas naturale allo stato attuale delle conoscenze tecnologiche sono le uniche fonti disponibili alle tre di notte, quando il sole non c’è. O in un lungo inverno gelido senza vento, quando le pale eoliche si fermano. Del resto continuiamo a esportare carbone in paesi ambientalisti come la Germania e l’Olanda. Ne esportiamo in Cina e in India, che pure hanno firmato gli accordi di Parigi ».
Articolo intero su La Repubblica del 12/10/2017.

 
 
 

Catalogna il dado è, quasi, tratto.

Post n°4086 pubblicato il 10 Ottobre 2017 da ninograg1
 

 Ci si poteva aspettare una capitalazione? No. E nemmeno una dichiarazione d'indipendenza visto che la non ce n'erano i presupposti politici, quindi? Si è rimandata la palla nel campo spagnolo ed ha ragione visto che il governo centrale, e la corte suprema, del tutto nominata dai partiti politici spagnoli, da tempo aveva progressivamente ristretto gli ambiti d'azione delle generalitat locali: quindi non solo catalani. Ora se a Madrid ci fossero politici almeno furbi (non dico intelligenti o 'liberali' ma solo furbi) il dialogo si potrebbe aprire.. invece temo, più per ragioni opportunistiche che altro, che la strada sarà diversa e molto più autoritaria: d'altronde lo vediamo tutti i giorni, no? Quando i cittadini votano esprimendosi in un senso il governo putnualmente va nell'altro, ossia quello indicato da chi ha nelle proprie mani le borse dei soldi o il potere, leggi Commissione europea, MES, ecc.: ne abbiamo avuti alcuni esempi qui in italia con il refrendum sull'acqua e in Grecia dove Tsirpas si è piegato, nononstante il voto referendario contrario, ai diktat della troika...in Catalogna non sarà differente.
La linea rimarrà la stessa: nessun dialogo. E non è una linea spagnola, temo ma europea.... e lo sappiamo visto l'atteggiamento della UE non solo durante questa crisi ma durante tutto il periodo della crisi economica: si fa quel che diciamo noi, punto!!! Questo è autoritarismo e hanno ragione coloro che sostengono che questa europa è geneticamente autoritaria: non siamo al IV Reich ma lì all'orizzonte se ne profila uno..

 
 
 

Emissioni inquinanti, Italia inadempiente sui dati del 2015

Post n°4085 pubblicato il 09 Ottobre 2017 da ninograg1
 

Comunicati fuori tempo per problemi tecnici’. Unico Paese dell’Ue

Roma non ha fornito a Bruxelles informazioni relative a oltre 3.000 stabilimenti. Lo si legge sul sito dell’E-Prtr, il Registro europeo del rilascio e trasferimento degli inquinanti: “Non sono state comunicate entro la data richiesta”, marzo 2017.

L’Italia è l’unico Paese a non aver fornito alla Commissione europea i dati relativi al 2015 sulle emissioni inquinanti di oltre 3.000 stabilimenti nei tempi stabiliti dal Regolamento comunitario. Così, ora che il registro è pubblico, nella mappa delle circa 30mila industrie dei Paesi membri e di Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Serbia e Svizzera, la Penisola è un buco nero senza alcuna informazione. E la situazione non cambierà almeno fino a novembre.

Lo si legge chiaramente sul sito dell’E-Prtr, il Registro europeo del rilascio e trasferimento degli inquinanti: “Attenzione: non sono disponibili dati relativi all’Italia per il 2015. I dati non sono stati comunicati entro la data richiesta”, scrive l’E-Prtr, gestito dalla Commissione europea che si avvale dell’Agenzia europea per l’ambiente per il controllo delle certificazioni inviate dai 28 Stati membri.

Istituito da un Regolamento europeo nel 2006 e poi potenziato, il Registro europeo fornisce dati ambientali chiave facilmente accessibili relativi a 91 sostanze inquinanti rilasciate da circa 30mila aziende europee di nove settori industriali, tra figurano quali centrali elettriche, stabilimenti siderurgici e industrie chimiche. I dati riguardano le emissioni al suolo e da fonti diffuse, oltre che il trasferimento dei rifiuti fuori dal sito industriale. La Commissione  aveva deciso di istituire la banca dati per “fornire al pubblico informazioni attendibili”, “permettere decisioni consapevoli” e “contribuire alla prevenzione e alla riduzione dell’inquinamento ambientale”. Dal 2007, quindi, gli Stati membri hanno l’obbligo di inviare i dati “entro 15 mesi dalla fine dell’anno di riferimento”.

Le schede delle industrie riferite al 2015 sarebbero quindi dovute arrivare alla Commissione entro marzo 2017. Un compito assolto da tutti gli Stati, tranne che dall’Italia. IlFattoQuotidiano.it ha chiesto al ministero dell’Ambiente, responsabile del procedimento, per quali motivi ciò non è avvenuto. Ma non ha ottenuto risposte ufficiali. È stato tuttavia possibile ricostruire quanto sarebbe accaduto grazie ad alcune fonti. L’Italia ha fornito i dati alla Commissione solo a giugno, con tre mesi di ritardo, e ora l’Agenzia europea per l’ambiente sta effettuando uno screening delle schede ‘validandole’.

Il problema – secondo quanto apprende Il Fatto – non è imputabile agli oltre tremila stabilimenti coinvolti, ognuno dei quali deve fornire una rigorosa autocertificazione all’ente governativo responsabile del procedimento, ma a un “problema tecnico” interno al ministero dell’Ambiente che ha “ritardato tutto”. Di più, non è dato sapere, se non che l’Italia ha provveduto a settembre a integrare i dati inviati a inizio estate, che questi sarebbero già disponibili in una piattaforma interna ma comunque non nel Registro europeo, dove dovrebbero essere pubblicati “entro novembre”.

Il ritardo non provocherà l’apertura di una procedura d’infrazione perché le schede sono comunque state inviate e inoltre non era mai accaduto dall’istituzione dell’E-Prtr che l’Italia infrangesse l’obbligo di inviare i report entro 15 mesi dopo la fine dell’anno di riferimento delle emissioni inquinanti. Ma la figuraccia è tutta lì, in quell’avviso che campeggia sul sito: “I dati non sono stati comunicati entro la data richiesta”.

Tratto dal Fatto Quotidiano

 

 
 
 

Una questione seria

Post n°4084 pubblicato il 06 Ottobre 2017 da ninograg1
 

Possiamo portare lo stesso ragionamento oggi: se a parlare di corruzione e corrotti sono persone come Lavia o la giornalista sportiva D’Amico (un maschio e una femmina, per non essere tacciato di maschilismo), usando pure argomentazioni vecchie di anni, un problema ce l’abbiamo.

Meglio un corrotto che uno stato rotto cosa vuol dire? Che c’è una dose minima di corruzione (e di soldi pubblici rubati, di non meritocrazia) che è lecito consentire?

“Mi dispiace essere realista: sopportare qualche corrotto è meglio che avere lo Stato rotto. Io non sono più purista come un tempo”.

Che direbbe Lavia o D’Amico se un giorno dovesse perdere il posto per un nominato, un amico di?
La corruzione non è un’opinione qualsiasi, ma qualcosa che blocca lo stato, ne mina la credibilità, un fardello sui conti e sulla crescita del paese.
Altro che repubblica giudiziaria: i debiti e le inefficienze di oggi le paghiamo tutti, perfino i giornalisti del Foglio che da anni portano avanti la campagna contro i magistrati che si permettono di indagare i colletti bianchi e i politici.
E che si accontentano del simbolo dell’Europa sulla bandiera del PD. O di Forza Italia.
Una questione tremendamente seria per lasciarla a commentatori qualsiasi.

Da unoenessuno.blogspot.it

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buon weekend

 
 
 

Bond “spazzatura”: grafico dimostra che si sta formando una bolla

Post n°4083 pubblicato il 05 Ottobre 2017 da ninograg1
 

WSI 5 ottobre 2017, di Daniele Chicca

La situazione nel mercato dei bond societari è anomala e ha spinto alcuni commentatori di mercato a lanciare un avvertimento circa la formazione di una bolla. Alan Greenspan sostiene che la bolla si stia creando nel mercato dei titoli di Stato statunitensi, invece potrebbero essere i corporate bond a capitolare per primi. Che sia meglio suonare il campanello d’allarme nel settore prima che sia tardi lo si capisce bene dal grafico sotto riportato.

I rendimenti dei titoli obbligazionari ad alto rischio – quelli definiti “spazzatura”, i cosiddetti junk bond – scambiano in prossimità dei minimi record. Le emissioni di bond che non offrono garanzie e protezioni e che offrono rendimenti succulenti sui mercati in un contesto di tassi ancora molto bassi stanno per raggiungere i massimi di tutti i tempi.

Se la bolla dei junk bond scoppierà, quando lo farà potrebbe facilmente mettere in crisi anche le Borse e provocare una discesa dei rendimenti dei Treasuries Usa. A quel punto anche l’economia ne subirebbe le conseguenze, rischiando di sprofondare in una fase di recessione.

Uno dei grafici più belli ed esplicativi che circolano nelle sale operative oggi riguarda il livello raggiunto dai rendimenti dei junk bond dell’area euro. La corsa dei titoli, alimentata dalle misure ultra accomodanti della Bce di Mario Draghi, che sta comprando obbligazioni (anche societarie e non solo governative) al ritmo di 60 miliardi di euro al mese, ha spinto i tassi sotto quelli dei bond americani omologhi.


 
 
 

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