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Sulla strada per Flores...

Post n°465 pubblicato il 13 Agosto 2012 da falco58dgl
 


semuc

                         (Semuc Champey)

Abbandoniamo Semuc Champey con sensazioni contrastanti. La maestosità del paesaggio e lo splendore del parco naturale che fa da cornice alle pozze color turchese del fiume dove ci siamo immersi il giorno precedente sono ben impresse nella nostra mente, ma avverto anche un forte dolore nella parte bassa della schiena, conseguenza di una caduta da una scala ripida e scivolosa mentre scendevamo dal mirador al fiume. La strada per Lanquin, il paese vicino, non aiuta; è una mulattiera piena di buchi, di fossi e di pozzanghere, dove anche il pick up quattro per quattro fatica ad avanzare. Sono solo nove chilometri,  ma occorre circa un’ora per arrivare in paese, caracollando su salite e discese scoscese e disuguali che richiedono marce ridotte e  miracoli di equilibrio.

Quando scendo dal mezzo, verso le otto del mattino, mi sento decisamente sollevato: mi accendo una sigaretta, riconosco il pulmino che ci porterà, attraverso il territorio dell’Alta Verapaz e del Peten, a Flores, graziosa isola all’interno di una laguna collegata  alla terraferma da un ponte, porta d’accesso per Tikal e i suoi templi Maya.

 Il guidatore del mezzo è lo stesso che ci ha accompagnato da Antigua a Semuc.I viaggiatori, invece, sono una compagine eterogenea che proviene da  paesi diversi e lontani: vi sono austriaci, irlandesi, americani e giapponesi. Attacchiamo discorso con il conducente -José-, che ci comunica un fatto preoccupante: ha dormito solo un’ora la notte prima, ha guidato ininterrottamente per sedici ore e adesso è morto di stanchezza, lo attendono altre nove o dieci  ore prima di arrivare a destinazione. La sua vita è quella di uno schiavo moderno, guadagna 1.500 quetzales al mese (circa 200 dollari) e deve lavorare anche 15 ore al giorno, dormendo nel suo furgone, caricando e scaricando i bagagli dei passeggeri. Graciela ed io ci lanciamo un’occhiata impaurita; soprattutto quando il sonno lo vince per un attimo e il furgone sbanda verso il ciglio della strada.

Arriviamo in qualche modo a Coban e lì ci fermiamo per cambiare una ruota. I ragazzi che viaggiano con noi si riuniscono per decidere cosa fare. Le austriache vorrebbero contattare la compagnia per chiedere un cambiamento di guidatore, ma ciò significherebbe rimanere almeno un giorno in attesa in qualche punto intermedio del percorso. Decidiamo allora una diversa strategia: noi, che viaggiamo davanti,  terremo sveglio il guidatore parlandogli in continuazione. Nella prima area di sosta, faremo una pausa lunga, anche di due ore, per permettere al conducente di dormire un po’. Riprendiamo il viaggio in un paesaggio di rilievi e vegetazione tropicale che si snoda davanti ai nostri occhi come un territorio inesplorato. Chiediamo a José ogni quindici minuti quanto manchi al punto di ristoro e lui ci risponde sempre “media hora”. Nel frattempo, ci dice di essere sposato da circa due anni, di non avere ancora figli e che sta cercando un lavoro migliore, dove non lo costringano a lavorare in condizioni di rischio per sé e per le persone che trasporta.

Graciela fa un lavoro meraviglioso: gli parla della sua famiglia, gli chiede del Guatemala, della sua organizzazione sociale, della possibilità di trovare un lavoro, gli comunica le impressioni del viaggio, che si è snodato da Città del Messico a San Cristobal de las Casas, in Chiapas, al lago Atitlan con i suoi vulcani, a Chichicastenango, ad Antigua, per approdare a Semuc Champey, luogo che in lingua Maya significa “ciò che è nascosto nel profondo della foresta” e a Flores, gli parla dell’Europa, gli chiede dei suoi fratelli, dei suoi cugini, dei suoi genitori, commenta le bellezze del percorso. José ci dice che tutta l’area che attraversiamo è disseminata di punti d’interesse e di luoghi sconosciuti ai turisti: piscine naturali, siti archeologici, fiumi che scorrono nella selva tropicale, acque termali.

Sono quasi le tre del pomeriggio quando finalmente ci fermiamo in una stazione di servizio con  ristorante. José crolla su un’amaca, noi possiamo sederci a un tavolo e mangiare qualcosa. Attacchiamo discorso con due ragazzi americani che hanno, grosso modo, l’età di nostro figlio: viaggiano da settimane, il più giovane si è fermato per sei settimane a Flores per fare un tirocinio universitario. Il gruppo dei giapponesi, invece, sembra essersi materializzato direttamente dagli anni ’60: capelli lunghi fino a mezza schiena, trecce rasta, inglese approssimativo. Uno di loro si è licenziato dal suo lavoro e viaggia ormai da 11 mesi, ha visitato tutto l’estremo Oriente, l’Europa. Gli Stati uniti e l’America latina, un altro ha intenzione di  tornare in Giappone non prima del febbraio 2013.

Riprendiamo il viaggio rinfrancati: la strada s’interrompe davanti a un fiume e il pulmino deve salire su una chiatta che fa da traghetto. Mancano non più di ottanta chilometri a Flores, ma il conducente non conosce la strada e gliela devo suggerire io che sono stato in quell’area almeno quattro volte in precedenza. Arriviamo a destinazione al crepuscolo, l’isola di Flores si spalanca davanti a noi come una promessa realizzata con le sue case color pastello e la laguna che scintilla al chiarore di una falce di luna: prima di congedarci dai nostri compagni di viaggio con vigorosi “gimme five” e urla di giubilo, ringraziamo José per la sua immane fatica e il sacrificio che s’impone per poter andare avanti, giorno per giorno, sulle strade belle e crudeli del Guatemala.

W.

peten



 
 
 
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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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