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Coyoacan
Post n°159 pubblicato il 29 Giugno 2007 da falco58dgl
Nel 1519, Cortes, arrivando nella capitale dell’impero azteca Tenochtitlán rimase stupito dalla grandezza della citta’, che contava allora 250.000 abitanti, i cui palazzi erano “cosi maestosi e ben costruiti che in Europa non se ne conoscono di simili”. La citta’, allora, era costruita su un insieme di isolotti affioranti all’interno di una grande laguna che copriva “el valle de Mexico”, si poteva andare in barca dal zocalo (il centro cerimoniale, politico e religioso della capitale) fino a Xochimilco, a 40 km di distanza. La notte, come ha scritto Fuentes, portava nell’aria l’odore dei vulcani e della laguna. Adesso, nella moderna Citta’ del México, vi sono ancora strade che portano il nome di fiumi, degli antichi canali che attraversavano l’arcipelago di Tenochtitlan (Rio Mixcoac, Rio Churubusco), ma le barche sono state sostituite da milioni di veicoli che percorrono la citta’ senza posa. Coyoacan, nell’epoca prehispánica, era una citta’ autonoma “En el año 1410, Tezozómoc, señor de Azcapotzalco, otorga rango de señorío a Coyohuacan instalando a su hijo, el príncipe Maxtla o Maxtlaton como su señor”. I 20 chilometri che la separano dal centro della capitale delimitavano due regni e due poteri distinti, il confronto tra due popoli differenti, fino al trionfo finale dei mexicas. Adesso Coyoacan e’ un bel quartiere coloniale che sorge intorno a una splendida piazza piena di alberi, dominata su un lato dalla mole barocca della cattedrale, ricca di fregi dorati, Cristo benedicenti, santi sofferenti e fedeli che si assiepano sotto le navate. All’interno della piazza, un ampio spazio pieno di vegetazione, panchine, fontane e un chiosco che pare disegnato da un artista bambino, poco piu’ in la’ case basse dai colori squillanti (porpora, blu, giallo) che sembrano cingere la piazza come un elemento delicatamente decorativo. Tanti esercizi commerciali, bancherelle di artigianato che vendono maschere di legno, orecchini, monili, incensi profumati, vestiti tipici, cappelli, libri vecchi, riproduzioni di quadri, piatti smaltati, strumenti musicali, tamburi, aquiloni, girandole, zucchero filato, dolciumi. Una folla multicolore come gli edifici del quartiere che si muove senza fretta, osservando, contrattando, ridendo forte, sciamando a gruppi, entrando nei ristoranti, nei bar, mangiando tacos nei “puestos” mobili, dove artisti della ristorazione tagliano pezzi di carne da una grande massa che cuoce al fuoco e li fanno rimbalzare direttamente tra tortillas fragranti e calde.
Appena ho messo piede a Coyoacan mi sono sentito tornato a casa, in quella casa immaginaria, ma viva e vitale che anima i miei ritorni in México. Ho dato un’occhiata al caffe’ librería dove, venticinque anni fa, ordinavo un cappuccino dopo aver comprato libri di Paz, Rulfo o Fuentes; mi sono infilato in un ristorante tipico (“Los danzantes”) dove ti propongono piatti della nouvelle cuisine Mexicana (fondue di huitlacoche – un fungo dal sapore aspro e forte sconosciuto in Europa-, bistecche di gamberi, carpaccio di pesce spada decorato con riccioli di salmone e fette d’arancia) e, mentre sorseggiavo un margarita, ho sentito la stessa sensazione selvaggia che animava alcune mattinate terse di tanto tempo fa. La percezione di essere vicino al flusso delle emozioni, dei desideri che scorrono insieme al ritmo del respiro. Domani parto per la costa, cari amici: il viaggio e’ appena iniziato.
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CLAUDIO MARTINI
"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
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LA RECENSIONE
DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO
Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.
E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.
Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.
Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.
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