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Nella città bianca

Post n°178 pubblicato il 13 Settembre 2007 da falco58dgl
 

Nel mio recente viaggio in Puglia, sono tornato a Ostuni, un luogo di particolare suggestione. Alcune impressioni sulla "città bianca".

Le nuvole. Basse, di forma cangiante, esposte al gioco della luce che le illumina di bianco candido o le rende simili a batuffoli di ovatta grigia. Sospese sul mare blu intenso, un semicerchio nitido delimitato dall’azzurro sbiadito del cielo e dal verde antico degli oliveti.

Dove termina il verde sorge su un rilievo la città bianca, un fitto intrico di palazzi quattrocenteschi imbiancati a calce,  edifici signorili di origine aragonese, ricchi di stemmi, balaustre ornate da angeli, colonne e anfore di pietra. Strade a gomitolo  che si trasformano in scalinate ripide, scale che diventano vicoli,  discese che s’allargano all’improvviso in minuscole piazze, in belvedere affacciati sulla campagna, sugli olivi,  le nuvole, il mare.

Città bianca, tempo sospeso. Le ore passano con lentezza, segnate dall’innalzarsi e dal digradare della luce. In cima al colle, i dieci chilometri di campagna e l’Adriatico appaiono come una cartina geografica in rilievo, quasi didascalici nella loro ampiezza e nella definizione dei colori.

La cattedrale gotico-romanica  con il grande rosone centrale a raggiera che domina la facciata come un occhio alieno di civiltà scomparse modifica la monocromia del centro storico. Entro in chiesa, mi soffermo a guardare le cappelle laterali, il Cristo di legno.  Sono colpito da un quadro che raffigura un santo con le braccia allargate, un’espressione enfatica sul volto, sullo sfondo di una città astratta e indefinita, ai suoi piedi un osceno manichino smembrato, il corpo separato dagli arti e dalla testa, forse un’allegoria delle false fedi. Volgo il capo verso l’alto e vedo dipinti enormi che coprono la superficie del soffitto. Esco e inizio a camminare a caso seguendo una strada risplendente come neve,  scorgo la cinta muraria candida come la città, bianco su bianco, uniformità interrotta solo da finestre dipinte di  verde e blu che fanno da contrappunto agli alberi e al mare.

Spira a tratti un vento teso e fresco che fa presagire l’autunno,  mi dirigo verso la casa che mi ospita.

 Il giovane che mi affitta la stanza sembra quasi scusarsi con me, come se l’abbassamento della temperatura fosse il prodotto di un suo errore personale. Lo rassicuro. Non ho desiderio di caldo, di giornate bollenti e immobili, passate ad aspettare la frescura illusoria della notte, voglio coprirmi con giacche leggere, dormire con una coperta, dimenticare quest’estate che volge al termine, trascorsa tra una Torino afosa e l’altopiano umido dove sorgeva Tenochtitlán.

 Do un’occhiata all’ambiente spazioso, un locale con un tavolo, un letto, un comodino, una cassettiera, la televisione, la finestra che da' sul vicolo e la scalinata. Mi affaccio verso la luce che  si accende di riverberi giallo e rosa.

Tiro su la cerniera del mio ki way   e mi tuffo di nuovo nel gomitolo di strade della città bianca.

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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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