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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Dedicato a...

Post n°214 pubblicato il 09 Dicembre 2007 da falco58dgl
 

Tutti i lettori di questo blog che ringrazio di cuore e, in particolare, a Onice , Gioiasole, Alina3, Sogni sulla luna, Milena.

                                ( Chagall, "Sopra la città")

Una ragazza prende un pezzo di legno e lo butta in acqua, guarda la debole corrente del fiume che lo trascina via  pian piano, e si mette a pensare.
Passa un uomo vestito di scuro. Guarda la ragazza e il pezzo di legno, s’incuriosisce, s’avvicina, dice alla ragazza:
-         Come ti chiami?
 La ragazza si volta e risponde tranquilla:

 -     Dolores. E tu?
-    Giovanni, Giovanni Ant…  Giovanni e basta.

-         Giovanni e basta? E’ un bel nome.
-         Tu dici? Ho sempre odiato il mio nome.
-         No, a me piace. Vedi laggiù?
-         Cosa?
-         Quel pezzo di legno  che s’allontana.
-         Si, lo vedo.

-         Quel pezzo di legno ha una storia.
-         Quale storia?
-         Se vuoi, te la racconto.

 ***

Sono nata in un paese lontano, ma così lontano che mia nonna diceva che occorreva bucare il mondo da parte a parte per trovarlo.
Ho vissuto la mia infanzia in un luogo meraviglioso che si chiamava  El Zapote.
C’era tanta acqua che scorreva ovunque, e un vulcano alto, ma così alto che non riuscivamo a vederne la cima. Le nubi  coprivano la punta e formavano una specie di buffo cappello. Quel vulcano ha un nome difficile da pronunciare, Xicotencatl. Nel villaggio ero contenta. Correvo davanti a casa  con gli altri bambini miei vicini e ci andavamo a nascondere nelle stalle o dietro gli alberi di mango.
Il mio posto preferito era una fonte, una polla d’acqua non distante dal paese, dove andavo a fare il bagno. C’era un ruscello che alimentava lo specchio d’acqua e che d’estate diventava un fiume. Era tutto così  pulito e verde da sembrare un ricordo. M’immergevo nell’acqua con calma e nuotavo, nuotavo sott’acqua con agilità e poi riemergevo poco più in là, quasi danzando. Ci andavo da sola o insieme ad altri amici e, quando eravamo in compagnia, sollevavamo schizzi d’acqua rumorosi e giocavamo fino a rimanere sfiniti.

Stavo bene, proprio bene. Fino a quando giunsero i soldati. Li vidi arrivare su veicoli sconosciuti, alti e dalle ruote grandi. Anche loro erano alti e grandi. E correvano urlando  a gruppi, entravano nelle case. Sentivo rumori come di cose che si rompono, rumori metallici, grida.

Non so perché, ma scappai, andai alla fonte. Sentivo colpi strani, forti, tanti colpi, che facevano sdeng o zin, qualcosa di simile. Avevo paura, non sapevo di cosa, ma avevo paura. M’immersi per un po’, ma quei colpi non cessavano, e allora decisi di arrampicarmi su un albero alto per vedere cosa stesse succedendo. Sono brava ad arrampicarmi, molto brava. Ma non ero mai salita su quella jacaranda così alta. Mi dovetti fermare più di una volta ed ero proprio stanca, ma riuscii a salire fino in cima, dove il tronco si apre in una cupola di fiori azzurri.

Non vedevo bene, avevo altri alberi davanti a me, tanta vegetazione, ma il fumo che veniva su l’ho notato. Prima una colonna sottile, poi più spessa e densa, infine vidi alcune fiamme come lingue protese verso il cielo. Rimasi sull’albero a lungo e stavo per scendere quando sentii rumori di voci e di passi pesanti che s’avvicinavano. Mi nascosi  su  tra i rami e le foglie, in alto, ma così in alto che mi sembrava di essere in cima al vulcano, protetta dalle nuvole, invisibile.

*** 

Ecco, arrivano i soldati. Sospingono alcune persone davanti a loro, le colpiscono con  armi che non ho mai visto prima, lunghe e scure. Ci sono almeno una decina di persone, quasi tutti uomini. C’è anche mio zio e diverse persone “maggiori”. Non capisco quasi nulla di quello che dicono, uno dei soldati parla in fretta, gridando domande ripetute. Davanti qualcuno prova a rispondere, ma viene preso a botte. Forse i soldati non vogliono risposte, vogliono parlare, tenere un discorso. Ho paura. E se mi scoprono e pensano che mi sono nascosta per fargli un dispetto? No, qui non mi trovano, sono in cima al vulcano, nessuno mi potrà scoprire.

I soldati sembrano proprio arrabbiati, urlano sempre di più. Mettono gli uomini in ginocchio con le mani appoggiate dietro la testa e s’avvicinano con le armi puntate.
Cosa vorranno fare? Gli vorranno fare paura? E perché, cosa gli hanno fatto gli uomini del villaggio?    
 I colpi, all’improvviso. Tanti. Le persone che cadono di fianco, davanti, dietro e sembra che giochino a cadere, cadono in modo buffo , strano. Ma ho paura che non sia un gioco. Giù è pieno di sangue e non si risollevano.

Adesso i soldati stanno zitti e cercano qualcosa nelle tasche di mio zio e degli altri.
Poi se ne vanno, in colonna e in silenzio.

 ***  

Sono scesa. Ho provato a scuotere mio zio e qualcun altro, ma non si muovevano. Sono rimasta vicino a loro per vedere se  qualcuno s’alzava, poi, piano piano, ho preso la stada del villaggio. Non sentivo più niente, nessun rumore e il silenzio mi faceva più paura dei colpi di prima.
Il villaggio bruciava. La scuola, tante case, l’ufficio dell’alcalde.
Sono corsa verso casa mia, ma  non sono riuscita ad entrare. C’era tanto fumo che usciva dalla porta e i muri in fiamme. Mi sono messa a piangere, e in quel momento ho scoperto di aver in mano, chissà da quanto tempo, un pezzo di legno, un rametto della jacaranda.

    *** 

 -         Dolores, mi dispiace. Davvero.
-         Anch’io ero molto dispiaciuta. Ma adesso non più.
-         Non più?
-         Sì, avevo giurato di  conservare il ramo fino a che il mio dolore non fosse scomparso.
-         E adesso è scomparso?
-         Sì, sei arrivato tu.
-         Ma  tu hai buttato il pezzo di legno prima di vedermi.
-         Che ne sai? Non c’è mica una risposta a tutto. Sapevo che saresti venuto.
-         E perché proprio io?
-         Perché tu sei un ascoltatore infaticabile. Mi hai seguito fin qui con pazienza, con partecipazione, con simpatia.  Hai ascoltato tutte le mie vicende, anche quelle meno verosimili. Perché non avrei dovuto dedicarti il mio racconto?
-          Tu mi hai dedicato il tuo racconto?
-         Certo, a te  e a tutti gli altri.
-         Ma allora la storia che mi hai raccontato non era vera?
-     L’importante è che sembri vera, che crei emozioni. Non so se ci sono riuscita, Giovanni.

 

Writer

 
Rispondi al commento:
falco58dgl
falco58dgl il 11/12/07 alle 23:29 via WEB
Non sono restio a commentare, Brubus. il problema è il tempo, Cerco di dedicare ai blog amici un rapidissimo passaggio tutti i giorni, ma siete quasi 200... in ogni caso sono lieto che tu ti sia sentito coinvolto nella narrazione. Un abbraccio a te. W.
 
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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