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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Parole smarrite (seconda e ultima parte)

Post n°118 pubblicato il 27 Marzo 2007 da falco58dgl
 

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                                       (Sergio Curtacci, "Solitudine")

Igor vuole licenziarsi e partire per l'Australia con Giovanna.

Giovanna si oppone, dice che è infantile.

Giovanna s'arrabbia, non comprende.

Igor insiste, parte da solo.

***

Igor parte da solo. Chiede e ottiene tre mesi di aspettativa. Giovanna resta, con un fastidio crescente che si sforza di non trasformare in rancore. Igor trova un po' di pace nel nordest dell'Australia, davanti alla grande barriera corallina. Sente un larvato dispiacere che si mescola con la maestà del paesaggio. Rimane per ore a fissare il mare, la spiaggia bianca, le concrezioni rocciose. Trova negli spazi ampi conforto alla sua incertezza. Vorrebbe abolire i pensieri. Diventare un paio di occhi che scrutano, registrano, esaminano, si meravigliano, si chiudono. Potrebbe, per la prima volta da dieci anni, concedersi un'avventura con un'altra donna , ma è così goffo e impacciato da perdere l'occasione. Così ha già due ragioni per il suo rammarico. Pensa che è giusto così, che il piacere degli occhi va pagato con il disordine del cuore. Decide di cambiare scena.
Giovanna lavora con raddoppiata intensità, si sente abbandonata, si sente rabbiosa, sfoga la sua rabbia lavorando e il ciclo si compie. Desidera innamorarsi di qualcuno, ma non trova oggetti che si prestino al suo impulso. Parla al telefono con Igor, simulando interesse per quello che le dice. In realtà è lontana, più lontana dell'Australia. Si sente chiusa e abbottonata come un vecchio cappotto, almeno con Igor. Gira come una trottola, pulisce l'appartamento, cura le piante, poi ogni tanto si ferma. E pensa.

 ***

"Non sei cambiato tanto, in fondo. Vent'anni fa correvi come un disperato lungo percorsi che ti riportavano al punto di partenza. Eri quasi patetico e sgraziato nella tua goffaggine, ma mi sei piaciuto, con le mani affondate nelle tasche del giaccone, il lungo ciuffo che ti cadeva di sbieco sugli occhiali, i jeans stinti e sformati che portavi e la tua voglia di fare a pezzi il mondo. Non sei cambiato poi tanto. Ancora adesso insegui le tue idee, te ne freghi della realtà, del suo nucleo roccioso e immobile, e corri dietro alle tue fantasie. Mi vengono in mente i mulini a vento, ma no, non è così. Tu non cerchi i mulini, sei tu stesso un mulino a vento, che gira veloce intorno a un perno invisibile. Sei sempre fragile, anche in questo sei cambiato poco. Non sei mai riuscito a lottare per qualcosa di concreto. Quando c'era da soffrire, da impegnarsi con cocciutaggine, ti tiravi indietro, pensavi di rinunciare, trovavi un via di fuga. Solo con me sei riuscito a durare, ma con fatica crescente, facendomi pagare prezzi sempre più alti. Mi sento tradita, e non certo perché tu te ne sei andato lontano. Sono stata sbattuta fuori dai tuoi pensieri, dalle tue parole. Le mie parole non t'arrivano, non le senti, opponi un filtro di indifferenza. Mi sento abbandonata, Igor".

 ***

Un taxi e arrivo. Torno a casa. Dove sei? Non rispondi al telefono. In Australia ho vissuto le ultime due settimane con una tensione crescente che non sapevo spiegarmi. Girovagavo per le strade di Alice Springs con fastidio. Mi sembrava di trovarmi su un grande set cinematografico. Tutto ordinato, pulito, tutto irrimediabilmente falso. Un esercito di comparse che interpretavano se stessi. Ho anticipato la data del ritorno e sono partito da Sydney dieci giorni prima del previsto. Ho in testa sensazioni, flash che rimbalzano come biglie. Il volto di Jennifer, il suo sorriso luminoso, lo sguardo di Giovanna, la mia speranza delusa, questa solitudine lacerata e divisa. Non so che pensare, ho una grande confusione in testa, una stanchezza che esaurisce le mie parole. Voglio rivederti, Giovanna. Vorrei recuperare con te la nostra leggerezza, l'allegria. Ma è difficile, non siamo più ragazzi, ai miracoli non ho mai creduto. Il tempo è una macina che tritura e demolisce, se potessi arrestarne il corso, tornare indietro, riuscirei a ritrovare l'energia, la voglia di giocare, di parlare insieme. Ma forse è meglio così. Ripercorrere il passato mi terrorizza, andare avanti m'impaurisce, meglio restare in questo precario presente, negli istanti incerti che precedono il nostro incontro. Sto per arrivare, amore mio, e non so cosa dirti.

***

Igor apre la porta che sembra opporre resistenza. La casa è deserta, ordinata, ma già un sottile strato di polvere riveste i mobili, la libreria, i tavolini e la cassettiera della stanza da letto. Una patina quasi invisibile, che diventa più nitida passandoci un dito sopra. In tinello, il tavolo. Sul tavolo, un biglietto. Poche parole, che lui non ha neanche bisogno di leggere. Le parole sono pesanti, nette, definitive. "Vado via, Igor, non cercarmi".

Solo la firma, uno svolazzo tondo e tenero, appare graziosa e lieve.

 (fine)

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Rispondi al commento:
falco58dgl
falco58dgl il 01/04/07 alle 12:46 via WEB
Sì, una donnaperamica. Non si può accettare qualunque compromesso solo per evitare la solitufine. Meglio intraprendere una via difficile, ma non fare scelte basate sull'abitudine e la rinuncia. Un abbraccio. Writer.
 
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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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