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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Al di là

Post n°135 pubblicato il 07 Maggio 2007 da falco58dgl
 

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Due giorni fa mi sono ammazzato. Faccio fatica a raccontare quello che
è  successo, anche se mantengo un ricordo preciso di ciò che è
accaduto.  Un  sentimento simile al pudore  frena il mio impulso.

Ero così incapace di vivere che la scelta del suicidio mi parve una via
d'uscita agevole e rassicurante. Non era avvenuto nulla di speciale,
nulla di traumatico, come direbbero gli specialisti dell'anima. Solo un
insieme di situazioni mortificanti,  piccoli delusioni,  rancori
irrisolti,  energie usate contro se stessi.

Non voglio annoiarvi con la descrizione della mia vita, so benissimo
che  non vi interessa affatto, anche se m'immagino di  vedervi mentre
scuotete la testa e fate cenni  diniego troppo ampi per essere
plausibili. Perché dovrebbe interessarvi la mia vita se io, che la
possedevo, l'ho abbandonata come si lascia un vecchio cappotto o una
giacca troppo logora?

Dirò solo questo: ci sono a volte momenti in cui una mortale stanchezza
prende il sopravvento e non hai nemmeno voglia di dormire, desideri
unicamente  non essere,  sparire per sempre dalla scena.  Suicidarsi,
tuttavia,  richiede una forte determinazione, un'intenzione tenace che
contrasta con la voglia di rinuncia che sentivo crescere e imporsi
dentro di me.

Ho scelto, per questa ragione, un modo dolce e poco faticoso di morire.
Ho scartato i suicidi spettacolari - tagliarsi le vene e morire
dissanguato nella vasca da bagno, buttarsi dal nono piano, impiccarsi a
una trave del soffitto -. Non avevo energie sufficienti e poi, a dirla
tutta, mi sembrano azioni poco responsabili. Non volevo consegnare ai
miei tardivi soccorritori un corpo schiacciato o reso irriconoscibile
dall'asfissia o obbligarli a drenare litri di acqua rossa simile a un
fiume inquinato da residui industriali.

Ho inghiottito una manciata di pastiglie. Prima gli ansiolitici, per
stare calmo e non agitarmi troppo, poi una buona quantità di ipnotici e
infine alcune sostanze che inibiscono l'attività del sistema nervoso
centrale e l'attività respiratoria.

Non è stato facile morire. Ma non dovete pensare a spasmi atroci, crisi
di vomito o ad estremi ripensamenti.

Mi è parso di attraversare tutta una serie di passaggi, di effettuare un
insieme complesso di transizioni che stento a descrivere. Era come
aprire cancelli che t'introducono in territori amorfi e occorreva
percorrere la distanza che conduce ad altre  porte, ad altri territori,
a nuove zone neutre prive di contorni riconoscibili. Mi sembrava di
perdere corporeità in ognuna di queste fasi, era come entrare in un sogno
capace di sognare solo se stesso eppure così concreto, così reale. Non
sentivo neanche una percepibile angoscia, solo il desiderio (ma si può
parlare di desiderio quando sei sul punto di morire?) di annullarmi in
quella sensazione indistinta.

Dopo aver varcato tante porte ed essere passato attraverso infinite
ripetizioni, riconoscibili solo per le loro impercettibili differenze,
mi sono finalmente acquietato. Non sapevo cosa pensare. Temevo mi
avessero salvato in extremis e trascinato in un'unità di rianimazione.

Poi ho finalmente capito. Ero riuscito nel mio intento. Ero morto.

Me ne sono reso conto quando ho avvertito una sensazione di distacco
assoluto. Tutti gli eventi, le piccole miserie, le meschinità che mi
avevano indotto a farla finita erano ben presenti e nitidi. Ma avevano
perso ogni spessore, fluttuavano sopra la mia testa come  uccelli in
volo.

Mi sentivo così in pace che provai l'ombra di un rimpianto. Avrei dovuto
suicidarmi prima, ma distolsi quel pensiero fugace, ricordo della vita
ormai terminata.

Cercavo di guardarmi intorno, ma non scorgevo nulla di riconoscibile.
Provavo una sensazione analoga a quella di chi sta sdraiato su un letto
ad occhi chiusi e "sa" che ci sono oggetti intorno a lui, anche se non
li vede.

Ho cercato di aprire gli occhi, ma non vi erano più occhi da aprire. Era
tutto vuoto, rimaneva solo quella strana calma, simile ad un rio che
scorre tranquillo.

Non ho neanche provato a parlare, sapevo che non avrei potuto. Potevo
solo pensare, dare forma alle parole e comunicarle mediante un canale
misterioso, un codice segreto di cui mi sfugge l'origine e la natura.

Perché morire è proprio questo. Trattenere pensieri e parole dentro di
te che nessuno potrà udire, che nessuno potrà ricevere, se non
attraverso vie oblique e segni allusivi, che fanno dubitare e inquietano.

La morte non è la fine di tutto. E' solo un passaggio verso una deriva
infinitamente lunga, così lunga che la vita ne costituisce   una
porzione insignificante.

Tutto ciò l'ho capito oggi. Sono sollevato, quasi felice. Penso "sono
felice", ma in realtà sento solo scorrere dentro di me  rapide correnti
di pace.

Oggi la morte mi ha sorriso.

Writer

 
Rispondi al commento:
nenicchia
nenicchia il 07/05/07 alle 18:17 via WEB
"Mamma, ma quando si festeggia il compleanno in cielo?" Ora puoi non credermi, ma mentre ti commentavo mio figlio (che non sa leggere e scrivere) mi ha detto così! Non so se per materialismo, per paura di ciò che non si conosce o semplicemente perchè non riesco a "trattenere pensieri e parole" dentro di me, ma non è ancora venuto il momento di ricevere quel sorriso. Resta la delicatezza disarmante con cui hai saputo narrare di una lacrima che regala un sorriso. Grazie, Serena.
 
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(in seguito a uno spiacevole episodio
avvenuto su un blog della community)

 

LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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