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Post n°4352 pubblicato il 30 Novembre 2018 da ninograg1
Fonte: La voce.info Marzio Galeotti e Alessandro Lanza L’Organizzazione meteorologica mondiale ha annunciato un nuovo record per la concentrazione di CO2 in atmosfera. L’annuncio arriva alla vigilia della Cop 24 di Katowice, dove saranno in discussione importanti temi legati all’accordo di Parigi.
Da lunedì 3 dicembre a Katowice (Polonia) va in scena la Conferenza Onu sul clima (Cop 24). L’obiettivo principale di questa Cop, che è la conferenza annuale dei paesi firmatari della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici, è un accordo sulle regole per attuare l’Accordo di Parigi del 2015. Nonostante l’importanza delle questioni da discutere e soprattutto della posta in gioco, gli osservatori non nutrono grandi aspettative circa l’esito di questo ennesimo incontro. Che si apre con tre premesse non incoraggianti in una “location” non propizia da un punto di vista simbolico. Tre rapporti allarmanti Il 20 novembre l’organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha annunciato che per la prima volta da migliaia di anni la concentrazione annua media globale di CO2 nell’atmosfera ha raggiunto nel 2015 il traguardo insieme simbolico e significativo di 400,3 ppm (parti per milione). Il valore era già stato raggiunto per alcuni mesi in alcune località negli anni passati, ma mai prima su base globale per l’intero anno. I dati degli anni seguenti sono ancora più preoccupanti: 403,3ppm nel 2016 e 405,5 nel 2017 (previsione). Il picco di crescita della concentrazione è stato alimentato dall’evento climatico conosciuto come El Niño, iniziato nel 2015 e conclusosi nel 2016. Il fenomeno, ben noto nella letteratura scientifica, ha provocato siccità nelle regioni tropicali e ridotto la capacità di assorbimento di foreste e oceani. Questi “pozzi” – che raccolgono circa la metà delle emissioni di CO2 – sono a rischio di saturazione, il che aumenterebbe la frazione di anidride carbonica emessa che rimane nell’atmosfera. La notizia sulla concentrazione di CO2 nell’atmosfera segue la pubblicazione all’inizio di ottobre del rapporto Ipcc sugli impatti del riscaldamento globale di 1,5 gradi. Redatto da un qualificato gruppo di scienziati che nelle diverse discipline si occupano di cambiamenti climatici in tutti i loro aspetti (mitigazione, adattamento, politiche economiche e sociali), il rapporto sintetizza la recente letteratura scientifica a beneficio dei decisori politici, economici e sociali. Vi compare un’informazione particolarmente interessante: se come limite all’incremento della temperatura dovesse essere assunto +1,5°C, c’è il rischio concreto che nel momento della pubblicazione dell’atteso e tradizionale rapporto Ipcc, probabilmente nel 2023, il “carbon budget” necessario per mantenere l’incremento delle temperature medie globali al di sotto dell’intervallo possa già essere stato esaurito. Ma un altro rapporto scientifico, altrettanto significativo seppure per ragioni differenti, è stato pubblicato da 13 agenzie federali Usa il 23 novembre, delegato dal Congresso e reso pubblico dalla Casa Bianca. Il messaggio centrale è che i cambiamenti climatici potrebbero ridurre di un decimo il Pil statunitense entro il 2100, più del doppio delle perdite della grande recessione di un decennio fa. Due le aree di maggior impatto: commercio estero e agricoltura, con la farm belt tra le regioni più colpite. Il rapporto contiene conclusioni che sono direttamente in contrasto con le politiche e le convinzioni di Donald Trump, anche se gli scienziati che vi hanno lavorato annotano che i funzionari dell’amministrazione non sembrano aver cercato di alterarne le risultanze. Difficile tuttavia evitare il sospetto che la diffusione del rapporto – alle 14 del giorno dopo il Ringraziamento – sia stata progettata per minimizzarne l’impatto pubblico. Verso Katowice Resta il fatto che il rapporto potrebbe diventare un potente strumento legale per chi si oppone agli sforzi di Trump di smantellare la politica sui cambiamenti climatici, anche in vista della Conferenza Onu sul clima (Cop 24) che si apre fra 3 giorni a Katowice in Polonia. Per pura ironia della sorte, si tratta di un luogo che si trova a 150 chilometri dalla più grande centrale elettrica a carbone d’Europa, che nell’aprile 2014 era stata indicata dalla Commissione europea come “la centrale elettrica più dannosa per il clima nell’Unione europea”. In linea di principio, la riunione ha diversi elementi di interesse. Il lavoro più importante e urgente riguarda il completamento del cosiddetto “Paris Agreement Work Programme” (Pawp) ovvero il “Programma di lavoro per gli accordi di Parigi” che serve per rendere operativo l’accordo: modalità, procedure, linee guida, quello che cioè è stato definito il “rulebook” dell’accordo. Il Pawp include molte questioni relative alla mitigazione, all’adattamento e al sostegno ai paesi in via di sviluppo. Così come era avvenuto con il protocollo di Kyoto, l’accordo di Parigi, siglato nel 2015, ha richiesto e probabilmente richiederà altri incontri con l’obiettivo di puntualizzare meglio diverse questioni aperte. La nuova posizione dell’amministrazione americana non aiuta il processo e anche fra le nostre mura il dibattito sull’accordo sembra essere sparito dal radar. D’altra parte, la parola clima non è mai citata nel contratto giallo-verde “per il governo del cambiamento”, anche se si ritrova il termine “cambiamento climatico” nella sezione intitolata “Ambiente, green economy e rifiuti zero”. Per il contrasto al cambiamento climatico ci si limita a dire che “sono necessari interventi per accelerare la transizione alla produzione energetica rinnovabile e spingere sul risparmio e l’efficienza energetica in tutti i settori”, una frase così generica da essere perfetta forse per un programma elettorale, ma non di certo per un programma di governo.
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Post n°4351 pubblicato il 29 Novembre 2018 da ninograg1
Fonte: W.S.I. 29 novembre 2018, di Alberto Battaglia
Il presidente ucraino Petro Poroshenko ha invocato apertamente il sostegno militare della Nato per contenere la minaccia proveniente dalla Russia. In un’intervista rilasciata alla rivista tedesca Bild, il presidente del Paese ha dichiarato che “la Germania è una dei più vicini alleati” dell’Ucraina e che spera che “gli stati della Nato siano pronti a ricollocare le navi verso il Mar d’Azov allo scopo di assistere l’Ucraina e fornire sicurezza”. Oggi il primo ministro ucraino, Volodymyr Groysman è in visita nella capitale tedesca.
Poroshenko però si è detto fiducioso nei confronti della cancelliera tedesca Angela Merkel, definita come una “grande amica” dell’Ucraina: “Nel 2015, ha già salvato il nostro Paese grazie alle sue trattative a Minsk, e speriamo che ci sosterrà ancora una volta con altrettanta forza, insieme ai nostri altri alleati”.
Il presidente aveva già fatto sapere che il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, aveva assicurato in una conversazione telefonica, “pieno sostegno, piena assistenza, compresa l’assistenza militare, pieno coordinamento, per proteggere la sovranità ucraina e la sua integrità territoriale”.
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Post n°4350 pubblicato il 28 Novembre 2018 da ninograg1
Fonte: Il Fatto Quotidiano Media & Regime | 26 novembre 2018 Angelo Cannatà
È una tecnica antica: se sei in difficoltà attacca, creati un comodo bersaglio per colpire meglio. È quanto ha fatto la Repubblica, domenica 25 novembre al teatro Brancaccio, presentando la stampa italiana come assediata dal potere. Non è così, naturalmente. La politica discute di editori impuri che utilizzano i giornali per coprire certi scandali (caso Consip) e ampliarne altri (caso Raggi), eccetera. È un fatto. Ma di questo al Brancaccio non s’è detto nulla perché, secondo una tesi ben sintetizzata da Umberto Eco, “non sono le notizie che fanno il giornale, ma il giornale che fa le notizie”, e la Repubblica i fatti, nel teatro romano, li ha cucinati a modo suo. Meglio far parlare la giornalista filippina, Maria Ressa, minacciata per le critiche a Rodrigo Duterte. L’Italia come le Filippine, come il Brasile, come la Turchia: questa è la costante degli interventi, il filo rosso che li lega. Intendiamoci, sono state dette cose vere sulla situazione del giornalismo nel mondo, ma non c’entrano nulla – è questo il punto – con l’Italia. E tuttavia, costruita la tesi, bisognava supportarla: ed ecco Ezio Mauro affermare che le aggressioni alla stampa sono il segno dell’attacco alla liberaldemocrazia in tutto l’Occidente. Ecco Sebastiano Messina esplicare, senza veli, il senso della giornata: “a differenza di Erdogan, i 5stelle non vogliono addomesticare i giornali, vogliono chiuderli definitivamente”. Poche parole di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista – sbagliate, certo – hanno trasformato l’Italia in luogo di negazione della libertà di stampa. Un’esagerazione. È evidente la volontà – anche attraverso la manifestazione al Brancaccio – di passare per vittime di un potere ostile, che in verità vuol mettere regole in conflitti d’interesse noti a tutti, meno che a largo Fochetti. E infatti, zero interventi sugli editori impuri e spazio a Donald Trump (Zucconi) e alla negazione della libertà di stampa in Turchia (Baydar), con l’idea fissa che anche in Italia sia così. Responsabili i grillini, naturalmente, come hanno detto Messina e Bottura mostrando (si fa per dire) “la strategia di delegittimazione della stampa del M5s”. È davvero troppo. Mario Calabresi indica “le truffe” del governo sull’informazione. Credo che la grande truffa, in verità, sia fingere di non vedere il conflitto d’interesse di editori come Carlo De Benedetti (tema ignorato con scientifica meticolosità). Ragionare di diritti che nessuno nega – come al Brancaccio – è un inganno: è parlar d’altro spacciando il nostro per un Paese sudamericano. Tiziano Terzani dice: “Il mio istinto è sempre stato di stare lontano dal potere. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo domande. Questo è il giornalismo”. Ecco, è quello che la Repubblica non ha fatto col potere quando governavano Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. Adesso scopre che in Italia c’è un clima sudamericano (perché la politica tocca gli interessi del suo editore). Suvvia, questa se la bevono solo i lettori di Marziani. Si nasconde il tema dell’editore impuro – questo è il punto – perché l’espressione “conflitto d’interesse” deve essere accostata solo a Berlusconi. Non va bene. È un gioco che non regge più. Post scriptum. Primo: “I nazisti facevano sempre riferimento al popolo – ha detto Damilano – anche oggi si fa continuamente riferimento al popolo.” Damilano cita Bobbio e l’Elogio della mitezza e della misura. Peccato sia andato oltre misura accostando i 5Stelle ai nazisti. Secondo: “Si può prendere alla lettera un intervento comico di Grillo – contro L’Unità, Repubblica, Corriere – e presentarlo come un programma politico? Ecco: sono queste esagerazioni che, secondo i 5stelle, fanno di Repubblica un giornale fazioso. Non hanno tutti i torti.
Media & Regime | 26 novembre 2018
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Post n°4349 pubblicato il 27 Novembre 2018 da ninograg1
Fonte: W.S.I. 27 novembre 2018, di Daniele Chicca
La frenata delle attività commerciali globali subirà una nuova accelerazione a fine anno, compromettendo la crescita economica mondiale. Lo dice uno degli indici chiave tra quelli preparati dalla principale organizzazione di libero scambio, la World Trade Organization con sede a Ginevra (WTO). D’altronde, intervenuto a Rio de Janeiro (Brasile) durante un evento il mese scorso, il direttore generale del gruppo Roberto Azevêdo aveva lanciato un monito in merito: anche se le ultime notizie ottimiste suggerivano che Cina e Stati Uniti avrebbero presto ripreso la strada del dialogo, Azevêdo aveva detto al pubblico presente in sala che la guerra commerciale tra le due prime potenze economiche al mondo era tutt’altro che conclusa.
E ora è l’indice sulle previsioni future del WTO a confermare che i sospetti e le paure di Azevêdo erano fondati. Secondo l’ultimo aggiornamento disponibile pubblicato di recente, le attività commerciali stanno subendo una nuova frenata nel quarto trimestre dell’anno. Si tratta del secondo deterioramento trimestrale consecutivo e non è un buon segno per l’andamento economia globale.
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Post n°4348 pubblicato il 26 Novembre 2018 da ninograg1
Tag: austerity, blog, default, deficit, economia, esteri, eurozona, finanza, inflazione, lavoro, Moneta Unica, PIL, politica, stagflazione, UE Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 26 novembre 2018 Economia e politica di Riccardo Realfonzo (è professore ordinario all’Università del Sannio, direttore di economiaepolitica.it e coordinatore della Consulta economica FIOM-CGIL)
Presento di seguito, con alcune note esplicative, le slides della mia conferenza tenuta al convegno dell’associazione Asimmetrie Euro, mercati, democrazia 2018, svoltosi a Montesilvano l’11 novembre 2018. 1. La crisi dell’eurozona L’Unione monetaria europea si presenta oggi come un’unione incompleta. Abbiamo una moneta unica, ma non una banca centrale che funzioni da prestatore di ultima istanza (garantendo sempre l’acquisto di titoli del debito pubblico e quindi assicurando l’impossibilità del default degli Stati dell’Unione). Inoltre, non abbiamo un bilancio significativo dell’Unione, né una politica fiscale unitaria e dotata di strumenti di debito dell’Unione (es: eurobond) e di meccanismi redistributivi che riparino i Paesi aderenti dagli shock che li colpiscono in modo asimmetrico. Si tratta di scelte politiche che hanno avuto come conseguenza la forte dinamica degli spread tra i rendimenti dei titoli del debito pubblico e che hanno accentuato i processi spontanei di divergenza che portano lo sviluppo a concentrarsi in alcune aree di Europa. Gli squilibri interni all’Eurozona risultano sempre più gravi, e la preoccupante previsione formulata dal “monito degli economisti” (pubblicato nel 2013 dal Financial Times e da economiaepolitica.it) risulta sempre più attuale. L’impetuosa dinamica dei processi di divergenza in Europa, che rende i Paesi sempre più diversi tra loro e conferma che l’Unione monetaria non costituisce un’area valutaria ottimale (nella quale i benefici dell’adesione alla moneta unica superano i costi), risultano confermati dall’osservazione della dinamica del coefficiente di variazione del tasso di crescita del Pil pro capite: i Paesi crescono a ritmi che divergono sempre più. 2. Gli effetti dell’austerità Dopo la crisi scoppiata tra le fine del 2007 e il 2008, i Paesi europei che al momento dell’unificazione avevano fondamentali di finanza pubblica più deboli e condizioni di ritardo competitivo sono stati costretti dai Trattati a praticare severe politiche di austerità, tagliando la spesa pubblica e aumentando la pressione fiscale (consolidamenti fiscali). Secondo la letteratura più liberista e la stessa Commissione europea, queste politiche di austerità potevano risultare espansive. Si riteneva, infatti, che gli aumenti della spesa pubblica sul Pil (il cosiddetto moltiplicatore della politica fiscale) fossero negativi (o comunque prossimi allo zero). Pertanto, i tagli della spesa avrebbero aumentato la crescita (o comunque non l’avrebbero frenata). Questa teoria dell’”austerità espansiva” è stata subito criticata dagli economisti keynesiani, anche in numerosi lavori pubblicati da economiaepolitica.it. Secondo gli economisti keynesiani il moltiplicatore è positivo e maggiore di uno. Pertanto, le politiche di austerità non possono che avere un impatto fortemente recessivo. Effettivamente, le politiche di austerità hanno determinato effetti recessivi intensi nei Paesi che le hanno praticate, come si osserva ponendo pari a 100 il valore del Pil di tutti i Paesi nel 2007. La divergenza esplode. L’Italia è ancora lontana dal recuperare il valore della ricchezza prodotta annualmente nel 2007, mentre di contro la Germania è cresciuta negli ultimi dieci anni di circa il 12%. Le politiche di austerità non sono nemmeno riuscite nell’intento principale che si erano poste: risanare le finanze pubbliche, come si osserva guardando al dato relativo ai Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna). La riduzione del Pil conseguente all’austerità, anche a causa della riduzione della raccolta fiscale, ha peggiorato ampiamente il rapporto debito/Pil. La dinamica dei processi di divergenza e le conseguenze delle politiche di austerità si possono apprezzare anche sul piano occupazionale. In Italia l’occupazione non è ancora tornata al livello del 2007 (nonostante il forte peggioramento della qualità dell’occupazione e la ben maggiore possibilità di ricorrere a contratti di lavoro a termine), mentre contemporaneamente in Germania il numero complessivo di occupati è cresciuto quasi del 10%. Continua su economiaepolitica.it
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