Abbandonare Tara
abbandonare le sicurezze, i luoghi comuni, alla scoperta di cosa c'è fuori di qui
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Ho fatto in tempo a conoscere il paese quando era ancora paese, quando i panni stesi ad asciugare, i giochi dei bambini sullo scampolo di prato interno alle vecchie mura, le botteghe povere, la polvere, la facevano da padroni.
Oggi quasi tutto questo è sparito, le vecchie mura fanno da quinta teatrale a ristoranti, enoteche, passeggio turistico di stranieri inconsapevoli, la cui colpa maggiore è quella di risvegliare appetiti economici.
Si veniva qua alla ricerca di un po' d'ombra, spesso seguendo il filo di una memoria scolastica.
Un lungo viale di cipressi, proprio quelli "alti e schietti" che "van da San Guido in duplice filar".
Una poesia che solo io, in famiglia, recito ancora, per il divertimento un po' maligno di far sbuffare le nuove generazioni.
Il viale, lungo diversi chilometri, in continua, lenta e poi più ripida salita, corre tra campi inaridi dall'impietoso sole maremmano, bruciati dal maestrale continuo, oasi di ombra creata dalla grande cortina bluastra dei cipressi.
All'improvviso ci si para davanti il paese, anzi, il "castello".
Un feudo di nobili fiorentini e pisani che per secoli hanno, tramite il latifondo, creato una barriera invalicabile alla speculazione edilizia, conservando intatti questi chilometri di terra, una volta malarica, oggi nutrice di splendidi (e costossissimi) vini.
Un feudo, però, gestito con patriarcale e paternalistica lungimiranza. Un paese di popolo, che chiamava per nome di battesimo anche il signore. Così che, unica tra mille,
la toponomastica ricorda solo questi nomi.
E fai fatica a riconoscere chi fossero queste persone: potentati nobiliari, personaggi di romanzi, fiabeschi personaggi della poesia di questo vate rustico e sanguigno che a Bolgheri visse un'infanzia importante.
Tra rimpianto e malinconia: "meglio era sposar te, bionda Maria"...
"alta, solenne, vestita di nero, parvemi riveder nonna Lucia"
Ci sono ancora i pochi vecchietti ricacciati ai margini della piazza, su panchine solitarie, a cantilenare in un dialetto più dolce del livornese.
Fiori che cadono a grappolo dalle mura.
Biancheria stesa fuori dal ristorante di richiamo.
Un olivo secolare.
Un antico cimitero sfuggito alla trasformazione in attrazione turistica.
Finché sopravvive questa Italia, in bilico tra passato e globalizzazione turistica, sono felice. Ho qualcosa da trasmettere ai miei figli.
la Maremma Toscana
Dolce paese, onde portai conforme
L'abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme,
Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.
Ben riconosco in te le usate forme
Con gli occhi incerti tra 'l sorriso e il pianto,
E in quelle seguo de' miei sogni l'orme
Erranti dietro il giovenile incanto.
Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano;
E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
E dimani cadrò. Ma di lontano
Pace dicono al cuor le tue colline
Con le nebbie sfumanti e il verde piano
Ridente ne le pioggie mattutine.
(Giosue Carducci)
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E allora ho deciso di aprire un FOTOLOG:
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