Abbandonare Tara
abbandonare le sicurezze, i luoghi comuni, alla scoperta di cosa c'è fuori di qui
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(MENU DE L’AMOUR di Jean Ernest Aubert)
Trattare con cura chi si ama dovrebbe essere un fatto spontaneo.
Ma più che ci penso e più che mi viene da aggiungere un "quasi", a smorzare quell'aggettivo, "spontaneo", che nella ingenuità del concetto che esprime, pare diventare tracotante, gonfiarsi di orgoglio, ingiustificato orgoglio.
La spontaneità d'amore è un fattore complesso, ahimè.
Non è istinto, non è carattere, non è dote e dono di natura.
Non è un qualcosa che ti ritrovi, nella complessa sequenza di intrecci del DNA, nel funzionamento di ricettori biochimici.
Non è, almeno non più, nel cuore e nell'anima - conquista romantica a fronte del dovere e del ruolo- imposizioni e sicurezze da ancien régime.
La spontaneità d'amore esiste, forse, al momento di grazia che gli antichi identificavano col vulnus di Eros, la ferita inflitta dal piccolo, bugiardo, bizzoso, seduttivo, maligno dio dell'amore.
Ma subito dopo amore diventa una conquista, un quotidiano misurarsi con pene, distrazioni, affanni, noia, impegni, vita.
Per sfortuna o per fortuna, amore diventa costruzione dell'amore.
Mi stancherei presto di una perfezione, sia pure perfetta, ma immota.
Ci stancheremmo tutti, anche se nei momenti faticosi, negli anni che sembrano succedersi gli uni agli altri, identici e pesanti, indistinti e noiosi, crediamo proprio l'opposto, crediamo che amore sia un'oasi verde, una serata accanto al camino, una passaeggiata mano nella mano, fare l'amore in un attico sui tetti di Parigi.
(ad ognuno la sua fantasia).
Solo che nel frattempo, mentre ci illudiamo, rimpiangiamo, recriminiamo, anche noi cambiamo, cresciamo, invecchiamo.
E non è solo un fatto di pelle, capelli, carne, postura. Il nostro essere è movimento e trasformazione. Chi si ferma è perduto. L'amore che si ferma muore.
La costruzione dell'amore, la cura di questa opera d'arte che è la felicità, è mettere in atto tanti piccoli stratagemmi continui, inventarsi la spontaneità, volerla e perseguirla finché non diventi un abito quotidiano, l'istintivo, consueto, rassicurante tono con cui mi rivolgo sempre all'uomo che amo.
Una ricetta non c'è. Gli ingredienti nemmeno. Forse solo quel misterioso e pregnante "Q.B." dei migliori libri di cucina: quanto basta.
Gli ingredienti, le componenti della misteriosa alchimia che funziona, si devono trovare di volta in volta nella mente e nelle mani, nella fantasia e nelle occasioni, nella fame e nel digiuno, nella ricchezza della mensa del ricco epulone e nella frugalità dei momenti di carestia.
Quanto basta anche di fortuna, l'ingrediente misterioso che nessun cuoco vorrà mai rivelare, ma che sta lì, in agguato, benigna o maligna, da esorcizzare o da blandire.
Quanto basta di "noi due": l'unico ingrediente certo, ma incerte le dosi, personali, occasionali, contingenti: e meno male che non c'è un Artusi della felicità.
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