Abbandonare Tara
abbandonare le sicurezze, i luoghi comuni, alla scoperta di cosa c'è fuori di qui
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Era un tempo così.
Un tempo sopito, tra un inverno che non si decideva a morire ed una lenta primavera che ancora non riusciva nemmeno a promettersi, ad annunciarsi.
Pioveva molto. A sprazzi, a scrosci, a rovesci.
Difficile immaginare anche quali fiori scegliere, che non fossero i costosissimi fiori di serra, per te che volevi solo cose molto semplici.
I fiori sembravano marcire, appena spuntati, nelle pozze da acquitrinio dei campi.
Abbiamo riso e ci siamo divertite, come bambine che giocavano a fare le signore, girando per negozi che mai avremmo potuto frequentare normalmente.
Ma era un'occasione.
Un risarcimento per un abito bianco che non volevi ("Mi sembra di vestirmi da carnevale con l'abito da sposa" - avevi sentenziato, dopo qualche riluttante prova, tanto per non scontentare troppo la mamma). E allora avevo proposto: che sia alta moda. Giravamo per le boutique, ma imparammo subito che dovevamo accreditarci, prima di poter entrare. Vestirci bene, appunto, giocare alle signore. E poi spiegare: "E' per un matrimonio". Altrimenti le sussiegose commesse non ci prestavano alcuna considerazione.
Era anche un risarcimento perché la mamma non c'era. Già stava male, impossibile per lei seguire le nostre maratone tra i negozi del centro.
Ma era una ben misera compensazione, in questo caso. Ci mancava: mancava l'amore, mancava la lunga costruzione del sogno, mancava l'avvenire insegnato, trasmesso, costruito lungo i giorni, lontanissimo e vago nell'infanzia, bruciante e pressante nella giovinezza. Mancava saggezza, mancava prudenza, mancava anche il freno del tempo a mitigare la nostra eccessiva leggerezza.
Poi è venuto anche il tempo in cui mi sono domandata se forse io e te fingessimo leggerezza. Io perché mi sentivo in dovere di offrirti appoggio; tu perché ti sentivi in dovere di essere tutto quello che letteratura e poesia e film e baciperugina richiedono ad una prossima sposa: felicità, felicità, felicità.
Pioveva anche quel giorno. Avevi voluto anche un anonimo giorno infrasettimanale. Un pomeriggio feriale, nemmeno un sabato.
La pioggia che io temevo, che temevano i colori pastello degli abiti delle invitate, i fotografi, le auto tirate a lucido; la pioggia certo aiutava quella tua richiesta, continua, muta e gridata, di tranquillità, di normalità, di anonimato.
Tu sei così.
Eri bella così, vestita di beige, un colore che forse in un romanzo si sarebbe detto "tortora". Ma che a tanti sembrò pallido e spento.
Erano belli i fiori bagnati e presto appassiti. Ero impazzita a cercare di crearti un mazzolino adeguato. Mi aveva aiutata un vecchio fioraio della Firenze bene, nascosto nell'antro di un palazzo austero. Mi ricordo di lui tutte le volte che passo di lì. Mi chiese se era per me. "Per mia sorella", risposi. "La piccola", aggiunsi.
Mi regalò dei mughetti, per me.
Forse mi fece una timida e galante corte: da vecchio.
Il tailleur azzurro non mi sta proprio più. Non ho più avuto i capelli ricci.
Sono passati vent'anni.
Auguri. Sei bella ancora.
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