Abbandonare Tara
abbandonare le sicurezze, i luoghi comuni, alla scoperta di cosa c'è fuori di qui
« Quaresima | 24 (due alla quarta) » |
Non ho mai amato troppo la Spagna. Fin dalla prima volta in cui la visitai, quasi trent'anni fa, l'ho sempre trovata al di sotto della fama che le è stata costruita intorno.
Meno bello il mare. Meno straordinarie le città. Meno buono il cibo. Meno affine a noi la gente. Grande storia, grande letteratura, ma tutto questo passato sembra oggi perso.
Le città storiche sono spesso ridotte a isolate (splendide) sopravvivenze di edifici singoli, sperduti quasi, nella speculazione edilizia più tetra, anni '60 e '70. I generi di Franco erano palazzinari e come si vede!
La differenza rispetto all'Italia è che da noi questi casermoni in cemento armato assediano le periferie, ma hanno sostanzialmente rispettato i centri storici.
In Spagna, invece, è stato distrutto il tessuto urbano minore: le stradine, le piazzette, le case che tramandano la storia del popolo minuto. Tutto ciò che è "minore" ma che fa da tessuto connettivo tra un grande palazzo e una cattedrale, qui è scomparso.
La suggestione di Avila, Granada, Valladolid, resta un sogno letterario. Il presente è deludente e quel poco che resta va conquistato, caparbiamente, percorrendo chilometri delle "Corso Buenos Aires" o delle "Cristoforo Colombo" locali.
Ho amato Siviglia: ma più per i ponti di Calatrava che non per la Plaza de Toros.
Più per la passeggiata lungo il Gaudalquivir e il rosso tramonto, tardo, dietro la Cartuja. Per l'antica manifattura tabacchi, immensa e turrita come un grande castello.
Poi, una sera, scopri cos'è quell'idea persistente e acuta che non ti esce di testa. Scopri che dopo tutto anche i quartieri dell'Alhambra ricostruiti per i turisti, le fontane asciutte, il buio dei patii, i negozietti anni '50 fuori dai circuiti turistici, la commistione tra moschea e chiesa dell'immensa cattedrale, la Torre de Oro, le scuole di flamenco, hanno un sottile filo che le accomuna.
E' l'odore dell'arancio selvatico, acuto, amaro, persistente. Ci sono alberi di arancio ovunque: nella Plaza des Armas, nel cortile della cattedrale, lungo i viali moderni, nelle piazze con i giardinetti borghesi, nei cortili interni. I frutti cadono per terra, gonfi e pesanti, ma immangiabili. E anche da terra continuano a emanare quel profumo penetrante che ti persuade di essere in estate anche se è pieno inverno, che evoca la Sicilia di mezzo secolo fa, dei racconti dei nonni.
Ma è un profumo che non dura: ho provato a raccogliere un'arancia selvatica da terra e a portarla via. Due giorni dopo era una cosa molliccia e oscena, senza più nessun profumo, e in breve senza colore.
Devi avere memoria per conservare odori, suoni, colori e idee. Ma ancora di più per gli odori: perché non c'è fotografia che te li renda.
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