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Post n°2905 pubblicato il 05 Ottobre 2015 da paperinopa_1974
Quando poco più di un anno fa chiesi a Bastien Vivès (qui l’intervista) quando avrebbe messo il suo talento al servizio di storie non di mero intrattenimento e di maggiore profondità, non potevo immaginare che la risposta sarebbe arrivata così presto. Il suo ultimo libro uscito in Italia per BAO Publishing, Per L’impero, scritto in collaborazione con Merwan Chabane, rappresenta un significativo salto di consapevolezza stilistica. In calce all’opera non sfigurerebbe il distico di Vecchioni ispirato ad Alessandro Magno: “Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione/ quando fu di fronte al mare si sentì un coglione/ perché più in là non si poteva conquistare niente“. Molti critici nelle loro analisi hanno menzionato Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati: un riferimento senza dubbio pertinente, per lo spleen straniante in cui sono immersi i protagonisti, combattenti arditi gettati dal comandamento imperiale nel limbo apparentemente insensato di una marcia nel Nulla. L’aspetto interessante è il capovolgimento di prospettiva: i barbari in questo caso sono i protagonisti stessi. Invece di aspettare l’avvento minaccioso, ma necessariamente foriero di cambiamento, di un fantomatico invasore, qui l’attesa è del manifestarsi di un Nemico da conquistare: ancora più profondo il senso di smarrimento, ancora più invicibile l’impotenza. Come scrive nel suo diario il temibile comandante Glorim: “Questo nuovo mondo è un inganno. Ha lo stesso aspetto de nostro, eppure…Eppure la noia ci uccide più dei nostri stessi nemici”. Un’attesa moltiplicata all’infinito, fino a divenire allucinazione, incubo, deserto interiore. E qui subentra l’altro grande riferimento (probabilmente consapevole) alla grande parabola kafkiana, Un Messaggio dell’Imperatore: la delirante missione è, infatti, scandita dall’invio costante di nuove mappe e messaggi di incitamento, promesse di gloria e ricompense da parte dell’Altissimo, inarrivabile Imperatore. Ma, come nel supremo apologo kafkiano, il messaggio sembra giungere da una dimensione impossibile, la cui eco risuona di Morte: il messaggio è come se non arrivasse mai, differendo all’infinito l’attesa per una meta indefinita. L’aspetto interessante è che questa tematica alta, colta, complessa, trattata dai grandi del Novecento, viene da Merwar e Vivès narrata attraverso una narrazione quasi da videogioco: un videogioco in cui apparentemente non succede nulla, poiché il mostro di fine livello è il Nulla stesso. L’utilizzo di stereotipi sempiterni, come la tribù pseudo-amazzone che seduce orgiasticamente e poi uccide ritualmente (dinamica lussuria/inganno vista in mille variazioni dall’Odissea a I Guerrieri della Notte, dalle fiabe classiche a Shining), la definizione psicologica dei personaggi scolpiti con l’accetta, la semplicità essenziale del racconto è un buon accorgimento per sostenere il peso narrativo di un’avventura ipnotica e annichilente. Nel finale (che non sveliamo), il delirio quasi lovecraftiano è reso in tavole oniriche che sarebbero potute apparire su Métal Hurlant. L’omaggio ai maestri, finora inarrivabili, Moebius e Druillet sembra chiaro. Come sembra chiara la via, dal brillante fumetto d’intrattenimento verso i più alti lidi del fumetto d’autore.repubblica.it di Adriano Ercolani
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