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Elezioni amministrative; ogni epoca ha avuto i suoi pennivendoli di regime ma questi di oggi sono di una miseria unica

Post n°4714 pubblicato il 19 Maggio 2011 da cile54
Foto di cile54

"Io se fossi Dio maledirei davvero i giornalisti"' 

“Io se fossi Dio maledirei davvero i giornalisti, e specialmente tutti, che certamente non son brave persone e dove cogli, cogli sempre bene” cantava 30 anni fa Giorgio Gaber in una sua splendida invettiva. Un testo che fece scandalo perché allora di giornalisti che rischiavano la pelle perché scrivevano cose scomode ce ne erano parecchi. Si scriveva di mafie, di P2, di terrorismo. C’erano tantissimi professionisti allineati nella difficile arte dell’adulazione a prescindere ma anche persone che tentavano di entrare in profondità in una stagione di conflitti sociali e politici dura e complessa. Non avevano i mezzi tecnologici oggi alla portata di tutti, in redazione si stava poco e solo per il tempo necessario a buttare giù il pezzo, i servizi televisivi erano meno patinati ma trasudavano vitalità e ingegno. Certo imperavano anche quelli che con espressione felice e cattiva venivano definiti “pennivendoli” o (per la tv) mezzibusti, incaricati di riportare come su un nastro scorrevole le dichiarazioni spesso insulse degli esponenti di ogni partito. Certo c’erano quelli che guardavano i luoghi del potere con la stessa estasi delle madonne rinascimentali, quelli che andavano in un quartiere periferico di una metropoli o in un paesino del meridione sentendosi emuli del Dottor Livingstone, ma il tutto aveva un aria quasi paesana, bonaria. E c’era anche un pluralismo affatto scontato: periodici di inchiesta che affondavano i denti sui nervi deboli del sistema, fogli e quotidiani che entravano nelle dimensioni territoriali e nazionali con una impronta propria. Una scuola di giornalismo notevole e feconda, si parlava ancora di contro – informazione, le radio libere avevano un ruolo profondo nella narrazione degli eventi, si era anche faziosi e militanti ma c’era anche maggior integrità diffusa. Per cui le accuse generalizzate di Gaber vennero tradotte in generico qualunquismo, in anti politica, diremmo oggi. Quella canzone “S’io fossi dio” un brano di 18 minuti, venne prodotta da una casa discografica microscopica, si racconta vicina alla destra. Eppure oggi, a riascoltarla, viene in mente che Gaber, come al solito, era solo arrivato in anticipo. Il testo, se espunto dagli elementi che lo caratterizzano nella sua contingenza ( i riferimenti a partiti che non esistono più o a leader lontani anni luce dalla memoria) tocca un nervo scoperto, quello di una informazione al tempo della crisi e al tempo del bipolarismo. Due elementi che non si possono considerare se non nella loro interdipendenza. La crisi determina il fatto che il conflitto non debba emergere dai palinsesti informativi. La gerarchia delle notizie deve essere data, per gli strumenti vicini ad uno dei due poli, dalle performances intellettuali o sessuali (spesso si assomigliano) di Berlusconi, per i vizi e le accuse di giustizialismo dagli altri. In mezzo la realtà non c’è e non ci può essere, la distruzione della democrazia sostanziale non è tema da prima pagina, non interessa elettori e telespettatori, quello che serve sono i personaggi, i leader, quelli che si accusano, si azzuffano, giocano in una ripetitiva sit com ruoli diversi. Facce e linguaggi, anche le loro parodie sono comprese in questo schema, in cui non si elabora e non si è capaci neanche di mantenere un minimo di coerenza intellettiva, giornalisti e imprenditori, attori e politici, sindacalisti e generici vari, si mescolano e si confondono. Non a caso entrano nella più nota delle trasmissioni sedicenti di approfondimento, al suono di un campanello. Far irrompere la realtà in simili contesti è inaccettabile, al massimo, se proprio accade qualcosa di cui è impossibile l’importanza, la si rappresenta in pochi istanti, immagini e voci basse e poco incisive a rimarcare la distanza che separa l’esistenza degli ultimi dai cieli alti della buona società. Una buona società che non si arrocca su un'unica voce ma comprende uno spettro finto e allargato, punti vi vista apparentemente divergenti che, stringi stringi, portano a ridurre il tutto a due. Due voci che per denominazione sono a centro destra e a centro sinistra ma che in realtà, a parte i dovuti distinguo, cercano di assomigliarsi sempre più, di trovare sulle questioni centrali: quale ospedale togliere, come ridurre il costo del lavoro, chi bombardare e quando, si trovano in sintonia. Debbono recitare la commedia dei distinguo ma poi, al momento della scelta, si sorridono serenamente e la vita, la loro, continua. Forse è per questo che è difficile parlare dei referendum? Forse è per questo che alcune forze politiche come la FdS devono sparire sistematicamente dal campo delle voci ascoltabili? Forse è per questo che si decide attraverso sondaggi perennemente falsati come orientare il voto? Si esagera? Forse, ma alcuni granelli di polvere sono penetrati in questo ingranaggio micidiale che annulla il pensiero. I candidati telegenici e pompati ad ogni contesto, non hanno avuto il sostegno popolare che pensavano di ottenere, dei referendum si parla più a casa che in tv, il moderatismo da volemose bene comincia a produrre distacco e sana incazzatura. Potrebbe essere un segnale profondo di ribellione e i primi a pagarne lo scotto potrebbero essere proprio quei costruttori di realtà virtuali la cui credibilità non potrà, come vorrebbero, essere eterna.

Stefano Galieni

18/05/2011

 

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