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L’età minima per la pensione di vecchiaia delle donne ed è destinata a salire nel tempo

Post n°6284 pubblicato il 26 Aprile 2012 da cile54

Cosa fare per evitare un'onda di pensionate povere

 

 

Redditi bassi, carriere discontinue, periodi di maternità non coperti. Le donne sono le prime vittime delle riforme sulle pensioni. Alla parificazione dell'età si è arrivati senza i correttivi necessari. Se ne possono proporre diversi, a partire dai contributi figurativi per ogni figlio

 

La parificazione dell’età pensionabile tra donne e uomini è (quasi) raggiunta.

 

Da anni era nell’aria, ma non c’è mai stata una vera discussione preparatoria, neppure in seguito all’innalzamento dell’età pensionabile nel pubblico impiego, anche a causa della totale contrarietà del sindacato. E così ci siamo arrivati nel modo peggiore, senza aver “contrattato” nuove condizioni di riequilibrio, tanto più necessarie entro le regole della pensione contributiva, verso cui stiamo transitando a partire dal 1996 (Legge n. 335, 8 agosto 1995,  riforma Dini).

 

L’innalzamento e la parificazione dell’età pensionistica in abbinamento al cambiamento del sistema avrebbero imposto in parallelo la risoluzione di importanti questioni, che invece non sono ancora state affrontate.

 

Vediamo come è andata e come si può intervenire

 

 Prima delle ultime riforme, a tutte le donne veniva riconosciuta la possibilità di maturare il diritto alla pensione di vecchiaia 5 anni prima degli uomini. In questo modo da un lato si “risarciva” il maggiore impegno delle donne nel lavoro di cura (figli, anziani ecc.), dall’altro si suppliva al fatto che la donna, proprio a causa della maggiore discontinuità del lavoro connessa agli impegni familiari, raramente riusciva a maturare le condizioni per la pensione di anzianità (prima dell’ultima riforma erano necessari 35 anni di versamenti)(1).

 

Nel sistema retributivo (eliminato dalla Riforma Dini del 1995, ma con un lungo periodo di transizione) operava anche un altro meccanismo compensativo, ancora più importante dei 5 anni di anticipo sulla pensione di vecchiaia. La pensione era rapportata alle mensilità degli ultimi anni di lavoro (1, 5 o 10 a seconda dei casi), permettendo di non risentire eccessivamente del minor numero di anni di contribuzione e di  “sanare” eventuali periodi di part time se questi non interessavano l’ultima fase della vita lavorativa (un anno a part time comunque veniva computato per intero).

 

Con l’ultima riforma (decreto legge n. 201, 6 dicembre 2011, riforma Fornero):

 

l’età minima per la pensione di vecchiaia delle donne (dal 2018) diventa 66 anni come per gli uomini, anche nel settore privato, ed è destinata a salire nel tempo con l’aumento della speranza di vita;

le condizioni per la pensione anticipata (che sostituisce la pensione di anzianità, maturata sulla base del numero di anni di contribuzione) sono diventate molto più restrittive, di fatto rendendo l’istituto sempre più una prerogativa maschile;

c’è stata un’accelerazione della transizione al contributivo, che si spera  possa far emergere più velocemente i problemi e le incongruenze del nuovo sistema pensionistico, particolarmente traumatiche per  le donne, appena il dibattito riuscirà a non concentrarsi solo sulle situazioni più contingenti (esodati, ecc).

Con il sistema contributivo, infatti, le regole sono completamente cambiate, la pensione perde ogni elemento solidaristico ed è calcolata in proporzione ai contributi versati e in dipendenza da coefficienti di conversione molto sfavorevoli, individuati per assicurare l’equilibrio dell’Inps.

 

Anche con carriere lavorative “regolari” la pensione contributiva sarà largamente inferiore a quella retributiva (2) e le donne saranno particolarmente danneggiate per tre motivi:

 

perché hanno redditi più bassi e quindi rischiano ancora di più degli uomini pensioni insufficienti ad assicurare una vecchiaia dignitosa;

perché scontano maggiori discontinuità lavorative legate alla disoccupazione (il tasso di disoccupazione femminile è costantemente più elevato) e al lavoro di cura. Ogni periodo di non lavoro senza copertura pensionistica o di minor lavoro (part time) si rifletterà inesorabilmente non solo sul reddito, ma anche sulla pensione futura.

perché c’è una percentuale elevata e crescente di donne che lavora con contratti poco o per nulla tutelati e che perciò non accede ai congedi parentali (o vi accede in misura minima e senza copertura pensionistica) o addirittura che non ha neppure diritto all’indennità di maternità (3). Queste donne avranno diritto a recuperare i 5 mesi dell’indennità di maternità (ma non i congedi) solo se successivamente approderanno ad un lavoro dipendente, da artigiane o commercianti (4).

 

 

Come intervenire?

 

Qualche anno fa, con il gruppo Maternità & Paternità (5), avevamo proposto l’introduzione di un sistema di crediti ai fini pensionistici per la cura dei figli, attraverso il conferimento ai genitori (da dividersi tra loro, a loro discrezione, se c’è accordo; in caso contrario in modo da riequilibrare le rispettive pensioni) di contributi figurativi, pari a tre anni per il primo figlio e due per ogni successivo (6).

 

Questi contributi dovrebbero essere riconosciuti indipendentemente dallo status lavorativo (a lavoratori dipendenti o autonomi, occupati o disoccupati nello specifico periodo), comunque non cumulabili ai periodi maturati durante il congedo parentale e a quelli per maternità/paternità. In questo modo potrà essere riequilibrata la situazione di chi non ha avuto la possibilità di farsi riconoscere la copertura pensionistica dei periodi di maternità e congedo.

 

Il provvedimento non costituisce un disincentivo alla partecipazione delle madri al mercato del lavoro, al contrario costituisce un primo accantonamento ai fini pensionistici che potrebbe favorire la decisione delle madri all’ingresso nel mercato o alla ripresa del lavoro o anche all’emersione dal lavoro nero.

 

È il momento di riprendere in mano questa proposta, che rappresentava un punto di partenza per una nuova riforma delle pensioni che aggiunga ciò che finora è mancato: l’aspetto solidaristico, elemento imprescindibile per la costruzione di un nuovo welfare.

 

 

NOTE

 

(1)  Questo diritto è sopravvissuto alla riforma Dini del 1995, ma per chi rientrava nel contributivo risultava fortemente depotenziato, in quanto ritirarsi dal lavoro 5 anni prima significava percepire una pensione molto penalizzata da coefficienti di conversione più sfavorevoli e da un montante ridotto da cinque anni in meno di versamenti contributivi.

 

(2) Sulla pensione influisce anche un terzo elemento, la rivalutazione del montante pensionistico, ancorato alla crescita del PIL.

 

(3) È questo il caso delle lavoratrici iscritte alle gestione separata, che hanno diritto ai congedi parentali (le collaboratrici a partire dal 2008, le professioniste a partire dal 2012) ma solo per 3 mesi e senza copertura pensionistica.

 

(4) Il testo unico in materia di tutela e sostegno alla maternità del 2001 (Decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151) ha introdotto una norma specifica. Il comma 2 dell'articolo 25 prevede che "(…) i periodi corrispondenti al congedo di maternità di cui agli articolo 16 e 17 [astensione obbligatoria dei 5 mesi o periodi superiori se gravidanza a rischio], verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, sono considerati utili ai fini pensionistici, a condizione che il soggetto possa far valere, all'atto della domanda, almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro". Tuttavia questa norma si applica solo "in favore dei soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti". La stessa norma stabilisce che gli oneri derivanti da tali disposizioni siano addebitati alla relativa gestione pensionistica.

 

Sono escluse da questa misura le donne iscritte ad altre forme di previdenza, quali:

 

 la Gestione Separata INPS (Collaboratrici e professioniste con partite Iva), dove solo da pochi anni (articolo 6 Decreto 12 luglio 2007) la gravidanza è coperta sotto il profilo pensionistico;

 le lavoratrici che avessero più di cinque anni di contribuzione, ma non in maniera continuativa e con la stessa gestione.

Ancora una volta la legislazione non è riuscita ad adeguarsi ai cambiamenti del contesto socio lavorativo, ha escluso alcune tipologie di lavoro, peraltro in forte crescita soprattutto tra le donne, e penalizza i lavoratori che hanno percorsi intermittenti e riferiti a diverse gestioni.

 

(5) Il gruppo, inizialmente formato da Marina Piazza, Anna M. Ponzellini e Anna Soru, si è ampliato con la partecipazione di altre studiose e studiosi, madri e padri “attivi”, professionisti e operatori impegnati a vario titolo in associazioni e istituzioni, (il gruppo Facebook ha superato i 150 membri) e sta lavorando per proporre nuove politiche di welfare. Si tratta di persone portatrici di esperienze di lavoro diverse, che si sono impegnate a disegnare le proposte per uscire da questa impasse tutta italiana andando oltre l’impostazione, corporativa e superata, che prevede trattamenti differenziati per le diverse categorie di lavoratori. L’idea che anima il gruppo è quella di collocare la riflessione e le proposte di welfare per le madri e per i padri nel “nuovo” mondo del lavoro, quello “dei ventenni e dei trentenni che cercano lavoro e a cui le aziende offrono di tutto tranne che un rapporto di lavoro regolare…”. Un welfare quindi che comprenda oltre che i dipendenti, lavoratori e lavoratrici autonome, collaboratori, professionisti e partite Iva, madri a part time, padri con lavori intermittenti, piuttosto che solo i/le tradizionali dipendenti a tempo pieno e a tempo indeterminato che occupano l’immaginario delle organizzazioni tradizionali della rappresentanza politica e sindacale. Un welfare non solo lavoristico ma fondato su una nuova idea di cittadinanza.

 

(6) Il testo della proposta è scaricabile dal blog del gruppo Maternità & Paternità 

 

Anna Soru

19/04/2012

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