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Messaggi del 04/06/2012

 
 

Un personaggio contro un'infermiera. Quando misoginia e sessismo incrociano esperienze come la sofferenza e il lutto.

Post n°6466 pubblicato il 04 Giugno 2012 da cile54

Gli stereotipi sessisti non sono mai innocui

 

Scrivo per un fatto avvenuto nel nostro ospedale, riportato in un libro. Il libro è ormai molto noto, perché molto noto ne è l’autore. Si tratta di Flavio Insinna e il titolo del libro è “Neanche con un morso all’orecchio”, edito da Mondadori.

 

E’ il racconto autobiografico di una sua dolorosa esperienza, quella della morte del padre, ricoverato per diversi giorni in un reparto di terapia intensiva del San Camillo Forlanini. Una storia che intercetta emotivamente esperienze umane e universali come quelle della sofferenza e del lutto. Una storia che avrebbe certamente potuto rappresentare e sollecitare riflessioni serie, sulla complessità dei percorsi assistenziali, delle regole e delle procedure dei reparti di terapia intensiva, sulle criticità che vive oggi il nostro sistema sanitario impoverito di risorse e di cultura, sulle disparità di potere tra chi è titolare della cura e di chi è titolare della malattia, sul rapporto tra tecnologia e umanizzazione, su quello che bisogna difendere e su quello che non si deve accettare. O di tanto altro ancora.

 

Purtroppo la lettura inciampa in un capitolo dal titolo “L’infermiera stronza”… e di questo ritengo doveroso parlare. Non per una difesa d’ufficio di una operatrice (considerata da tutti i colleghi una brava operatrice e che sta vivendo silenziosamente e dolorosamente queste accuse), ma per le frasi, le parole che accompagnano il racconto. Vi chiedo di leggerle, con attenzione. L’impressione è di vero spaesamento!

 

Sono un medico, ho lavorato per tanti anni anch’io in ospedale e conosco bene le situazioni che vengono descritte. Sono stata e continuo ad essere convinta che “stare dalla parte del malato”, dei suoi diritti e della sua dignità, sia testimonianza non solo di impegno civile ma di responsabilità e qualità professionale. Ma sono stata e continuo ad essere altrettanto convinta che la misoginia e il sessismo siano inaccettabili e pericolosi in ogni luogo, sempre.

 

In questo capitolo il cliché “antropologico” della donna bassa, brutta, scorbutica e scostante è accompagnato da una ricetta “rieducativa” condita con robuste dosi di violenza, verbale ma anche fisica. Ritengo che il fenomeno della violenza contro le donne sia una realtà troppo seria per minimizzare messaggi, tanto più quando sono stati a lungo pensati, poi scritti e infine pubblicati. Gli stereotipi sessisti non sono mai innocui, ma agiscono nella percezione soggettiva di ognuno costruendo un terreno di “neutralità”, disponibile all’ambivalenza dei pensieri e dei comportamenti, di tolleranza e persino di giustificazione. La mia sensazione di spaesamento nasce proprio da qui.

 

Di questo libro si sta discutendo su vari blog. Accanto a commenti per fortuna di protesta e indignazione, leggo commenti di totale condivisione e approvazione nei confronti delle parole di Insinna; altri di vicinanza bonaria a quello che viene descritto come espressione di un “semplice sfogo” emotivo; altri persino di palese derisione per chi non sa essere di fronte a queste parole “almeno un po’ ironico”…

 

Le parole pesano e fanno opinione! Vi scrivo quindi per chiedervi di usare e di far pesare altre parole, le nostre parole, di donne ma soprattutto di uomini (sempre interpellati ma troppo spesso silenziosi). Parlate, scrivete, intervenite!

 

Maura Cossutta

01|06|12 www.womenews.net

 
 
 

La quasi totalità della violenza maschile arriva dai familiari. Molte donne, prima di arrivare a essere uccise, si suicidano

Post n°6465 pubblicato il 04 Giugno 2012 da cile54

Parenti serpenti, parenti assassini

 

Il 70% dei «femminicidi» è preceduto da richieste di aiuto delle donne ai servizi sociali. Ma le istituzioni ignorano questa strage non silenziosa

 

Ancora una e un'altra ancora. Soltanto nelle ultime settimane a Tivoli Andrej Scirpcariu, appena 23 anni, ha sgozzato la sua ex (sempre di 23 anni), Claudia Bianca Benca, in macchina davanti al figlio di due anni; a Brusciano, in provincia di Napoli, Salvatore Velotto, 35enne, ha ucciso la moglie, Vincenza Zullo di 33 anni, con un colpo di pisola in faccia; a Biella un uomo di 91 anni ha ucciso a martellate in testa la moglie mentre era a letto; a Cesena un uomo di 60 anni ha ucciso Sabrina Blotti di 44 anni, con cui aveva avuto una breve relazione; a Ferrara Giuliano Frezzati di 66 anni, ha strangolato Ludmila Rogova, 43 anni, con cui aveva una relazione.

 

Dati che non possono non allarmare Barbara Spinelli, avvocata esperta a livello europeo sul femminicidio e coordinatrice del gruppo di studio sul genere di Giuriste democratiche, che fa parte della Piattaforma «Lavori in corsa: 30 anni di Cadaw». Secondo Spinelli «se il femminicidio è un atto di violenza ultimo sul corpo della donna, il rischio aumenta quando la donna decide di separarsi dal marito o dal fidanzato».

In particolare in Italia il femminicidio più che un fatto di cronaca nera, è un fenomeno che tende ad aumentare progressivamente con un numero che quest'anno ha già superato le 60 vittime in cinque mesi.

Il dato paradossalmente più preoccupante, però, è che secondo i casi raccolti da Spinelli «il 70% dei femmicidi in Italia è stato preceduto da un intervento dei servizi sociali, da una denuncia, da una chiamata al 113, ognuna in relazione a una violenza domestica che era in atto e in cui la donna poteva essere salvata. Sembra chiaro che il femminicidio ha un evidente legame con la violenza domestica». L'omicidio di genere in Italia colpisce soprattutto le over 46 e viene effettuato in media con armi da fuoco ma anche con armi bianche, soffocamento e strangolamento, e con modalità e scenari degli di un film horror.

«Quando accade un femmicidio in famiglia - dice Spinelli - si tende a occultare la situazione di controllo e di violenza nell'intimità della coppia, e il fatto che se una donna non rispetta le regole del maschio, rischia la vita. Un fenomeno transnazionale che va al di là della cultura, della religione, e del paese in cui avviene il femmicidio, perché la questione è il controllo e il possesso che l'uomo pensa di avere su quella donna che sta con lui. L'indiana uccisa dal marito vicino Piacenza (Kaur Balwinde, 27 anni e incinta di 3 mesi, strangolata dal marito, Singhj Kulbir, ndr) - afferma Spinelli - non è morta perché vestiva all'Occidentale come molti giornali hanno scritto, ma perché non stava alle regole del marito, una cosa che può mettere in pericolo una donna in ogni parte del mondo».

Quando la Relatrice Speciale sulla violenza di genere delle Nazioni Unite, Rashida Manjoo, è venuta in Italia, ha chiaramente detto che la violenza domestica nel nostri Paese è «la forma di violenza più pervasiva che continua a colpire le donne italiane», cioè la più diffusa, in quanto «rappresenta tra il 70% e 87%» della violenza di genere (i dati non sono precisi perché i numeri ufficiali non coincidono con quelli delle associazioni che lavorano sul territorio). La rappresentante dell'Onu, che a giugno renderà pubblica la sua relazione sulla violenza in Italia al Palazzo di vetro a New York durante la 20a sessione del Consiglio dei Diritti Umani, ha osservato che le italiane «non denunciano e non segnalano» sia perché sono all'interno di un «contesto culturale patriarcale incentrato sulla famiglia con forte dipendenza economica della donna», sia perché le donne non si sentono protette dallo stato. Eppure Rashida Manjoo, oltre a visitare le strutture, ha avuto colloqui con ministri italiani e con gli organi di giustizia che non possono dire di non sapere o di non essere al corrente di quello che succede.

«In Italia - dice Spinelli - non si è stati capaci di prendere una posizione chiara e pubblica sulla natura di genere di questi omicidi in cui la donna viene uccisa in quanto tale e nel momento in cui dice No. Se manca un riconoscimento di questo tipo è una lotta contro i mulini a vento, e finora né le istituzioni né la ministra del lavoro con delega alle pari opportunità, Elsa Fornero, si è presa l'onere di dire pubblicamente che la matrice di queste morti è la violenza e la discriminazione sulle donne: un passo che avrebbe un impatto enorme a livello culturale e sociale, e sarebbe a costo zero». «Il problema - aggiunge - non sono solo i soldi perché è evidente che manchi proprio la volontà di affrontare la questione. Il politico o la ministra che firma petizioni non ha molto senso, se poi non interviene e un esempio di mancanza di volontà sono la mancanza di dati: cosa ci vuole a raccogliere dati in un modo rispetto a un altro? Cosa gli costa metterli insieme? Se pensiamo che in Italia non solo aumentano i femmicidi e non abbiamo un osservatorio di genere su questo, ma che i dati dei carabinieri e della polizia non sono congiunti, è come cercare di risolvere andando a sminare con gli occhi bendati».

Se una donna fa una denuncia alla polizia il marito o l'ex per violenza domestica e poi va dai carabinieri e fa un esposto alla procura, o l'avvocato li rimette insieme oppure risultano come fatti isolati che non danno il senso della violenza che la donna subisce, di quello che sta succedendo veramente, e di quanto la donna sia a rischio. «Qui - conclude Spinelli - manca totalmente la valutazione del rischio e la protezione per le donne, e se una donna denuncia le violenze in famiglia deve iniziare anche un percorso per uscirne fuori e in questo percorso deve essere protetta. Per questo i centri antiviolenza sono così importanti, ed è una follia strozzarli economicamente dando finanziamenti a singhiozzo».

Molte donne, prima di arrivare a essere uccise, si suicidano, perché una donna che denuncia una violenza tra le mura domestiche rischia un calvario, soprattutto se ci sono figli minori, perché davanti all'impreparazione di operatori, forze dell'ordine, avvocati, tribunali, giudici, quello che vince è una cultura che obbliga la donna a sopportare le violenze anche a rischio di morte, dove anche i minori presenti sono esposti e sono loro, in caso di femmicidio, le prime vittime collaterali di questa strage.

 

Luisa Betti

03.06.2012 www.ilmanifesto.it

 
 
 

Intervista a Maria C. Ferraguti, assessore Prc. Come in Abruzzo e in Liguria, l'impegno dei militanti di Rifondazione Comunista

Post n°6464 pubblicato il 04 Giugno 2012 da cile54

Dal terremoto: fra i ragazzi delle brigate, la distanza del governo, il timore delle speculazioni

 

Il nome di Cavezzo fino a quella orrenda notte del 20 maggio era apparso raramente sui giornali. Un tranquillo e operoso Comune della provincia modenese che è stato fra gli epicentri del sisma che ha colpito l’intera area. Le scosse continuano ma le persone reagiscono e si rialzano con i propri mezzi, Maria Cristina Ferraguti è una dei 4 assessori del Comune eletta per il Prc con una montagna di deleghe, dalle attività produttive agli interventi economici, alla comunicazione.

 

«Mentre parliamo sono presso uno dei due campi di accoglienza sfollati, quello del palazzotto dello sport. C’è una tenso struttura che è stata messa a disposizione e montata dal Prc e dai ragazzi delle Brigate di solidarietà attiva. Stanno organizzando giochi e laboratori di pittura, di fronte a me vedo tanti bambini che giocano, in fondo stanno montando un teatro di burattini. C’è una marea di ragazzi e si stanno organizzando parecchie iniziative per i prossimi giorni. È un gran bel lavoro da vedere».

 

Come sono stati accolti i compagni arrivati da fuori?

 

«Benissimo. In questo spazio c’è anche una colonna dell’Abruzzo della Protezione Civile, e poi si è creato un accampamento spontaneo di cittadini perché qui fuori c’è uno spazio aperto molto grande. Ci sono camper, roulotte, tende. Insomma c’è un gran da fare e occuparsi dei bambini e degli adolescenti è stato considerato un lavoro importantissimo dalla gente. Si tratta di una iniziativa che funziona e si rivela molto utile che viene vista con entusiasmo. Se i bambini stanno bene stanno meglio anche i genitori. I compagni hanno scelto di dedicarsi ad un bisogno concreto,la ricerca di costruire momenti di normalità, da dedicare al gioco, in cui portare serenità. Si tratta dell’unica cosa piacevole da vedere in questa sterminata distesa di tende e polvere».

 

E ai pasti per chi vive nelle tende chi provvede?

 

«La Protezione Civile ha garantito pasti per tutti ma l’intervento non si è ancora concretizzato. C’è una loro presenza che a volte è ingombrante e in due giorni dovrebbero garantire 1000 pasti, ma l’intervento per ora è garantito dai volontari che si sono attivati già dal 20 maggio. In parte grazie a strutture già presenti nel territorio che hanno garantito immediatamente 380 pasti al giorno, in parte da veri volontari giunti da ogni posto, soprattutto dalla Protezione di Rimini. Ma si tratta, come dicevo, di un volontariato reale e ti accorgi di quanto sono diversi dalla maniera con cui si pongono, da quello che fanno senza prendere un euro. Fanno cose in cui credono».

 

Le Brigate stanno facendo qualcosa anche per gli adulti?

 

«Si ci stanno lavorando. Per stasera (2 giugno) hanno organizzato un concerto, poi stanno mettendo in piedi una biblioteca. Si sta cercando in queste ore di fare il punto sul da farsi, a ruotare sono almeno 25 persone che non si fermano un momento, sono incredibili».

 

Intanto la terra continua a tremare

 

«Si ieri notte c’è stata una forte scossa, molto seria e anche questa mattina molte di entità minore, 3 gradi, Richter. Ormai le percepiamo solo parzialmente, cominciamo a perdere quasi sensibilità, per fortuna oserei dire. Stiamo quasi imparando a conviverci».

 

Sono crollati molti capannoni e molti edifici. Si poteva evitare?

 

«Guarda, vorrei trovare i termini giusti per parlarne. Nel nostro territorio fino al 2008 c’erano protocolli e normative di un certo tipo. La nostra zona era considerata con un rischio sismico quasi nullo. Quindi le strutture erano tarate per essere messe in sicurezza in un certo modo. Si sono rivelate inadeguate. Quelle realizzate dopo hanno resistito, erano variati i protocolli ed era stato riconsiderato il livello di sismicità. Ora si tratta di rivedere le istruttorie preesistenti per capire se sono state applicate le norme. I tecnici dovevano andare a verificare se, nelle strutture più vecchie, erano state apportate le modifiche richieste, se le travi erano state bullonate. A noi risulta di no. Alcune cose sono state fatte passare in modo scandaloso, non  è stato chiesto alle aziende di riadeguarsi. Ma oltre che dei capannoni vorrei aprire un discorso sull’ incredibile percentuale di crolli di edifici residenziali recentissimi. Fa impressione trovare le stesse imprese costruttrici, gli stessi referenti accostati ai crolli. È presto per valutazioni, dobbiamo fare riflessioni serie ma credo che ci siano già degli inquisiti, qui c’è stata una speculazione edilizia che ha dilagato».

 

E come pensate di procedere con la ricostruzione?

 

«Sto passando le giornate dal 20 a oggi a contatto con cittadini che manifestano l’intenzione di ripartire. Forzatamente, nel rispetto del territorio, delle mutazioni sopraggiunte, ragionando su nuovi criteri, su altri materiali da utilizzare e con tecnici sicuramente più capaci di me. C’è forza di volontà e una determinazione incredibile, ma c’è anche la  paura di rischiare di vedere il loro paese riempirsi strutture temporanee. Non vogliono ritrovarsi come a l’Aquila, preferiscono un periodo in tenda per valutare come muoversi ma non vogliono prefabbricati. Siamo poi tutti molto provati e dobbiamo ricostruirci un po’ noi. Stiamo rivedendo il concetto di paese e scopriamo un sacco di cose. Ritroviamo una grande capacità di coesione sociale e di solidarietà, di reciproco sostegno. Qualcosa che c’era ma non era così manifesto. Da questo disastro totale potrebbe ricostruirsi una collettività, ci stiamo scoprendo più forti perché lavoriamo insieme per progetti concreti che ci fanno rialzare e andare avanti»

 

Cosa hanno pensato i tuoi concittadini delle polemiche sorte attorno alla parata del 2 giugno?

 

«Della parata hanno pensato un gran male. Qui tante persone hanno perso casa e lavoro in un minuto e non hanno più nulla. Hanno solo da ricostruire e hanno considerato un insulto la poca attenzione e la non considerazione del loro disastro e del loro dolore. Non hanno accettato che si investisse denaro in questa manifestazione. Parlavo ieri con un comandante dei Vigili del fuoco. Era stupito delle persone che lo fermavano per strada per ringraziarlo, perché si era saputo che il suo Corpo aveva deciso di non aderire alla parata e di restare al nostro fianco. Ci sono state anche molte reazioni di rabbia».

 

C’è chi ha bollato come frutto dell’ “antipolitica” questa polemica.

 

«Un errore. La società civile ha dimostrato per l’ennesima volta di essere più avanti della classe politica che la rappresenta, di avere maggiore lucidità. Così le istituzioni si allontanano ancora di più dalle persone. Me lo dimostra un esempio non marginale. Io sono responsabile del COC (Centro operativo comunale) una struttura che si attiva per le emergenze. Fra le tante incombenze abbiamo quella di gestire le offerte e le donazioni che arrivano. Ne continuano a giungere tantissime, da parte di Comuni, associazioni, singoli cittadini. Ma fa riflettere che tutti coloro che ci aiutano ci chiedono espressamente che i soldi restino nel paese. Fanno le collette, i salti mortali per dare qualcosa ma temono che subentri lo Stato o qualche altra istituzione a dirottarli. Ci dicono di farne ciò che vogliamo ma non vogliono che si mettano in mezzo né la Regione né la Protezione Civile. Non si fidano».

 

Stefano Galieni

3/6/2012 www.controlacrisi.org

 
 
 

I drammi in atto in Emilia Romagna non sono una fatalità, sono conseguenze di scelte di criminale economia affaristica

Post n°6463 pubblicato il 04 Giugno 2012 da cile54

Operai morti in Emilia: le lacrime di coccodrillo di chi oggi abbatte l’articolo 18

 

 

Lo scorso autunno ho fatto l'operaio. Avevo bisogno urgente di soldi in vista di un lungo trasferimento in Francia e così abbandonai tutte le collaborazioni giornalistiche, poco retribuite e piuttosto scostanti. Era settembre, periodo di vendemmia. Mi presentai in un'importante cantina della mia zona, nelle Marche, chiedendo di essere preso a lavorare. Accettarono. Avevano bisogno di manodopera e io, nonostante fossi inesperto, facevo al caso loro.

 

Fu dura. I primi 15 giorni non lavoravo mai meno di 12 ore filate, domeniche comprese. Entravo nelle vasche da un oblò largo esattamente come il mio bacino. E vi rimanevo a lungo, con una scopa in mano e i piedi in ammollo nel mosto. I miei colleghi più esperti mi raccomandarono di stare attento alle inalazioni di anidride carbonica. Mi dissero: "Se ti senti male buttati con la testa fuori dall'oblò e respira a fondo". Io pensavo che se mi fossi sentito male non ne avrei mai avuto il tempo. Ma peggio della "carbonica" c'era l'anidride solforosa, che bloccava i polmoni, li chiudeva in una morsa. Un collega, M., solo un anno prima lo inalò con tale forza da "bruciarsi" tutte le terminazioni nervose del naso. Per lui il senso dell'olfatto era solo un ricordo. Ma oltre al danno ci fu la beffa: l'azienda lo licenziò in tronco pochi giorni dopo. M. gli aveva fatto causa per l'incidente dell'anno prima. Io rischiavo la pelle ogni giorno e solo i miei colleghi operai mi davano qualche "nozione" di sicurezza. L'azienda non organizzò mai corsi preliminari per metterci in guardia dai pericoli.

Ma il peggio venne dopo. Nel periodo più intenso la cantina era aperta 24ore al giorno. Diedi disponibilità a fare turni di notte, teoricamente retribuiti il doppio di quelli diurni. Conoscevo i miei diritti: sapevo che mi sarebbero spettati due giorni di riposo dopo tre notti consecutive. In realtà le cose andarono assai diversamente: feci 28 turni di notte consecutivi. Mi presentavo in cantina alle 23 e 30 e me ne andavo alle 9 del mattino seguente. Sabati e domeniche comprese, ovviamente. Talvolta al turno di notte mi chiedevano di aggiungere quello di giorno e spesso misi insieme 17 ore di lavoro. 17 ore tra gas mortali, presse da 300 quintali, serbatoi a 30 metri di altezza e cloache sempre in marcia.

Finì che mi pagarono i turni di notte come quelli di giorno. Finì che protestai per quel furto che avevo calcolato di quasi mille euro. Finì che due giorni dopo venni licenziato anche io con un sms sul cellulare: "Non abbiamo più bisogno di te", mi scrisse il responsabile della cantina.

Ora penso al terremoto e agli operai morti sotto i capannoni crollati. Non so a quali condizioni lavorassero e non mi serve saperlo. Alcuni colleghi hanno parlato: hanno raccontato che, nonostante si sentissero insicuri, erano stati costretti a recarsi a lavoro lo stesso. Come potevano rifiutarsi? Chi ha fatto l'operaio sa bene che a certe cose non puoi dire di no, così come io non potevo dire no ai turni da 17 ore senza riposo. Gli operai morti in Emilia non potevano rimanere a casa, a meno che qualcuno non avesse negato l'agibilità a quegli stabilimenti. Ma anche chi doveva fare quel lavoro è rimasto sotto le macerie. Banalmente: chi ha mandato quegli operai a morire è un criminale perché non ha neppure atteso l'esito delle verifiche tecniche. Quei capannoni erano gia gravemente danneggiati dal sisma del 20 maggio. E stamattina Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, ha avuto il coraggio di dichiarare: "Artificiosa la polemica sul crollo dei capannoni".

 

Scrive oggi Michele Azzu su L'Espresso:

Ma quei capannoni andrebbero chiusi subito. Architravi di cemento armato poggiati sopra colonne di cemento armato: le oscillazioni del sisma hanno fatto collassare questi prefabbricati su loro stessi. E quelli che erano rimasti in piedi il 20 maggio non hanno retto alle scosse del 29.

Ma la verità è che difficilmente si potranno trovare dei colpevoli a queste morti. Perché questi capannoni sono in regola: la Regione indica la provincia di Ferrara e di Modena come zone a basso rischio sismico (Zona 3). Costruttori ed aziende non avevano l'obbligo di mettere a norma le costruzioni precedenti il 2005, anno della normativa antisismica. Quando le leggi stesse sono 'colpevoli' significa che il problema è sistemico. E allora, di chi è la colpa?

 

Già, di chi è la colpa?

 

Ma andiamo oltre. Abbiamo detto che già oggi, a queste condizioni, è pressoché impossibile che un operaio possa rifiutarsi di andare a lavoro senza subire conseguenze gravissime. La situazione tuttavia è destinata a peggiorare drasticamente.

Il Governo ha posto la fiducia sulla riforma del mercato del lavoro, ovvero la demolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori che impediva il licenziamento in mancanza di giusta causa.

L’ipotesi del dibattito parlamentare (con l' accordo di Pd-Pdl-Terzo Polo) è saltata nei giorni scorsi quando la Lega prima, l'Idv poi hanno presentato al Senato oltre 150 emendamenti. Nessuna discussione, dunque, e Bersani, che ieri si è fatto fotografare davanti a uno dei capannoni crollati (a uso e consumo di Twitter), ha dichiarato: "Quando il governo mette la fiducia noi naturalmente discutiamo fino all'ultimo dopodiché lo sosteniamo, questo è stato il nostro impegno".

Quello che Bersani non dice è che la demolizione dell'articolo 18 avrà come conseguenza l'imposizione del silenzio ai lavoratori. Chi mai protesterà, in futuro, se le condizioni di sicurezza della fabbrica dove lavora sono pessime? Chi avrà il coraggio di mettere a repentaglio il proprio posto di lavoro, sapendo che, se anche vincerà la causa, l'imprenditore non sarà obbligato a reintegrarlo?

Questo è lo schiaffo peggiore che i nostri dirigenti potevano dare a quegli operai morti per la paura di rimanere senza lavoro.

 

Davide Falcioni

3/6/2012 www.rifondazione.it

 
 
 
 

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(Gianni Rodari)

 

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

omicidio di Stato

DARE CORPO ALLE ICONE

 
 
 
 

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