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Oltre le forche caudine e oltre i forcaioli

Post n°329 pubblicato il 16 Dicembre 2009 da socialismoesinistra

Non è semplice commentare l’aggressione subita da Silvio Berlusconi senza scadere nella retorica e nel qualunquismo, o nel tiro incrociato delle invettive contrapposte e strumentali che dai media rimbalzano persino nelle aule parlamentari e che mostrano, ancora una volta, come se non bastasse quella in cui il volto insanguinato del premier ha fatto il giro del mondo, che questo è davvero un Paese sull’orlo di una crisi di nervi. Si parla di decreti per limitare le manifestazioni, e la libertà del web, come se si volesse curare con un’aspirina una profonda paranoia sociale ed esistenziale. Quella che ormai da più di un decennio ha reso consustanziale l’odio alla lotta politica, ha trasformato gli avversari politici in nemici da abbattere senza mezzi termini e a tutti i costi.
Tutto cominciò davanti a quell’Hotel Rafael quando la folla, ben strumentalizzata ed aizzata da coloro che poi avrebbero tratto vantaggio dall’esasperazione progressiva e mai veramente contenuta o ridotta del clima politico, coprì di insulti e di monetine un leader politico socialista tuttora evocato in malo modo per scaricargli addosso tutte le colpe ed i veleni di un apparato democratico, civile e sociale che non è ancora mai stato all’altezza degli altri che nel mondo sviluppato ed europeo, in particolare, garantiscono progresso ed emancipazione umana, prima ancora che politica. Quel leader, Bettino Craxi, che tuttora viene menzionato più come il mentore di Berlusconi e di tutte le sue “nefandezze”, piuttosto che come il coraggioso testimone della memoria di Allende e degli esuli cileni, come il sostenitore di Solidarnosc, come il difensore dei palestinesi che egli addirittura paragonò ai martiri mazziniani, legittimando, pur ritenendola controproducente, in pieno emiciclo parlamentare italiano, persino la loro lotta armata contro l’oppressione e per il diritto ad una patria. Lo stesso che, pur nei suoi difetti e nei mali di un Paese endemicamente malato di inefficienza e di corruzione, da una posizione di consenso minoritaria, seppe inaugurare una stagione di crescita con la quale l’Italia entrò nel novero dei grandi dell’economia ed ebbe uno sviluppo economico, fino ad allora, ineguagliato.
Ci chiediamo cosa avrebbe potuto fare l’Italia se quel leader o comunque un altro socialista, invece di guidare un partito che raggiunse al massimo percentuali intorno al 15%, avesse guidato un partito socialista di dimensioni europee, tale da conseguire il 40% dei consensi, o anche solo quelli sotto i quali non si arretra nemmeno quando si viene sconfitti: il 20%.
Non lo sapremo mai, perché il triste destino storico ci ha imposto per più di 40 anni un partito comunista che, pur essendo guidato da uomini di provato valore e di grande autorevolezza morale, non ha mai avuto né il coraggio di “rivoluzionare” il sistema per cambiarlo radicalmente, e nemmeno la prudenza e la lungimiranza di trasformarsi a sua volta in un partito, non tanto socialdemocratico, ma almeno socialista massimalista, di quelli che fanno del radicalismo una bandiera libertaria in senso etico, prima ancora che politico e non accettano diktat né compromessi con nessuno, se non con il popolo a cui ritengono di dover sempre rispondere con autenticità e trasparenza.
Quel partito comunista invece è rimasto prigioniero a lungo della sua “gabbia burocratica”, trasferendola anche alle sue successive metamorfosi botaniche, molto attento a certe rendite di posizione, ma sempre meno al legame con la gente, al popolo che si identificò con i suoi ideali, fino a perdersi la gente per strada e a dimezzare i suoi consensi, tanto da essere portato, di conseguenza, a metamorfizzarsi ulteriormente, persino con certi suoi “storici oppositori”
Da questa mancanza di prospettive concretamente e pragmaticamente socialiste, dall’incrocio con interessi trasversali che hanno ostacolato la chiarezza di indirizzi ideali e morali (primo tra tutti una autentica visione laica ed autonoma dello Stato in cui legalità e mancanza di conflitti di interessi dovrebbero regnare sovrani), buon gioco ha avuto l’antagonismo di un’opposizione nata e cresciuta per essere antitetica alla politica dell’inciucio come modus vivendi, per essendo essa stessa figlia di quei favoritismi e clientelismi che hanno determinato la crescita esponenziale della forza mediatica ed economica su cui essa ha poi consolidato fortune e potere.
Antagonista “formale” dunque, ma compagna sostanziale, se non ancora più compromessa e compiacente nei fatti.
Da questo “antipoliticismo” formale, ma “politicismo” sostanziale, è nato e cresciuto un partito cucito addosso ad un leader come un vestito su misura, senza che avesse mai una piega storta. Attento a ogni minima sbavatura, e mai disposto ad avere o tollerare alcuna dialettica o alcun dissidio interno. Anzi proteso a fagocitare e a ridurre fino all’annientamento, persino quello esterno. E ciò è facilmente riscontrabile nella sorte a cui sono andati incontro in ordine progressivo, vari personaggi politici, che tutto furono fuorché antagonisti alla politica di centrodestra e del suo indiscusso leader: Follini, Casini, Fini..ironia della sorte tutti “ini” di fronte agli “oni” anzi, al solo, big only “one” All’unico e indiscusso premier che ha sempre voluto guidare lo schieramento politico di opposizione a quelli che ha sempre definito “comunisti o postcomunisti”, perché purtroppo gli altri del suo schieramento non ne sono mai stati del tutto capaci, non hanno mai avuto né il carisma, né la passione e soprattutto nemmeno gli straordinari mezzi mediatici ed economici necessari a farlo. Tutti tranne uno: Bossi che è sembrato a tanti essere il suo fedelissimo “cane da guardia” ma che, con il tempo, ha saputo abilmente ribaltare il suo ruolo sostanziale, fino a tenere lui al guinzaglio e saldamente il premier al potere perché, senza di lui, non potrebbe più restarci. E tirando talmente forte il guinzaglio da portarlo a poco a poco, a ribaltare le sue premesse “liberali” fino ad adottare in pieno un programma xenofobo, populista, antistatalista fino all’ossessione, privatista, e di fatto scissionista, nel dirottamento progressivo delle risorse economiche dal sud al nord. Con l’obiettivo nemmeno tanto criptico di creare quello sfascio complessivo dello Stato da cui finalmente dovrà nascere la santissima e padanissima secessione.
Il fatto che Silvio Berlusconi sia stato colpito, come un pugno in piena faccia, non da una pietra e per fortuna nemmeno da un proiettile, ma dall’immagine stessa per antonomasia, di quella Milano che ha fatto la sua fortuna e che lo ha sempre accompagnato dalla sua nascita fino alla sua apoteosi, ha un’alta valenza simbolica. E’ un po’ come (mutatis mutandis) se il Papa fosse colpito da un modellino di S.Pietro. Lui, il “papa” di Milano 2, del Milan, di tutti i governatori della Lombardia che si sono succeduti dalla caduta di Craxi e dei craxiani, in quella roccaforte incrollabile del consenso del centrodestra, lui credo che no, proprio non se l’aspettasse e per uno che ha fatto dell’immagine simbolica il fulcro della sua crescita personale, professionale, economica e politica, penso che ciò sia stato un gran trauma.
Un trauma che ce lo ripropone in maniera spietata come un uomo qualsiasi, smarrito, incredulo, angosciato e che per questo, pur sanguinante, esce di nuovo, sfidando il suo apparato di sicurezza, non certo particolarmente brillante in questa occasione, per rendersi meglio conto, per capire, per guardare in faccia quel “buco nero” da cui inaspettatamente si è materializzata la minaccia fisica, da cui è balzato fuori come un “miniterminator” sfacciato ed irriverente, il “duomo di Milano”.
Quell’uomo smarrito, che tante volte baldanzoso ci ha fatto sorridere, arrabbiarci, magari anche sognare o provare gli incubi peggiori, a seconda dei punti di vista e del modo di dormire, lo stesso che irrideva gli antagonisti chiamandoli “coglioni”, ma si sa, in modo scherzoso, perché lui, con il “grande pisello” di Arancia Meccanica e relativi “attributi”, non avrebbe mai, né ha mai violentato nessuno, ora ci appare nella sua cruda umanità: un nonno, un marito, un lavoratore, un uomo prestato alla politica e che la politica ha “sfregiato” disumanamente. Un uomo che si chiede giustamente: “Ma chi me lo ha fatto fare?”
Esposto come tanti in questo Paese, dai tempi di Catilina a quelli di Giulio Cesare, Nerone e Cola di Rienzo, fino a Mussolini, prima alle glorie mediatiche degli osanna e poi al repentino crucifige. Perché purtroppo, questo Paese non riesce proprio ad essere normale, e a tollerare che al potere vadano persone normali a rappresentare semplicemente altrettante e numerosissime persone normali.
Perciò, da persona che si vuole sentire a tutti i costi normale, e che aspira solo alla gloria dell’illustre sconosciuto, non vorrei proprio passare sotto quel giogo incrociato delle forche caudine dove la lancia dell’apologia è piantata parallela a quella della denigrazione, entrambe a sostenere quella della barbarie, dell’inciviltà di una democrazia perennemente incompiuta, mai all’altezza di una serena e consapevole alternanza, come quelle che già da decenni si attuano in tanti Paesi d’Europa e del mondo. Con un bipolarismo maturo che è fatto di antagonismo duro, ma mai concentrato a distruggere l’avversario, quanto piuttosto teso a costruire, per confronto, una seria alternativa ad esso, di quelli che di fronte a mali comuni, sanno trovare rimedi comuni e condivisi.
Di quelli che sono ammirati e non presi in giro, denigrati o sfottuti dal mondo. Di quelli in cui non prevale l’odio, ma la ragion pratica che porta “kantianamente” a considerare anche il più efferato criminale non sospettato o indagato, ma persino condannato, in primis, come un essere umano e quindi come un fine e mai come un mezzo.
Ecco, in tutto ciò io continuo a vedere non la fine di Berlusconi ma il “fine” Berlusconi.
Perché come ha sottolineato giustamente Vendola: “si può essere antiberlusconiani quanto si vuole ma non si può né si deve odiare Berlusconi” in quanto l’odio è solo una droga tagliata male, e la sua overdose può mandare in coma la stessa identità civile, politica e nazionale di uno Stato.
Abbiamo davvero bisogno un po’ tutti di una comunità terapeutica di recupero, che ci porti a lavorare seriamente e senza l’illusione del potere piccolo o grande che sia, e neppure del successo e del denaro, per i disoccupati, per i malati, per chi rischia la vita combattendo la mafia e la corruzione, per chi lavora in scuole ridotte a chiedere l’elemosina, per i giovani studenti, per i cassintegrati, per i disabili, per le vittime della criminalità e dell’estorsione, per gli stranieri sfruttati e ammazzati come cani se osano chiedere un tozzo di pane, per gli anziani, per i lavoratori falcidiati e tartassati..per quelli che si incatenano al posto di lavoro e per quelli che ci crepano..c’è solo l’imbarazzo della scelta e l’urgenza di rimboccarsi le maniche.
Due citazioni mi stanno a cuore in questo momento: una secondo me, richiama l’altra: la prima arcinota riecheggia una frase di Voltaire, la scrissi anche su quei siti che inneggiavano all’eliminazione fisica di Berlusconi: “mi farei ammazzare pur di non impedirgli di parlare” (anche per questo non è opportuno né necessario chiuderli), sia in un comizio, sia in piazza che in Parlamento o in un’aula di tribunale. Perché la democrazia, rappresentata soprattutto oggi dalla nostra Costituzione, va difesa hasta la muerte!
E l’altra è di Buddha: "Le parole hanno il potere di distruggere e di creare; Quando le parole sono sincere e gentili possono cambiare il mondo." A cominciare, aggiungo, da noi stessi.
Ricordiamole tutti, speriamo anche Silvio Berlusconi, a cui auguriamo sinceramente una pronta guarigione.
CF

 
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