STUDIO LEGALE AVVOCATO GELSOMINA CIMINO ROMA

STUDIO LEGALE AVVOCATO GELSOMINA CIMINO ROMA

 

Patrocinante in Corte di Cassazione e Magistrature Superiori

Lo Studio Legale Cimino vanta una specifica competenza in tema di Diritto Civile, Diritto Amministrativo e Diritto Penale.

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Il team legale, cresciuto negli anni attraverso l’inserimento di giovani Professionisti che hanno maturato progressivamente le loro capacità e esperienze, è fortemente orientato al Diritto Civile, Amministrativo e Penale, con una speciale vocazione per i reati finanziari, societari, fallimentari e tributari, nonché per i delitti contro la persona.
Lo Studio Legale guidato dall’Avvocato Gelsomina Cimino fornisce assistenza legale con l’obiettivo di consentire al cliente di acquisire piena contezza delle variabili normative che incidono sulle scelte, offrendo assistenza di primario livello, garantendo competenza, riservatezza e impegno.
Lo Studio Legale Cimino è affiancato dai migliori consulenti sul mercato, nei settori nevralgici dell’indagine tecnica e dell’investigazione difensiva. La capacità e preparazione professionale dello Studio, si combinano in una struttura nella quale l’organizzazione ed il lavoro di squadra consentono di assistere con pieno successo e soddisfazione i clienti di qualunque dimensione e nazionalità.

“L’avvocato deve saper vedere più di quanto gli venga rappresentato per cogliere aspetti che il proprio assistito cerca di nascondere o considera erroneamente irrilevanti”.

 

Lo Studio Legale Cimino è stato fondato sul principio del “successo”, affidato all’esperienza acquisita anche dai suoi collaboratori e all’attenzione da loro riservata ai particolari: una filosofia che continua a guidare lo Studio al fine di garantire ai clienti servizi professionali di eccellente qualità e risultati.
La Mission dello Studio Legale Cimino è: L’attitudine naturale non si può insegnare, né apprendere.

 “Al centro dell’impegno e della motivazione dello Studio Legale Cimino, si colloca il cliente”.

L’assistenza, la competenza, lo scrupolo e la qualità di lavoro, creano tutte le condizioni migliori per garantire il raggiungimento dei risultati. Gli obiettivi dello Studio consistono nel fornire ai propri Clienti un servizio altamente professionale, competente e personalizzato, attento alle reali esigenze del risultato migliore, rapido e dinamico, capace di affiancarli in ogni loro problematica legale per il conseguimento degli obiettivi. La costante formazione negli ambiti di competenza del Diritto, consente allo Studio di fornire soddisfazione al cliente. La gestione dello Studio è ispirata al perseguimento dell’interesse dei Clienti, ai quali vengono illustrate le problematiche ed i rischi giudiziali del caso concreto.
Instaurare con i Clienti un rapporto fiduciario caratterizzato da reciproco rispetto, apprezzamento e correttezza costituisce fine prioritario. Lo Studio Legale Cimino tende ad essere il punto di riferimento dei clienti più esigenti. L’esigenza primaria è il gradimento del Cliente, che può contare su una struttura ispirata e sempre attenta, a fornire la soluzione ricercata e condivisa.

“L’AVVOCATO DEVE ESSERE PRIMA DI TUTTO UN CUORE”

Molte professioni possono farsi con il cervello e non con il cuore; ma l’avvocato no! L’avvocato non può essere un puro logico né un ironico scettico, l’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé; assumere su di sé i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. Per questo amiamo la nostra toga; per questo vorremmo, che quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero al quale siamo affezionati, perché sappiamo che esso è servito ad asciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia.

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SCUOLA: VIA LIBERA AI MINORI DI ANNI 14

SCUOLA: VIA LIBERA AI MINORI DI ANNI 14

 

USCITA DA SCUOLA

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È la soluzione offerta in sede Parlamentare di fronte alle polemiche insorte all’indomani di una sentenza della Cassazione che aveva applicato in modo “rigido” la normativa vigente, ritenendo responsabile l’Istituto Scolastico, dell’incidente occorso ad un minore di anni 11 che aveva lasciato la scuola da solo ed era stato investito, perdendo la vita, da un autobus di linea.

Obbligo di vigilanza dunque che nel caso di minori di anni 14, secondo l’attuale assetto normativo, incombe sull’Istituto scolastico, obbligato ad affidare l’alunno solo al genitore o a persona a ciò autorizzata dagli esercenti la responsabilità genitoriale e che, grazie all’emendamento approvato al Senato – ma non ancora legge – risulterà affievolito, potendo i genitori, in questo modo, esonerare espressamente la scuola da ogni responsabilità derivante dall’uscita dell’alunno minorenne che, da solo, potrà usufruire dei mezzi pubblici di trasporto.

Libertà e autodeterminazione nell’ottica di un processo di responsabilizzazione del minore cui, si confida, corrisponderà una altrettanto accurata responsabilizzazione del genitore che, se non particolarmente accorto, potrebbe “legittimare” l’allontanamento del proprio figlio con chiunque – anche malintenzionato – non espressamente autorizzato e comunque non noto alla famiglia, sebbene, eventualmente, conosciuto dal solo ragazzo.

Il suggerimento dunque è quello di approntare comunicazioni di esonero ben delimitate, indicando esattamente le persone e le modalità, oltre i tempi, in cui l’alunno potrà allontanarsi dalla scuola.

 

Il testo dell’emendamento che è stato approvato in Senato in relazione alla legge di bilancio con il quale si permette ai genitori di autorizzare le scuole all’uscita autonoma dei minori di 14 anni:

(Disposizioni in materia di uscita dei minori di 14 anni dai locali scolastici)

  1. I genitori esercenti la responsabilità genitoriale, i tutori e i soggetti affidatari ai sensi della legge 4 maggio 1983, n. 184, dei minori di 14 anni, in considerazione dell’età di questi ultimi, del loro grado di autonomia e dello specifico contesto, nell’ambito di un processo di loro autoresponsabilizzazione, possono autorizzare le istituzioni del sistema nazionale di istruzione a consentire l’uscita autonoma dei minori di 14 anni dai locali scolastici al termine dell’orario delle lezioni. L’autorizzazione esonera il personale scolastico dalla responsabilità connessa all’adempimento dell’obbligo di vigilanza.
  2. L’autorizzazione ad usufruire in modo autonomo del servizio di trasporto scolastico, rilasciata dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale e dai tutori dei minori di 14 anni agli enti locali gestori del servizio esonera dalla responsabilità connessa all’adempimento dell’obbligo di vigilanza nella salita e discesa dal mezzo e nel tempo di sosta alla fermata utilizzata, anche al ritorno dalle attività scolastiche.»

Studio Legale Gelsomina Cimino

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GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA

GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA

“Se la Pubblica Amministrazione non adempie all’ordine del Giudice, provvede il Prefetto. Lo stabilisce il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio con Sentenza su ricorso proposto dall’Avvocato Gelsomina Cimino del Foro di Roma”.

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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex art. 74 cod. proc. amm.;

sul ricorso numero di registro generale 11551 del proposto da:

rappresentata e difesa dall’avv. Gelsomina Cimino, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Vittorio Veneto 116;

contro

Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di non costituito in giudizio;

per ottemperanza dell’ordinanza di assegnazione del Tribunale Civile di Roma del sezione civile iv bis nel procedimento esecutivo RGE 39719/

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio il dott. Ugo De Carlo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

La ricorrente è la moglie separata di xxxxx sottufficiale della Marina Militare. Nel decreto di omologa della separazione consensuale il Tribunale di Tivoli disponeva che il militare versasse mensilmente a favore del coniuge un assegno di € 350.

Avendo il xxxxx cessato dal maggio 2012 di adempiere al suo obbligo, la ricorrente procedeva ad effettuare un pignoramento presso terzi per ottenere il pagamento del suo assegno di mantenimento direttamente dall’ente pagatore del marito.

Dopo alcuni rinvìi per mancata presentazione del terzo debitore che doveva rendere la dichiarazione ex art. 547 c.p.c., il giudice dell’esecuzione assegnava le somme maturate per un importo pari a € 6.168./00

La ricorrente con il presente ricorso chiede che il giudice dia un termine perentorio per procedere al pagamento di quanto maturato ed in caso di ulteriore inottemperanza nomini un commissario ad acta.

Il Ministero della Difesa si costituiva in giudizio facendo presente che era stato comunicato con posta elettronica certificata al difensore della ricorrente in data xxx che il xxxxx era stato posto in congedo e che quanto alla gestione amministrativa passava all’IN PS a decorrere dalla camera di consiglio del xxx il ricorso passava in decisione.

Il ricorso può essere accolto solo parzialmente.

Come argomentato correttamente dalla difesa erariale, il Ministero della Difesa può essere considerato onerato come terzo pignorato solo a partire dalla notifica del pignoramento e fino alla cessazione del rapporto di impiego con il xxxxx

Si tratta di complessivi nove mesi nel corso dei quali è maturato un debito di € 3.150 che l’Amministrazione dovrà versare senza ulteriore indugio alla ricorrente.

Pertanto va ordinato al Ministero della Difesa di ottemperare all’ordinanza di assegnazione del Tribunale Civile di Roma provvedendo al pagamento di quanto ivi previsto, entro centoventi giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente decisione.

Nell’ipotesi di ulteriore inadempimento, provvederà — su richiesta di parte — nei sessanta giorni successivi, in veste di Commissario ad acta, il Prefetto di Roma o un funzionario da lui delegato, anche con le modalità di cui all’art. 14, comma 2, del decreto-legge n. 669 del 1996 (conv. dalla legge n. 30/1997), con spese a carico dell’Amministrazione inadempiente, che vengono quantificate sin da ora in €. 300 oltre le spese documentate.

In tal caso il Ministero sarà condannato, ai sensi dell’art. 114, comma 4 lett. E), c.p.a. al pagamento di ulteriori interessi legali, decorrenti dalla scadenza del termine assegnato alla P.A. per provvedere.

Le spese di lite vanno poste a carico dell’Amministrazione, e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima Bis, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in accoglimento dello stesso, ordina al Ministero della Difesa di dare esecuzione all’ordinanza di assegnazione del Tribunale Civile di Roma del xxxx   nel procedimento 39719/ secondo le modalità e nei termini indicati in motivazione.

Nomina, per il caso di ulteriore inottemperanza, quale Commissario ad acta il Prefetto di Roma (con facoltà di delega ad un funzionario), il quale provvederà, nei termini di cui in motivazione, al compimento degli atti necessari all’esecuzione del giudicato.

Condanna il Ministero della Difesa al pagamento delle spese di lite, nella misura complessiva di € 1.000,00 (mille/00), oltre agli accessori di legge, con restituzione del contributo unificato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno xxxx con l’intervento dei magistrati:

Concetta Anastasi, Presidente

Ugo De Carlo, Consigliere,

Estensore Paola Patatini, Referendario

L’ESTENSORE Ugo De Carlo

IL PRESIDENTE Concetta Anastasi

IL SEGRETARIO

USURA: LE SEZIONI UNITE BOCCIANO L’USURA SOPRAVVENUTA

USURA

LE SEZIONI UNITE BOCCIANO L’USURA SOPRAVVENUTA

Con la recente pronuncia n. 24675 a Sezioni Unite depositata lo scorso 19 ottobre la  Suprema Corte ha posto fine all’ annoso dibattito sviluppatosi  a seguito della entrata in vigore della L. 108/1996 sui tassi usurai.

http://studiolegalecimino.eu/usura-le-sezioni-unite-bocciano/

Invero la legge 7 marzo 1996, n. 108 è intervenuta, sul piano civilistico, a modificare l’art. 1815, comma 2, c.c. il quale prevede, nella sua attuale versione che “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”; il che determina una nullità parziale della clausola relativa agli interessi, mantenendo valido ed efficace il contratto.

La disposizione testè citata,  sia in dottrina che in giurisprudenza, ha sollevato molteplici dubbi interpretativi relativi, in primis, al diritto transitorio concernente la disciplina applicabile ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della Legge ed ancora in corso a tale data, ed in secondo luogo, si poneva un problema interpretativo circa i contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore della nuova normativa antiusura, il cui tasso di interesse, seppure originariamente lecito, divenisse, in seguito ad una successiva diminuzione del tasso-soglia, eccedente tale misura.

Il problema concerneva, in sostanza, fissare il momento in cui, a fronte di oscillazioni dei tassi, usurarietà potesse dirsi conclamata. Se all’atto della convenzione o all’atto del pagamento ad opera del debitore.

Secondo un primo orientamento, doveva ritenersi decisivo il momento genetico della stipulazione del contratto, essendo irrilevante il tempo successivo dell’effettiva corresponsione degli interessi. Secondo il divergente orientamento, invece, la valutazione in ordine alall’ usurarietà degli interessi doveva essere posta in essere al momento del   pagamento, ossia, nel momento funzionale ed esecutivo del contratto.

Tale ultima impostazione è quella che ha introdotto nel nostro sistema, la c.d. usurarietà sopravvenuta.

A fronte delle incertezze interpretative e dei conseguenti risvolti sul piano applicativo, è stato successivamente emanato il D. L. 29 dicembre 2000, n. 394, poi convertito, con modifiche, nella L. 28 febbraio 2001, n. 24, che introduce all’art. 1 la norma secondo la quale “ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

Nonostante la legge n. 24 del 2001 sembri negare alla radice la configurabilità di una sopravvenuta usurarietà degli interessi, valorizzando esclusivamente il momento della pattuizione degli stessi, sia in dottrina che in giurisprudenza si è affermato che, anche alla luce dell’interpretazione autentica fornita dal legislatore, sarebbe irragionevole e incongruo sostenere la debenza dell’interesse pattuito, esorbitante rispetto al sopravvenuto tasso-soglia.

Sul tema, si sono fronteggiati due orientamenti principali: un primo indirizzo, contrario all’usura sopravvenuta, e una seconda impostazione, invece favorevole a quest’ultima.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in esame, sono intervenute a dirimere tale contrasto, escludendo “in toto” il rilievo della usura sopravvenuta.

Gli Ermellini, infatti, hanno osservato che  “è privo di fondamento la tesi della illiceità della pretesa di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione, alla soglia dell’usura, superi tuttavia tale soglia al momento della sua maturazione o del pagamento degli interessi stessi

A tale conclusione, la Corte perviene, facendo applicazione dei principi sottesi alle norme applicabili in materia: il divieto dell’usura è contenuto nell’art. 644 c.p. mentre le altre disposizioni contenute nella Legge 108/96 non formulano tale divieto ma si limitano a prevedere un meccanismo di determinazione del tasso, oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurai, a mente appunto dell’art. 644 c.p. cui fa implicitamente riferimento l’art. 2 della legge citata che recita: “La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurai”, limite che è appunto fissato dall’art. 644 c.p.

Sarebbe pertanto impossibile – conclude la Cassazione – operare la qualificazione di un tasso come usuraio senza fare applicazione dell’art. 644 c.p. considerando, ai fini della sua applicazione – così come impone la norma di interpretazione autentica (D.L. 394/2000) – il momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento.

Morale: per un contratto stipulato con la Banca prima della entrata in vigore della legge sui tassi usurai, l’Istituto bancario “è autorizzato” ad applicare tassi maggiori – finanche superando il tasso usura – rispetto a quelli convenuti all’atto della stipula, senza che per ciò si possa invocare la speciale tutela prevista solo per coloro che i tassi usurai se li vedono applicare dopo l’entrata in vigore della legge.

Così è se vi piace….

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BES: BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI

BES: BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI

Alunni disabili: il diritto allo studio è sacro

La Costituzione impone agli Istituti Scolastici di adottare ogni misura atta ad assicurare l’effettività del diritto allo studio: non può essere respinto l’alunno che per difficoltà psico-attitudinali non riesce a tenere il passo degli altri compagni.

Lo stabilisce il T.A.R del Lazio con Ordinanza su ricorso proposto dall’Avvocato Gelsomina Cimino del Foro di Roma.

 

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R E P U B B L IC A I T A L I A N A

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero Reg.generale OMISSIS, proposto da – OMISSIS , in qualità di esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore, rappresentata e difesa dall’avvocato Gelsomina  Cimino

con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Vittorio Veneto, 116;

contro

Il Ministero dell’Istruzione  e dell’Università e della Ricerca, il Liceo OMISSIS-, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati in Roma via dei Portoghesi,

per l’annullamento previa sospensione dell’efficacia,

della scheda di valutazione del OMISSIS relativa al risultato finale, contenente la dichiarazione di non ammissione alla classe successiva dell’alunna, nonché del connesso verbale dcl Consiglio di Classe, recante giudizio di non ammissione, in data OMISSIS

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e del Liceo OMISSIS;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l’art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Relatrice nella camera di consiglio del giorno OMISSIS la dott.ssa Emanuela Loria e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto che il vizio della notifica dell’atto introduttivo, rilevato nell’ordinanza cautelare collegiale del Omissis risulta essere sanato dalla costituzione in giudizio dell’amministrazione;

Ritenuto altresì che l’istanza cautelare, allo stato degli atti e delle deduzioni delle parti, sia da accogliere essendo presenti sia l’elemento del danno grave e irreparabile sia quello del fumus boni iuris in relazione  alla situazione della minore, che deve pertanto essere ammessa alla classe successiva;

PQM

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis) accoglie l’istanza cautelare e, per l’effetto, ordina all’Istituto scolastico resistente di ammettere la minore alla classe successiva.

Fissa per la trattazione di merito del ricorso l’udienza pubblica del OMISSIS alle ore di rito

Compensa le spese della presente fase cautelare.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’amministrazione ed è depositata presso la segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1, 2 e 5 D.Lgs.30 giugno 2003 n. 196, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, per fìnalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, all’oscuramento delle generalità del minore, dei soggetti esercenti la patria potestà o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare il medesimo interessato riportato sulla sentenza o provvedimento.

Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del giorno Omissis con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Savoia, Presidente

Ines Simona Immacolata Pisano, Consigliere

Emanuela Loria, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE

Emanuela Loria

IL PRESIDENTE

Riccardo Savoia

 

lL SEGRETARI0

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FONDO PATRIMONIALE: OPPONIBILITA’ AI CREDITORI

FONDO PATRIMONIALE:  OPPONIBILITA’ AI CREDITORI

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 23955/17 è intervenuta nel giudizio di opposizione all’esecuzione avanzato da due coniugi, i quali affermavano, a sostegno delle proprie deduzioni, l’esistenza, su alcuni dei beni immobili pignorati dal creditore procedente, della costituzione di un fondo patrimoniale.

L’opposizione era stata rigettata sia in primo che in secondo grado, in quanto, secondo i giudici di merito non era stata raggiunta la prova circa l’opponibilità dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale che, infatti, avrebbe potuto dirsi opponibile al creditore solo laddove i coniugi avessero prodotto l’atto di matrimonio con accanto l’annotazione circa la costituzione del fondo.

Invero, in tali casi, l’opponibilità o meno della costituzione del fondo al creditore procedente dipende dall’anteriorità di tale annotazione rispetto alla data di trascrizione del pignoramento.

Nel caso in esame, tuttavia, l’atto di matrimonio non è stato prodotto né in primo grado né in sede di gravame e pertanto i giudici della Suprema Corte hanno dovuto ritenere che i giudici di merito abbiano correttamente rigettato l’opposizione perché destituita di prova.

Dall’applicazione di tale principio ne deriva necessariamente che, benché l’esibizione in giudizio dell’atto di matrimonio recante l’annotazione non sia condizione sostanziale di opponibilità dell’atto ai terzi ex art. 162 c.c, essa, tuttavia, costituisce necessario adempimento dell’onere della prova in giudizio.

Ma vi è più da considerare che gli opponenti avevano ritirato il proprio fascicolo di parte all’udienza di precisazione delle conclusioni senza ridepositarlo; sul punto la Corte ribadisce che, in virtù del principio dispositivo delle prove, il giudice è tenuto a decidere sulla base delle prove e dei documenti sottoposti al suo esame al momento della decisione.

Dacchè il mancato reperimento nel fascicolo di alcuni documenti deve presumersi espressione, in assenza della denuncia di altri eventi che sollevino l’involontarietà della mancanza, di un atto volontario della parte stessa che è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione di esso o di alcuni dei documenti ivi contenuti, cosicchè, il Giudice si pronunci solo sulla base dei documenti posti alla sua cognizione all’atto della decisione.

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LA CONDOTTA DEL PEDONE DIMINUISCE LA RESPONSABILITÀ DELL’AUTOMOBILISTA SOLO SE ASSOLUTAMENTE ECCEZIONALE

LA CONDOTTA DEL PEDONE DIMINUISCE LA RESPONSABILITÀ DELL’AUTOMOBILISTA SOLO SE ASSOLUTAMENTE ECCEZIONALE

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 45795 dello scorso 5 ottobre 2017 è tornata ad occuparsi del “ruolo” del pedone in un incidente stradale in cui si trovi coinvolto.

Il ricorso era stato proposto da un imputato condannato sia in primo grado che in appello per aver cagionato, a seguito di impatto, mentre percorreva un tratto di strada ad una velocità superiore a quella consentita, la morte del pedone in fase di attraversamento.

I motivi di impugnazione erano diversi ma, per quanto qui interessa, ci si sofferma sugli ultimi due concernenti la valutazione della percepibilità dell’auto da parte del pedone e della prevedibilità della presenza del pedone da parte del conducente.

Ebbene, gli Ermellini, richiamando un costante orientamento giurisprudenziale in merito, hanno ribadito che in tema di reati commessi con violazione di norme sulla circolazione stradale, il comportamento colposo del pedone investito dal conducente di un veicolo costituisce mera concausa dell’evento lesivo, che non esclude la responsabilità del conducente.

Unica eccezione, potrebbe essere l’ipotesi in cui la condotta del pedone sia da sola sufficiente a determinare l’evento, come nel caso in cui, essa risulti del tutto eccezionale, atipica, non prevista nè prevedibile, cioè quando il conducente si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone ed osservarne per tempo i movimenti, che risultino attuati in modo rapido, inatteso ed imprevedibile (cfr. Sez. 4 n. 23309 del 29/04/2011, Rv. 250695).

In linea con tale orientamento, la Cassazione ha altresì affermato che il principio di affidamento trova un temperamento nell’opposto principio secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purchè questo rientri nel limite della prevedibilità.

Peraltro, esiste, con riferimento all’ambito della circolazione stradale, una tendenza ad escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento sull’altrui correttezza.

In tal senso vanno lette, ad esempio, le pronunce in cui si è affermato che, poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza (vds art. 141 cds), proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente.

Coerentemente con tale assunto, è stata perciò, ad esempio, confermata l’affermazione di responsabilità in un caso in cui la ricorrente aveva dedotto che, giunta con l’auto in prossimità dell’incrocio a velocità moderata e, comunque, nei limiti della norma e della segnaletica, aveva confidato che l’autista del mezzo che sopraggiungeva arrestasse la sua corsa in ossequio all’obbligo di concedere la precedenza (cfr. Sez. 4, n. 4257 del 28/3/1996, Lado, Rv. 204451).

E, ancora, sulle medesime basi si è affermato, che anche nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, l’automobilista deve accertarsi della eventuale presenza, anche colpevole, di pedoni che si attardino nell’attraversamento in quanto il conducente favorito dal diritto di precedenza deve comunque non abusarne, non trattandosi di un diritto assoluto e tale da consentire una condotta di guida negligente e pericolosa per gli altri utenti della strada, anche se eventualmente in colpa (Sez. 4, n. 12879 del 18/10/2000, Cerato, Rv. 218473); e che l’obbligo di calcolare le altrui condotte inappropriate deve giungere sino a prevedere che il veicolo che procede in senso contrario possa improvvisamente abbagliare, e che quindi occorre procedere alla strettissima destra in modo da essere in grado, se necessario, di fermarsi immediatamente (Sez. 4, n. 8359 del 19/6/1987, Chini, Rv. 176415).

Nel caso in esame, dunque, la Suprema Corte, ha confermato la conclusione dei giudici di merito (in base alla quale doveva ritenersi del tutto ragionevole, nel caso di specie, la prevedibilità dell’attraversamento del pedone), da ritenersi allineata ai principi sopra richiamati, poichè pienamente supportata dai dati fattuali esposti nella sentenza ed oggettivamente riscontrabili, in base ai quali le caratteristiche del caso concreto (tratto di strada curvilineo, percorso sulla corsia con raggio più ristretto e in orario notturno), imponevano all’agente di contenere la velocità anche al di sotto del limite previsto, peraltro ampiamente superato, per come dimostrato dalle risultanze istruttorie.

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NEGATO IL MANTENIMENTO AL FIGLIO MAGGIORENNE CHE NON HA VOGLIA DI LAVORARE

Con la sentenza n. 21615 del 19 settembre scorso, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avanzato da un ragazzo, ormai maggiorenne, nei confronti del padre adottivo finalizzato ad ottenere un assegno di mantenimento sulla base di una asserita difficoltà economica.

La Cassazione, infatti, non solo ha confermato l’esattezza della decisione emessa dalla Corte d’Appello, ma ha aggiunto che la ricostruzione dei fatti porta a negare categoricamente il diritto del figlio ad ottenere una somma a titolo di mantenimento da parte del padre.

Richiamando l’oramai noto principio giurisprudenziale secondo cui l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte della prole, ma perdura fino a quando il genitore obbligato non dimostri che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, oppure quando fornisca la prova di avere posto il figlio nelle concrete condizioni di potere essere economicamente autosufficiente, ma questi non ne abbia tratto profitto utile per sua colpa o per sua scelta, la Suprema Corte ha negato il riconoscimento del diritto al mantenimento sulla base delle circostanze secondo le quali il padre del ragazzo aveva profuso significativi sforzi economici per permettere al figlio di intraprendere la propria attività lavorativa, così come, d’altronde, aveva provveduto al pagamento delle rette di una scuola privata presso la quale il figlio non aveva sostenuto gli esami previsti ed è emerso che il ragazzo aveva abbandonato la casa familiare nonostante i tentativi del genitore di favorire la ricostruzione del rapporto.

Va dunque riconosciuta assoluta coerenza a tale ultima sentenza, con l’orientamento maggioritario  affermatosi in tema di mantenimento della prole maggiorenne.

L’assoluta infondatezza dell’azione promossa dal ragazzo, ha infine condotto la Suprema Corte a revocare la precedente ammissione al gratuito patrocinio e a condannare il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Subire il #plagio della #prova scritta agli #esami

Subire il plagio della prova scritta agli esami non comporta l’automatica esclusione

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La recente sentenza emessa dal TAR Campania n. 4348 del 12 SETTEMBRE scorso, si è soffermata sul concetto di “plagio” degli elaborati che costituiscono prova di esame in una procedura concorsuale. In particolare la sentenza de qua è intervenuta sul ricorso di una candidata all’esame di abilitazione alla professione forense la quale, pur avendo conseguito una votazione complessiva nei tre elaborati di cui si compone la prova scritta, superiore alla sufficienza, si è vista escludere dall’elenco degli ammessi alla prova orale poiché la commissione esaminatrice aveva rilevato, confrontando l’elaborato della ricorrente e quello redatto da un altro candidato ampi “passi del tutto identici”.

Il ricorso veniva fondato sulla circostanza per cui i due elaborati, pur presentando significativi tratti in comune, si differenziavano sul piano sostanziale; mentre, infatti, l’elaborato della ricorrente risultava scritto in modo assolutamente corretto, quello dell’altro candidato, presentava molteplici errori, ortografici, grammaticali, lessicali e sintattici, nonché di trascrizione dell’art. 41 c.p. tale da far risultare palese come il redattore dello stesso, non avesse piena consapevolezza di quanto scritto.

Nel merito la ricorrente contestava l’omessa valutazione, da parte della sottocommissione nominata a correggere detti elaborati, degli elementi idonei a individuare le rispettive posizioni di plagiante e di plagiato tra i due candidati coinvolti nonché l’errata applicazione dei criteri previsti dalla legge ed applicabili alla casistica in esame.

Ed invero, l’art. 23 R.D. 37/1934 prevede che La commissione, nel caso in cui accerti che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro lavoro o da qualche pubblicazione, annulla la prova. Deve pure essere annullato l’esame dei candidati che comunque si siano fatti riconoscere; tale statuizione ha incontrato, tuttavia, un’applicazione temperata, in ragione dell’introduzione, nelle ultime sessioni, di un canone integrativo dettato dalla Commissione Centrale presso il Ministero della Giustizia, la quale ha costantemente disposto “che nel caso in cui le Sottocommissioni, in sede di correzione, in sede di valutazione degli elaborati scritti, rilevino la presenza di elaborati uguali per forma e sostanza, si proceda all’annullamento delle prove con conseguente giudizio di inidoneità di tutti i candidati per i quali si sia rilevata la predetta anomalia: se però la Sottocommissione riuscisse ad individuare il candidato plagiante, dovrà procedere alla esclusione solo di quest’ultimo“.

Il canone operativo, nel disporre che la sanzione della esclusione debba essere irrogata nei riguardi del solo plagiante, risulta diretto ad imporre alla Commissione di operare le opportune valutazioni in tal senso, al precipuo scopo di non penalizzare quei candidati che abbiano dimostrato, attraverso una propria autonoma elaborazione, di possedere i requisiti utili  pet l’accesso alle successive fasi della procedura abilitativa, in difetto di una prova atta a dimostrare che il plagio sia avvenuto con il loro consenso.

Il ricorso, già accolto in sede cautelare e poi riformato dal Consiglio di Stato chiamato a decidere sull’appello cautelare, è stato accolto nel merito dal TAR Campania in considerazione, oltre che della verosimile non paternità in capo al suo estensore del secondo elaborato (data l’assenza di nesso logico fra molte delle frasi di cui si compone), anche per il fatto che l’Amministrazione resistente non ha fornito alcun elemento probatorio utile ad indirizzare il Collegio nel senso di ammettere che la Commissione esaminatrice abbia eseguito quelle valutazioni che in sede di applicazione della normativa applicabile, sono state via via dettate dalla Commissione Centrale: il che avrebbe senz’altro dovuto indurre gli esaminatori a ritenere che il plagio era stato commesso solo da uno dei due candidati ai danni dell’altro che invece non aveva – vista l’assenza di prova contraria – dato alcun assenso alla copiatura.

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#GARANZIE DEL #CONSUMATORE

“Garanzie del Consumatore” solo per prestazioni connesse alla #vendita

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Con la Sentenza C-247/16 resa lo scorso 07.09.2017 la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata sulla domanda pregiudiziale sollevata dal Tribunale del Land di Hannover nell’ambito di una controversia tra privati vertente su spese asseritamente sostenute dalla ricorrente per porre rimedio a vizi di un’opera.

In particolare, il Tribunale tedesco si è rivolto alla Corte Europea affinchè venisse chiarito se “l’articolo 3, paragrafo 5, secondo trattino della direttiva 1999/44 (in materia di vendita e garanzie concernenti i beni di consumo, cui si è data attuazione in Italia mediante il D. Lgs n. 24/2002) debba essere interpretato nel senso che, in base a un principio di diritto dell’Unione, in materia di tutela dei consumatori, affinchè un consumatore che ha stipulato con un venditore un contratto relativo a un bene di consumo, possa far valere i suoi diritti di garanzia secondari, sia sufficiente che tale venditore non abbia posto rimedio entro u termine ragionevole, senza che sia necessaria la fissazione, da parte del consumatore, di un termine per l’eliminazione del vizio della cosa

L’ambito di indagine sottoposto all’attenzione della Corte investe dunque la definizione di “contratto di vendita” così come riportato nella citata direttiva e in quella n. 85/374 CEE capisaldo del Codice del Consumo adottato in Italia con D. Lgs n. 206/2005.

La Corte precisa dunque che la nozione “contratto di vendita” contenuta nella direttiva 1999/44 è riferita alle vendite concluse tra venditore professionista e acquirente consumatore e che essa, in considerazione del fatto che la direttiva non contiene alcun rinvio al diritto nazionale, deve intendersi come “limitata” all’ambito di applicazione della direttiva medesima, si da costituire una nozione valevole su tutto il territorio dell’Unione a prescindere dal significato che può assumere nei singoli paesi in base al diritto interno: Ne risulta pertanto che essa deve essere considerata, ai fini dell’applicazione della direttiva, come volta a designare una nozione autonoma del diritto dell’Unione, che deve essere interpretata in modo uniforme sul territorio di quest’ultima

Fatta questa premessa, la Corte si sofferma sui contratti cui, in base al diritto nazionale, deve estendersi la nozione di “vendita”, come i contratti di fornitura di servizi o i contratti d’opera.

Sono così da considerare contratti di vendita anche i contratti di fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre: dacchè, ai sensi dell’art. 1, par. 4 della direttiva, il contratto avente ad oggetto la vendita di un bene che deve essere dapprima fabbricato o prodotto dal venditore, rientra nel campo di applicazione della direttiva in parola.

Esempio tipico è l’installazione: se questa presenta dei difetti, potrà essere invocata la speciale tutela consumeristica, solo laddove l’installazione costituisca un servizio connesso alla vendita del medesimo bene.

Cosicchè, in generale si può affermare che la prestazione di servizi rientra nell’ambito di applicazione della speciale tutela prevista dalla direttiva, solo laddove, la prestazione di servizi si pone come accessoria alla vendita.

Chi scrive, si è già trovato ad affrontare in sede giurisdizionale e segnatamente dinnanzi al Consiglio di Stato la delicata questione qui affrontata.

Il caso traeva origine dall’applicazione, ad opera dell’Antitrust di una sanzione a carico di una società per una pratica commerciale scorretta, dovendo trovare applicazione, in questo caso, la normativa dettata in materia di vendita e prestazione di servizi nei confronti dei consumatori.

La difesa apprestata dallo Studio poggiava sulla considerazione per cui al caso di specie non poteva applicarsi la speciale tutela invocata, in considerazione del fatto che la nozione di “vendita” così come recepita dal nostro Ordinamento e risultante dalle direttive comunitarie attuate, non fosse calzante con il particolare servizio reso dalla società sanzionata.

Il Consiglio di Stato con Ordinanza consultabile dal nostro sito (http://studiolegalecimino.eu/wp-content/downloads/sentenza_1_diritto_amministrativo.pdf) ha infatti ritenuto che la speciale normativa dettata per i consumatori, non poteva essere invocata nel caso di specie.

In conclusione, sulla base della decisione della Corte di Giustizia qui commentata, il consumatore può invocare la tutela prevista dalla speciale disciplina introdotta dalla legislazione comunitaria, solo laddove alla base della prestazione (di servizi o attività) ritenuta produttiva di effetti negativi (causa), vi sia un contratto di vendita concluso con il medesimo “professionista” che ha eseguito la prestazione “dannosa”.

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