Lettera a babbo natale

Caro babbo natale

So che sono un po’ fuori stagione e che di solito chi ti scrive è per chiederti regali per se o per i cari.

Io invece voglio parlarti un po’ di me.

Non so come mi sentirò alla fine di questa lettera, ma ho bisogno di mettere un po’ di ordine nei miei pensieri e scrivendola a te mi viene più facile esprimermi.

Come sai conduco una vita piuttosto solitaria. In realtà non sembrerebbe, all’apparenza. Nella mia quotidianità ci sono persone che si avvicendano, a lavoro e a Nordic essenzialmente.

Negli ultimi anni, dopo l’ennesimo trasferimento, avevo forse delle aspettative. Niente di che. E’ normale averne quando si affronta un cambiamento.

Ma tirando le somme posso dire di aver collezionato una lunga serie di comparse nel mio vissuto e diventa sempre più faticoso ricordarne i nomi e le facce, tanto sono fugaci le loro apparizioni.

Di contro invece ci sono i grandi assenti, quelli che fanno parte della famiglia anagrafica, quella che non ci scegliamo ma ci è toccata in sorte.
I capisaldi della propria esistenza, ma che invece hanno  smesso di farne parte, da un po’.
Si continua ad averne la percezione, la consapevolezza, ma di fatto cessano di far parte del nostro quotidiano, per un motivo o per l’altro.
Con alcuni di loro si riesce a mantenere i contatti, con altri, a dispetto dei tanti e sempre più sofisticati mezzi di comunicazione, si arranca con pochi scambi di parole, ridotti all’osso fino a scomparire quasi del tutto.

E malgrado l’idea di queste presenze continui ad esserci, diventa difficile tener vivo un vero rapporto fisico e affettivo, cosa che in un passato sempre più distante era nell’ordine delle cose.
Così entra in gioco la “regola del primo passo”. Ho visto di recente un bel film che mi ha fatto riflettere su questa regola non scritta:
“Il mondo è pieno di persone sole che hanno paura di fare il primo passo”.
Mi sono riconosciuta in questo. Mi sono immedesimata nella persona sola che si aspetta che gli altri si ricordino di lei, facendosi vivi in qualche modo.
In realtà quel primo passo ritengo di averlo fatto più di una volta. Col tempo l’assenza di riscontri mi ha scoraggiato, fino a farmi desistere dal cercare questo contatto che mi verrebbe naturale continuare ad avere. Subentra l’orgoglio di pensare “Se loro possono fare a meno di avere mie notizie perché mai dovrei essere io a chiedere le loro?”

I social media ci fanno avere l’illusione del contatto. Quanto meno so che sono vivo, mentre sbircio la tua esistenza facendomi magari un’idea sbagliata.
Del resto i più sui social mettono solo il “bello” delle loro vite, lasciando da parte i contenuti peggiori e meno gradevoli a chi legge, allo scopo di risultare più ‘simpatici’.

Ed ecco che anch’io cado nel tranello, nella bugia di credere che ‘a loro va tutto bene ed io invece continuo nella mia esistenza pateticamente solitaria”.

Così le distanze aumentano, i silenzi dilagano e la realtà delle cose lascia il posto ai pensieri ingannevoli.

Ho detto più volte a me stessa che un sms ogni tanto tiene vivo un filo invisibile e fa capire all’altro che lo stai pensando. Ma è anche vero che a volte l’entità del peso che si ha sul cuore non si può’  trasmettere in pochi caratteri e allora si preferisce tacere, anche se magari il desiderio di condividere ci sarebbe.
E così quel primo passo non si fa e dopo un po’ i passi da fare per colmare le distanze diventano davvero troppi, e noi, sempre più stanchi, ci rintaniamo nelle nostre convinzioni che l’altro, dopotutto, non si preoccupa di noi e del nostro destino.

Si arriva così a detestare anche quegli auguri e quei saluti in occasione delle feste comandate. Senza pensare che quelle occasioni ci danno il coraggio o la scusa di farci vivi, un pretesto per battere il classico colpo, in attesa o nella speranza che quel ‘primo passo’ non tardi ad arrivare.
Invece le feste passano, anno dopo anno, e le distanze aumentano fino diventare incolmabili.

La nostra vita fatta di comparse va avanti, i volti si affastellano e i nomi sono sempre più difficili da ricordare.

C’era una volta una famiglia unita, di quelle tradizionali, con baci e abbracci, auguri e regali, fatta di visite ricorrenti, grandi pranzi affollati, chiacchiere in cucina e in salotto, con la tv accesa a contendersi la poltrona più comoda.

Poi, chissà perché, nessuno ha più voluto fare quel primo passo e tutto si è perso.

Chi avrà sbagliato? Oppure bisogna pensare che è semplicemente la vita, che tutto consuma e tutto sfinisce.
La vita! Questa entità astratta a cui tutti attribuiamo responsabilità che sono solo nostre, per cavarci d’impiccio.

Caro babbo natale. Come vedi tutto questo non si poteva dire in un paio di sms.

Chissà se è così anche per gli altri.

Chissà se siamo davvero destinati a risentirci solo per i funerali, dato che i matrimoni e le nascite non sono più tanto importanti da farci rompere il silenzio.

So che non è natale, ma un regalo voglio chiedertelo lo stesso. Fammi vincere il pregiudizio e quella vocina malevola che mi dice di starmene sulle mie, che tanto a nessuno importa che fine faccio, che ognuno ha le proprie croci e non vuole creare fastidi condividendole con gli altri, che già hanno le loro.
Ma così facendo si creano muri e si chiudono porte.
E siamo sempre più soli.
Anche quando sorridiamo in foto e vogliamo far credere che, nonostante tutto, ce la stiamo cavando.

Fare i conti

Quando si ha troppo tempo per pensare, soprattutto varcata da tempo la soglia dei 50, si cominciano a fare i conti.
Sono ormai ben oltre il ‘mezzo del cammin di nostra vita’ e, a parte considerare che la nera signora è sempre in agguato e che la verde età non sempre la tiene a distanza, è inevitabile riconoscere che il cammino che ho ancora da percorrere, se la salute continuerà ad assistermi, è davvero poco.
Poco in rapporto a quello già percorso.

Altro che …  “spero che la tal stagione finisca così poi arriva quella che preferisco”! Le stagioni che mancano al tramonto, belle o brutte che siano, sono davvero poche. 

E intanto penso a parenti e conoscenti over 70 o addirittura 80, le cui stagioni sono computabili con l’uso di una sola mano.
Mi chiedo come vivono questa consapevolezza? ci pensano di continuo? hanno paura? rammarico? O semplicemente inanellano un giorno dopo l’altro senza porsi tante domande?

Ed io, perché me lo sto chiedendo?
Ha forse a che fare con la qualità del mio tempo, non proprio eccelsa?

 

 

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