Le origini del fiordaliso sono antichissime, alcuni fossili di questo fiore risalgono al neolitico. E’ soprannominato “erba degli incantesimi”.
Una leggenda racconta che la dea Flora, avendo ritrovato morto in un campo pieno di fiordalisi il corpo dell’amato Cyanus, volle chiamare quei fiori proprio con il suo nome. Il nome scientifico è, infatti, Centaurea cyanus. Centaurea deriva dal nome del centauro Chirone che, ferito al piede da una freccia avvelenata, si curò con il succo del fiore.
In Oriente, gli innamorati lo regalano all’amata nella speranza di ottenere la felicità da lei.
Nel linguaggio dei fiori significa felicità e leggerezza.
Messaggi di Febbraio 2014
Post n°704 pubblicato il 01 Febbraio 2014 da Fajr
... come una farfalla appuntata viva in un album. Nell'ambito della sofferenza la sventura è una cosa a parte, specifica, irriducibile. E' ben diversa dalla semplice sofferenza. Si impadronisce dell'anima e le imprime fino in fondo il suo proprio marchio, quello della schiavitù. La sventura è uno sradicamento dalla vita, un equivalente più o meno attenuato della morte. Il pensiero fugge la sventura con la stessa prontezza e irruenza con cui un animale fugge la morte. Quando il pensiero è costretto dall'impatto con il dolore fisico, anche se lieve, ad ammettere la presenza della sventura, insorge uno stato di violenza simile a quello di un condannato a morte costretto a guardare per ore e ore la ghigliottina che lo decapiterà. Alcuni essere umani possono vivere venti o cinquant'anni in questo stato. C'è vera sventura solo quando l'avvenimento che ha afferrato una vita l'ha sradicata, l'ha colpita direttamente o indirettamente in tutti i suoi aspetti: sociale, psicologico, fisico. Il fattore sociale è essenziale. Non c'è vera sventura là dove non si verifichi, in qualsiasi forma, una decadenza sociale o l'apprensione di una simile decadenza. Nel migliore dei casi, chi è segnato dal suo marchio non serberà che metà della propria anima. Coloro che hanno ricevuto uno di quei colpi che lasciano l'essere umano a terra, a contorcersi come un verme mezzo schiacciato, non hanno parole per esprimere quel che capita loro. Fra le persone che incontrano, quelli che, pur avendo sofferto molto, non hanno mai avuto contatto con la sventura propriamente detta non hanno idea di che cosa sia. E coloro che sono stati a loro volta mutilati dalla sventura non possono prestare soccorso a nessuno, e sono quasi incapaci di desiderarlo. Una sorta di orrore sommerge tutta l'anima. Durante questa assenza non c'è nulla da amare. D'altra parte, in un'epoca come la nostra, in cui la sventura pende sopra la testa di tutti, il soccorso prestato alle anime è efficace soltanto se si spinge fino a prepararle realmente alla sventura. E non è cosa da poco. In uno sventurato il disprezzo, la repulsione, l'odio si ritorcono contro lui stesso, penetrano al centro della sua anima, e da lì colorano con la propria tinta avvelenata l'intero universo. Ogni innocente sventurato si sente maledetto. Un altro effetto della sventura è quello di rendere l'anima sua complice a poco a poco, iniettandole il veleno dell'inerzia. In chiunque sia stato a lungo sventurato si insedia una complicità con la sventura. E questa complicità intralcia ogni sforzo che egli potrebbe compiere per migliorare la propria sorte, giunge persino ad impedirgli la ricerca dei possibili mezzi per essere liberato, e qualche volta il desiderio stesso della liberazione. Avviene pertanto che lo sventurato si adagi nella propria sventura, sicchè gli altri avranno l'impressione che sia soddisfatto. La sventura è un dispositivo semplice e ingegnoso che riesce a infliggere nell'anima di una creatura finita quell'immensa forza cieca, bruta e fredda. L'uomo a cui accada una cosa simile non ha parte alcuna nell'operazione. Si dibatte come una farfalla appuntata viva in un album. Simon Weil, L'amore di Dio e la sventura, in 'Attesa di Dio' (1942) |
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