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Messaggi di Novembre 2018

Mario Draghi difende l’indipendenza della Bce. Ma è davvero così?

Post n°4337 pubblicato il 06 Novembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano  Zonaeuro | 3 novembre 2018 

 

“L’indipendenza di una banca centrale è essenziale”, ha affermato recentemente il presidente della Bce, Mario Draghi. “Se le banche centrali fossero meno indipendenti, e il pubblico percepisse che la politica monetaria può essere condizionata in una direzione o nell’altra, ciò alla fine destabilizzerebbe le aspettative d’inflazione e minaccerebbe la stabilità dei prezzi, proprio come negli anni 70″.

Draghi si riferisce indirettamente agli attacchi che il presidente statunitense Donald Trump ha sferrato contro la Fed, la banca centrale americana, per avere deciso di alzare il tasso di interesse, cioè di aumentare il prezzo del dollaro (manovra questa che ha provocato un brusco calo della borsa di Wall Street). Tuttavia, al di là della legittima (e scontata) difesa d’ufficio dell’indipendenza della sua istituzione, Draghi sbaglia. E non solo perché l’inflazione ormai da molti anni non è più il pericolo principale dell’economia. La minaccia che grava sull’eurozona è infatti quella ben più grave della deflazione, cioè del ristagno dell’economia e della conseguente disoccupazione.

Il cuore del problema è però un altro: la Bce indipendente ha il monopolio della moneta, ma la crea solo a favore delle banche e non degli Stati. Le banche d’affari nazionali e internazionali e gli altri operatori finanziari – fondi di investimento, fondi speculativi, fondi pensione, assicurazioni, fondi sovrani, ecc – diventano così i “padroni della moneta” e gli Stati – che pure con le loro tasse sono i garanti ultimi del valore della moneta e sono formalmente “sovrani” – sono costretti a diventare servi dei mercati per ottenere i soldi necessari per finanziare scuole, ospedali, ricerca, sicurezza, giustizia, pensioni, ponti e strade, ecc. Senza una banca centrale prestatrice di ultima istanza, gli Stati sono in balia dei mercati finanziari. I mercati però non sono enti di beneficenza: prestano soldi dietro lauti interessi svuotando le casse dello Stato. Non a caso, da quando c’è stato il divorzio tra il Tesoro e Bankitalia, tra il 1980 ed il 2014, l’Italia ha pagato ai creditori interessi per 3.450 miliardi di euro (parametrati al 2014), una somma di proporzioni enormi (vedi Scenari economici). E questo non è comunque bastato perché il debito è continuato ad aumentare.

Torniamo al presente: attualmente il governo giallo-verde di Giuseppe Conte avrebbe in teoria tutti i mezzi per realizzare il suo programma. Infatti il bilancio della pubblica amministrazione registra un avanzo primario (entrate meno uscite al netto degli interessi) consistente, pari al 2% circa del Pil, cioè a circa 20-30 miliardi: ovvero i cittadini pagano in tasse 20-30 miliardi in più di quanto ricevono, cioè di quanto lo Stato spende in scuole, ospedali, pensioni, sicurezza, servizi pubblici, ecc. Da 26 anni – con l’eccezione di due soli anni – l’Italia registra un surplus di bilancio primario: questo però non è bastato per pagare tutti gli interessi sul debito. Quindi lo Stato italiano ogni anno è costretto a fare altro deficit – circa 30 miliardi all’anno – non per ripagare il suo debito ma solamente per pagare agli investitori finanziari gli interessi sul debito pregresso. Così il debito pubblico continua ad aumentare. E’ una spirale perversa alimentata dai crescenti tassi di interesse (i più alti in Europa dopo quelli della Grecia) applicati all’Italia dai giganti della finanza. Lo Stato italiano è in deficit solo perché deve pagare gli interessi crescenti ai creditori senza essere coperto da una banca centrale pronta a monetizzare il suo debito – ovvero a stampare denaro a favore dello Stato come fa per le banche.

La Bce, nata a Maastricht sul modello della Bundesbank tedesca, è poi, rispetto alle altre banche centrali, quella più restrittiva. La Bce negli ultimi anni ha salvato le banche dell’eurozona finanziandole per migliaia di miliardi di euro ma – a differenza per esempio della Fed, della Bank of England, della Bank of Japan – non può coprire i debiti degli Stati, neanche quando i debiti pubblici sono necessari per rilanciare l’economia e l’occupazione e uscire dalla crisi. La Bce “indipendente” non può soccorrere neppure temporaneamente gli Stati indebitati ma solvibili (come l’Italia) anche se sono colpiti dalla speculazione, ed è anche l’unica banca centrale al mondo che non può farlo.

Da questo punto di vista sono pienamente giustificate le richieste di Paolo Savona, il ministro per i rapporti con l’Unione Europea, per il quale la Bce dovrebbe potere intervenire in caso di attacco speculativo (come fanno tutte le altre banche centrali).

Dal momento che gli Stati dell’eurozona non hanno lo scudo della Bce, essi costituiscono una facile e ricca preda per la speculazione. Da qui la crescente divaricazione tra Stati creditori e Stati debitori, e la possibile rottura dell’eurozona. Dal mio punto di vista, una moneta non sostenuta dalla Banca Centrale di emissione è infatti strutturalmente fragile, pronta a sciogliersi al primo accenno di crisi monetaria.

Il problema è che le banche centrali sono (apparentemente) indipendenti dai governi ma sono invece troppo dipendenti dalle banche che dovrebbero regolamentare. Tuttavia quando le banche precipitano nella crisi per le loro speculazioni finanziarie, sono gli stati a salvarle con i soldi dei contribuenti. I debiti delle banche diventano debito dello Stato. L’indipendenza della banca centrale diventa allora formale. Inoltre troppo spesso le banche centrali fanno politica. Basti ricordare il contenuto della lettera inviata dalla Bce al governo italiano nel 2011 e firmata dall’ex presidente Trichet e da Mario Draghi: la Bce imponeva di modificare la Costituzione per raggiungere il pareggio di bilancio, di liberalizzare il mercato del lavoro e di privatizzare tutto ciò che era possibile privatizzare. La Bce ha dettato ai governi le nefaste politiche liberiste che hanno devastato e impoverito il nostro paese.

In conclusione: la moneta è un bene comune troppo importante per essere lasciato esclusivamente nelle mani dei banchieri. Il Parlamento dovrebbe avere la possibilità di decidere le linee guida delle politiche monetarie e creditizie. La Banca Centrale dovrebbe godere di autonomia operativa ma non di indipendenza assoluta. Lo Stato democratico dovrebbe ritornare ad avere almeno in parte una sua potestà monetaria; nel quadro dell’Eurozona, l’unica maniera possibile è di emettere dei titoli fiscali quasi-moneta che funzionino da moneta complementare all’euro.

Zonaeuro | 3 novembre 2018

 

 

 
 
 

Crisi euro, “perché l’Italia non è la Grecia”

Post n°4336 pubblicato il 05 Novembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 5 novembre 2018, di Alberto Battaglia

 

“Non vorrei che dopo aver superato la crisi greca ricadessimo nella stessa crisi con l’Italia”: così affermava a inizio ottobre il presidente della Commission europea, Jean-Claude Juncker, suscitando aspre critiche da parte di Matteo Salvini (con la battuta “parlo con persone sobrie”). E’ possibile che la crisi fra Italia e Ue possa portare a conseguenze analoghe a quelle sperimentate da Atene?
Per rispondere a questa domanda è necessario fare un passo indietro e domandarsi quali siano le rispettive cause della crisi e le relative situazioni di partenza. Ha cercato di compiere questo esercizio Martin Hüfner, ex capo economista di Hvb (banca tedesca del gruppo Unicredit). Secondo Hüfner, non è vero, come affermato dall’economista Carmen Reinhart, che un’eventuale crisi in Italia farebbe sembrare la Grecia “roba da bambini”, in quanto “alcune cose sono peggiori, altre migliori, altre semplicemente differenti”.

  • La grandezza del Pil. E’ noto come la rilevanza dell’economia italiana, la terza in Europa, sia di gran lunga superiore a quella greca, il cui prodotto interno lordo è otto volte inferiore. Questo, in un senso o nell’altro, rende la questione più importante.
  • L’accesso al mercato dei capitali. “I greci avevano bisogno di soldi al momento dell’inizio della loro crisi”, ha precisato l’economista su The Globalist, “i prestiti erano in scadenza e non avrebbero potuto aumentare ulteriormente il debito sul mercato dei capitali. L’Italia non ha (ancora) alcuna difficoltà a rifinanziare il proprio debito”. Questo appare come uno dei punti chiave per interpretare la situazione: il deficit proposto dal governo italiano è superiore a quello precedentemente concordato, ma non sarebbe un problema di finanza pubblica in senso stretto. “Il problema di Roma non riguarda i soldi, ma l’osservanza delle regole dell’unione monetaria” scrive l’economista tedesco, per cui per Atene il percorso di aggiustamento pilotato dai creditori internazionali fu una condizione necessaria. In Italia tali misure “sembrano comunque necessarie per risolvere i veri problemi del Paese”.
  • La struttura del debito pubblico. La rilevanza di un default greco è stata particolarmente sentita fuori dai confini ellenici anche perché l’80% di tale debito era detenuto all’estero. La situazione italiana, al contrario vede tale quota ridotta a circa il 30% e “ciò rende la soluzione più facile in molti modi”, ha scritto Hüfner.

Queste differenze sono sufficienti per affermare che i casi di Grecia e Italia “abbiano poco in comune”. Tuttavia, molti interrogativi restano in attesa di risposta. In particolare, sarà opportuno chiarire se e in che modo i trattati europei possano essere modificati nella direzione sollecitata da Roma, e con quali supporti fra gli altri stati membri. “Ma anche se si trovasse una soluzione per questo, rimane il problema dei crescenti tassi d’interesse in Italia”, ha aggiunto l’economista, “sono ancora sopportabili al livello attuale del 3,5%, ma le cose sarebbero diverse una volta raggiunto un livello del 4,5%”, ha concluso Hüfner evocando in questo caso la necessità di concordare, come avvenuto in Grecia, un piano di aiuti finanziari condizionati a riforme di austerità. Ma il governo italiano, almeno per ora, è nella posizione di poter evitare questo tipo di risultato.

 

 
 
 

Video anti Salvini: 277 miliardi di motivi per cui la Francia teme l’Italia

Post n°4335 pubblicato il 02 Novembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 2 novembre 2018, di Daniele Chicca

 

Un video pubblicato dal governo francese per responsabilizzare il popolo francese in vista delle elezioni europee e invitarlo ad andare a votare contro i partiti di Viktor Orban e di Matteo Salvini ha sollevato un polverone. A sette mesi dalle elezioni del 26 maggio 2019 Macron ha lanciato una campagna filo europeista che potrebbe rivelarsi però un boomerang.

In sottofondo si sente una musica allarmista, senza commento. Il video (vedi sotto) in cui si evocano le questioni calde e le tante sfide in gioco, tra cui immigrazione, lavoro e clima, suscita più di un dubbio sugli effetti che controproducenti che potrebbe avere.

Il clip, in cui si vedono le immagini del ministro dell’Interno italiano e del primo ministro ungherese, due personaggi considerati come tra i principali protagonisti dell’onda nazionalista e di chiusura delle frontiere e del commercio, è nettamente schierato contro le formazioni populiste.

Francia, banche troppo esposte all’Italia

Come con la Grecia durante l’ultima crisi del debito sovrano, le banche della Francia sono ampiamente esposte anche al sistema Italia. Si parla di €277 miliardi di debito governativo italiano in mano alle banche, l’equivalente del 14% del Pil.

Tenuto conto che il governo italiano ha lanciato il guanto di sfida alla Commissione Europea e alla Bce sui conti pubblici, il 2019 potrebbero voler dire guai seri per la Francia.

Il ministro francese delle Finanze Bruno Le Maire ha esortato l’organo esecutivo dell’Ue – che ha bocciato la manovra finanziaria italiana per il 2019, di convincere l’Italia a fare un passo indietro. Anche se non si rischia un effetto contagio, secondo Le Maire, l’area euro “non ha le armi necessarie per difendersi da una nuova crisi economica o finanziaria”.

Il governo francese è consapevole del fatto che una crisi in Italia metterebbe in ginocchio anche l’economia della Francia, con le banche che rappresenterebbero il veicolo di trasmissione principale del contagio. Parigi non è la sola nazione con livelli di esposizione preoccupanti al debito italiano, ma è il paese più esposto di tutti.

Secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, la banca delle banche centrali, gli istituti di credito tedeschi hanno in mano 79 miliardi di euro di debito italiano, mentre le controparti spagnole 69 miliardi. Sono cifre significative ma decisamente inferiori a quelle delle banche francesi. Nei bilanci dei settori finanziari della prima, seconda e quarta potenza economica d’Eurozona sono iscritti 415 miliardi di debito italiano.

Mentre l’esposizione del sistema bancario tedesco è calata negli ultimi anni, quella della Francia è cresciuta. La Bce ha fallito nel suo tentativo di ridurre l’intreccio stretto tra banche e debito sovrano. Le misure a sostegno del mercato obbligazionario dell’area euro hanno anzi spinto le banche a comprare bond governativi a rischio zero.

Da un altro punto di vista, gli investitori non sembrano più di tanto preoccupati da questi pericoli di contagio. L’indice del rischio di contagio è sceso dal 36% al 33%. In altre parole i trader non temono per la stabilità dell’area. Ma come osserva Bloomberg, l’esposizione delle grandi banche europee ai Btp italiani vuole anche dire che i leader di Francia, Germania e Spagna sono incentivati a cercare un compromesso nella sfida tra Italia e Commissione Ue sul budget italiano.

Il governo giallo verde lo sa bene.

“A Bruxelles piacerebbe vederci uscire sconfitti”, ha detto il consulente economico della Lega Claudio Borghi, facendo capire che questo non succederà. “Abbiamo ancora 15 miliardi di euro nel fondo salva banche ereditati dall’era Renzi. Non è una situazione ideale ma abbiamo ancora margine di manovra. Alla fine saranno loro a dover fare un passo indietro”.

Non è un caso che Lorenzo Bini-Smaghi, ex membro del board della Bce e presidente di Societe Generale, la seconda banca di Francia, abbia paura che gli eventi di oggi stiano seguendo lo script della crisi del 2011. “L’Italia si sta per schiantare contro un muro”, ha avvisato il banchiere.

“L’economia rischia di scivolare in una fase di recessione nel quarto trimestre. Le banche hanno già ridotto le attività creditizie quest’estate, non appena gli spread hanno iniziato a salire. Il governo non capisce che l’impatto potrebbe essere violento“.

 

 
 
 

L’Italia ripudia la guerra, ma non gli affari che le girano attorno

Post n°4334 pubblicato il 01 Novembre 2018 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Economia & Lobby | 30 ottobre 2018 

 

di Maurizio Donini

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”, recita la Costituzione Italiana all’articolo 11.

Diciamo che la rifugge ufficialmente, se la coinvolge alla luce del sole, ma si può fare per guadagnare crediti con grandi paesi (Berlusconi ai suoi tempi con gli Stati Uniti), magari facendo lucrosi affari. Perché l’Italia rigetta la guerra, ma di fronte agli affari ripone pizza e mandolino, toglie la mano dal cuore per metterla sul portafoglio e vende quasi 15 miliardi di euro di armi all’estero, Esattamente sono stati 14,6 nel 2016 i miliardi incassati dal bel paese per esportare morte, un aumento del 85,7% rispetto i 7,9 del 2015, non è dato sapere se anche i morti provocati siano aumentati in misura equivalente.

Siamo presenti in ben 20 paesi con 29 missioni in cui abbiamo speso 826 milioni di euro nel 2016, 58 più del 2015. Questo malgrado i soliti fastidiosi pacifisti si siano messi di traverso in questo lucroso mercato portando a bandire le mine anti-uomo (Convenzione di Ottawa) e le munizioni a grappolo (Convenzione di Oslo) con i trattati entrati in vigore nel 1999 e 2010. In teoria le armi per essere vendute devono sottostare a tutta una serie di restrizioni che dovrebbero garantire una serie di diritti su uso e riuso, in pratica il mondo è pieno di trafficanti, una volta uscite dal paese di costruzione verso un altro ufficialmente autorizzato all’acquisto, si apre la zona grigia delle triangolazioni, ed i risultati non sono difficili da vedere.

L’ultima sorpresa è venuta alla luce a seguito di un’inchiesta del NYT, portando alla luce che l’azienda sarda RWM, terza industria di armi del nostro paese, ha venduto, con tutte le autorizzazioni del caso, bombe Mk-80 da 250 kg. che hanno ucciso, con il sigillo dell’Arabia Saudita, circa 10.000 yemeniti. D’altronde per questi 10.000 morti abbiamo incassato la notevole cifra di 440 milioni di euro, armi che vanno a distruggere altre case in paesi lontani, come ebbero a dichiarare l’ex-premier Gentiloni e l’ex-ministra Pinotti, “nel pieno rispetto delle leggi nazionali ed internazionali”.

I governi Renzi e Gentiloni un risultato sicuramente l’hanno raggiunto, portare il nostro paese al nono posto nel mondo nella classifica degli esportatori di armi stilata dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute). Per l’esattezza l’Italia esporta il 2,5% delle armi di tutto il mondo, al primo posto ci sono gli Usa (34%), poi seguono Russia (22%), Francia (6,7%), Germania (5,8%), Cina (5,7%), Regno Unito (4,8%), Spagna (2,9%) e Israele (2,9%). Chiude la classifica l’Olanda (2,1%). La top 10 dei produttori di armi riguarda le cosiddette “major weapons”, vale a dire quelle pesanti (aerei, navi, sottomarini, carri armati e sistemi missilistici), e si riferisce al quadriennio 2013-2017.

I nostri maggiori clienti sono Emirati Arabi, Israele, Turchia, Algeria, Marocco, Taiwan, almeno per quello che è dato sapere, visto che sono ben 9 anni che l’Italia non invia informazioni all’Unroca, cioè al Registro delle Nazioni Unite sulle armi convenzionali. La metà del valore delle esportazioni del 2016 (7,3 miliardi di euro) arriva dalla fornitura al Kuwait di 28 aerei Eurofighter della Leonardo. Un golfo dove si fanno affari d’oro, come quelli che prevedono la vendita di sette navi di superficie di oltre 100 metri (di cui 4 corvette), una nave anfibia Lpd (Landing Platform Dock) e due pattugliatori Opv (Offshore Patrol Vessel) al Qatar, stato accusato spesso di armare i terroristi.

D’altronde, “si vis pacem, para bellum dicevano i latini, se vuoi la pace, prepara la guerra”.

Economia & Lobby | 30 ottobre 2018

 

 

 

 
 
 

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