Le origini del fiordaliso sono antichissime, alcuni fossili di questo fiore risalgono al neolitico. E’ soprannominato “erba degli incantesimi”.
Una leggenda racconta che la dea Flora, avendo ritrovato morto in un campo pieno di fiordalisi il corpo dell’amato Cyanus, volle chiamare quei fiori proprio con il suo nome. Il nome scientifico è, infatti, Centaurea cyanus. Centaurea deriva dal nome del centauro Chirone che, ferito al piede da una freccia avvelenata, si curò con il succo del fiore.
In Oriente, gli innamorati lo regalano all’amata nella speranza di ottenere la felicità da lei.
Nel linguaggio dei fiori significa felicità e leggerezza.
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Post n°277 pubblicato il 19 Ottobre 2008 da Fajr
B. Rosso - F. Taricco, "La città fragile", Bollati Boringhieri La «città fragile» (...) sta tra noi, si accampa nella «città forte» - nella città-organismo produttivo e macchina vertiginosa di consumo - con tutta la plasticità dei suoi corpi: «vita nuda», esistenza ridotta alla dimensione fisiologica, al codice naturale della sopravvivenza, spogliata com'è di ogni protesi formale. Abita il nostro stesso spazio. E tuttavia non lo «condivide». È come se non ci fosse. Le sue figure le incrociamo, le sfioriamo, le scansiamo, le urtiamo, in qualche loro parte le usiamo anche, ma non le «riconosciamo». Anche quando ci toccano, le teniamo a distanza, in uno spazio «altro» che non ammette condivisione. Oltre un confine invisibile ma invalicabile del tutto simile a quello che separa, appunto, gli oggetti dai soggetti. Stanno nel paesaggio urbano, con una presenza pesante, come quella della pietra o del bronzo, fisicamente percepibili, fin troppo percepibili, forse gli unici corpi percepibili per differenza con l'indifferenza di tutti gli altri: il corpo degradato del barbone steso sui gradini della chiesa del centro o sulla panchina del parco, il corpo materno della zingara con il lattante al seno al semaforo, il corpo ostentato della puttana sul viale urbano. Ma restano all'esterno di ogni relazione. Non ci parlano di sé. Non «fanno racconto» perché non stanno in un racconto, senza un prima né un dopo biografico, né un «essere per» né un «essere con» di cui, e per cui, appunto, «dire». Le loro storie personali, le vicende del loro esistere, il loro vissuto rimangono irrimediabilmente afoni, inudibili, perché la «città forte» non possiede il codice linguistico capace di decifrare il linguaggio della «vita nuda» (per la verità non possiede neppure il tempo, né la voglia, per ascoltarla). Sa solo decrittare il lessico della «vita vestita», decodificabile secondo la logica lineare delle funzioni d'utilità e dello scambio tra equivalenti generali, in base agli «abiti» professionai e ai simboli dei ruoli. Il resto, quelli che non «funzionano» secondo questo statuto formale, restano corpi senza la parola - e dunque «cose isolate», senza relazione perché manca loro quell'elemento fondante di ogni relazione tra persone che è il «riconoscimento», la materia indispensabile per «essere insieme» in uno spazio condiviso. E il «riconoscimento» altro non è, nel suo nucleo originario, che un «dire» dell'Io sull'Altro. Un accogliere la presenza dell'Altro nel proprio ordine del discorso. (dalla postfazione di Marco Revelli) |
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