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Post n°784 pubblicato il 13 Settembre 2011 da ilike06
 

Quando ci si chiama Quirino Principe, si ha la possibilità di scrivere

ciò che Domenico Molinini va dicendo da sempre....

 

Quest'Italia non ha più orecchio di Quirino Principe -Il sole 24 ore 11 settembre 2011

 

Siamo in un teatro, nell'intervallo di un concerto. Cominciano a rientrare gli orchestrali. Sono bravi, questi giovani! È bello vederli. Anche l'Italia può essere bella, se la cogliamo nel luogo giusto e all'ora giusta. Li osserviamo: un fiorire di teste brune, castane, bionde, capelli ricci o tagliati a spazzola o code di cavallo e chiome d'angelo lunghe e lisce... Ci volgiamo alla platea. Vediamo un mare di teste canute, ritinte, calve, spelacchiate, e sotto quell'albedo chiazzata di bianco d'uovo e di bianchiccio e di giallastro malsano e di grigiastro, vediamo fronti macchiettate sopra occhiaie scavate, rassegnate, tristi, rancorose, e sotto quella nigredo indoviniamo membra rinsecchite o gonfie, gambe malferme, abiti di risibile eleganza. Questo è il pubblico della musica forte, oggi in Italia. A mano a mano che madre Natura decreta, quel pubblico si sfoltisce, si accartoccia, va in briciole e in polvere come la «povera foglia frale» di Arnault ridisegnata da Leopardi. E le nuove generazioni? No, da molti decenni, quel pubblico non si rinnova più. Non c'è il ricambio, del quale, fino a quarant'anni fa, c'era almeno l'illusione ottica. Quando tutti i canuti e ritinti saranno volati in cielo, sarà finita. Non ci sarà più pubblico.

Per la musica "forte", in Italia, pare non esserci speranza. Sì, "forte": è in corso la nostra battaglia per sostituire questo aggettivo a locuzioni improprie e fuorvianti, "musica classica", o "seria", o "colta", e ci sorprende piacevolmente (questo, almeno!) che i nostri sforzi stiano ottenendo udienza al di là di ogni speranza: una casa discografica ha dichiarato, aprendo il suo catalogo, di volere usare, d'ora in poi, la terminologia da noi proposta. "Forte" è la musica dotata della massima energia. Suscita traumi, estasi, sensazioni forti, come il terribile accordo dissonante che apre il Finale della Nona di Beethoven, come il Lamento di Arianna di Monteverdi il cui «Lasciatemi morire» è il decollo di un'astronave. La "musica debole" (non "leggera" o peggio "popolare"), si fonda sulla ripetitività, sul sottofondo, su banali sensazioni. Forte e debole non s'intendano come un aut-aut: sono qualità estreme, entrambe legittime, agli opposti di una serie di gradazioni. Si chiede soltanto che la musica debole e banale non spinga ai margini la musica energica e inventiva.

In verità, previsioni e proiezioni comprensibili anche a uno scolaro di seconda elementare indicano che, continuando immutato il corso dei fenomeni, la musica forte è destinata a scomparire, e con essa ogni traccia della tradizione musicale italiana (che per molti aspetti è europea, mondiale). Una catastrofe. Sarebbe possibile scongiurarla, e anzi rovesciare la tendenza. Basta domandarsi quale sia il differenziale, in materia, tra l'Italia e qualsiasi altro ordinamento statale in cui esistano democrazia e civilizzazione. Risposta: a parte quei paesi islamici in cui la musica è reato e peccato, haram (di quella subcultura non fanno parte, per esempio, la Turchia o la maggioritaria comunità islamica d'Albania, paese musicalissimo), l'Italia è l'unico Stato nel mondo in cui la musica non sia insegnata in tutte le scuole di ogni ordine e rango, e non limitata alle scuole specializzate. Poi ci si domanda come mai nel Paese del Bel Canto non nascano più nativi musicali, e come mai nelle famiglie non ci siano genitori o zii che facciano musica amatoriale! Se una disciplina è insegnata soltanto in sedi circoscritte, e al massimo livello scientifico, come l'egittologia o il restauro di libri antichi, e non entra nel circuito della cultura diffusa, essa è un tesoro che si spera bene custodito, ma la sua presenza nella società è nulla. Dunque, se questo è il differenziale, abbiamo individuato "more geometrico" il dovere che i legislatori italiani si dovrebbero assumere: introdurre finalmente l'insegnamento della musica in tutte le scuole pubbliche d'Italia, a qualsiasi grado. Sarebbe un'innovazione a costo zero, e chiunque neghi quest'ultimo connotato è da noi sfidato a un pubblico contraddittorio, con ampia facoltà di prova. 

Così ci siamo avvicinati a un nervo scoperto: legislatori di diverso orientamento politico sono sollecitati, da musicisti di assoluto prestigio e persino di fama mediatica, come Uto Ughi, Riccardo Muti, Salvatore Accardo, a compiere l'atto che avrebbe effetti decisivi, rovesciando un desolante destino: introdurre la musica in tutte le scuole d'Italia. Reagiscono come sappiamo: sono sordi, ciechi e muti. Alcuni di loro, quasi scusandosi, sussurrano che «non è il momento», che «il Parlamento ha ben altro cui pensare»... Ma in qualsiasi circostanza, con la massima stabilità politica e con il Pil alle stelle e una crescita annua del 126,9 %, la loro risposta sarebbe la stessa: avrebbero ben altro cui badare. Le vere ragioni che condannano all'estinzione la musica forte non sono finanziarie né contabili: sono culturali.

Questa certezza ci indica, probabilmente, un altro interlocutore. Colui che oggi è Presidente della Repubblica italiana è, incomparabilmente più che i suoi predecessori, attento alla realtà culturale, e sa perfettamente che il nucleo essenziale di ciò che l'Italia è e potrà essere è la cultura. È retorico appellarsi a lui? Può darsi, ma l'alternativa è la catastrofe. Sappiamo con certezza come al Presidente non sfugga una finzione primaria della musica: l'essere l'anello di congiunzione tra scienze dure e scienze molli, il trasmettere energia cognitiva, il far capire meglio, a chi segua studi musicali, la matematica e la pittura, la fisica e l'architettura, la cosmologia e la poesia o la psicologia. Gli è certamente noto come una vertiginosa sapienza antica (Platone, Quintiliano, Marco Aurelio...) abbia dichiarato incompetente e maldestro l'uomo che, senza conoscere a fondo la musica, si dedichi al governo dello Stato. Vogliamo gettare la musica nell'immondezzaio della Storia?

Perché in Italia la musica è assente dall'educazione e dall'istruzione normale? Nel 1861, divenuto primo ministro della Pubblica istruzione al governo dell'Italia unita, Francesco De Sanctis, per tanti aspetti benemerito, riorganizzando il nuovo sistema scolastico dai lacerti e brandelli di ciò che era stata l'istruzione borbonica, pontificia, ducale, granducale, austriaco-lombarda, eliminò spietatamente la musica, con una curiosa motivazione, condivisa da gran parte dei protagonisti della lotta per l'indipendenza (non da tutti, non da Mazzini, non da D'Azeglio...): la musica, egli pensava, era una disciplina per fanciulle educande, per signorine di buona famiglia, insomma un'attività femminile (dando all'aggettivo "femminile" un'accezione negativa in partenza!). Un successore di De Sanctis al dicastero, Emilio Broglio, nel 1868 meditò di abolire anche i Conservatorii. Già allora ferveva la retorica degli "enti inutili". La radice filosofica neo-hegeliana, orientata verso una collocazione della musica a livello inferiore, sottoculturale, "manuale", ha agito a lungo, sciaguratamente, da De Sanctis a Croce, a Gentile, allo stesso Gramsci, fondatore? insieme con Bordiga? del Partito comunista, ma gentiliano per formazione radicata, come ha irrefutabilmente dimostrato Augusto Del Noce nel suo libro L'eurocomunismo e l'Italia (1976). Tre grandi orientamenti ideologici in Italia, l'idea liberale, il fascismo, il comunismo gramsciano, sono stati ostili all'insegnamento pubblico e diffuso della musica. Un quarto orientamento, quello cattolico, è stato reticente ed elusivo. Avremmo bisogno di spazio per analizzarlo nei dettagli. Bene: ora abbiamo gettato un po' di luce sull'origine di un misfatto. Dovremmo avere acquistato più forza, ora, per ricostruire sulle macerie.

 

 
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