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"La mia ferita emotiva più profonda è stata anche una fonte inesauribile di gioie". Non ti rivelerò perché questa frase è molto importante per me: è una questione troppo personale. Ma tu, Vergine, potresti fare un'affermazione simile? Potresti interpretare la tua vita in modo da vedere un'esperienza dolorosa come una fonte di intuizione, ispirazione e vitalità? Il 2009 sarà l'anno ideale per compiere questo cambio di percezione. E il periodo intorno al solstizio d'inverno è il momento perfetto per cominciare. (Rob Brezsny)

 
 

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Sulla via che mi porta al lavoro c'è una casa abbandonata che, mi hanno detto da qualche giorno, è abitata dai fantasmi.
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Post N° 499

Post n°499 pubblicato il 19 Ottobre 2007 da betulla64
 

Della casa di nonna ricordo tutto. Viveva al pianterreno della vecchia casa dove sono nata e, mentre noi al piano di sopra avevamo il pavimento in linoleum, da lei era ancora in terra battuta. E' netto il ricordo della sua mano che, come in una benedizione, sparge l'acqua che sarebbe poi servita a far sì che spazzando non si sollevasse polvere. La sua cucina confinava con la stalla: lei usciva con il secchio, mungeva la mucca raccontandole non so cosa, convinta che tanta cosiderazione avrebbe reso contento l'animale e che, di conseguenza, avrebbe prodotto più latte. In base alla stessa teoria papà mungeva cantando. Ricordo bene il rumore metallico dello spruzzo di latte contro le pareti del secchio e poi lo sciabordìo quando in una sorta di mulinello, il liquido si mesolava agli spruzzi precedenti in un lago bianco e denso di panna. Raramente entravo nella stalla, poichè le mucche mi impaurivano e l'odore di stallatico e paglia unito al loro fiato mi frastornava. Aspettavo appoggiata allo stipite della porta che nonna si alzasse per avviarmi con lei nella magica cucina dove ogni cosa subiva trasformazioni strabilianti, dallo sciroppo in bottiglietta mignon che diventava ghiacciolo monoporzione una volta mescolato all'acqua e riposto in frigorifero, all'acqua di fonte dentro cui mi era a volte permesso versare la polverina che si trasformava in mille bollicine che pizzicavano il naso se si provava ad avvicinarlo all'imboccatura.
Il latte una volta munto veniva travasato in un ampio recipiente dove veniva lasciato a riposare finchè affiorava la panna, allora nonna la raccoglieva e la versava nella zangola, che da noi si chiama meno pomposamente "burriera", per poi farci il burro da vendere. Non tutto il latte veniva scremato e questo era il motivo per cui non mi scostavo un attimo dalla gonna di nonna. La magia più magia di tutte era quella di trasformare il latte in "tuma" e il procedimento era tanto semplice quanto ai miei occhi prodigioso. Nonna filtrava il latte con un telo di lino, per eliminare le impurità, poi prendeva una bottiglietta piccina con un tappo di sughero contenente un liquido trasparente che lei chiamava "caij". Il caij veniva versato nel latte e dopo un poco il latte faceva "tuma", allora nonna prendeva un coltello e tagliava la cagliata che tremolante e candida cominciava a sprigionare il suo profumo inconfondibile e invitante. Avrei voluto tuffarmici. Nonna prendeva un altro telo di lino e vi poneva la cagliata, chiudeva i capi a mo' di fagotto e lo appendeva al rubinetto del lavello a scolare. Non era una faccenda che si risolvesse in pochi minuti, così io me ne andavo in cortile a giocare in attesa che la magia si compisse.
Di solito poco prima di cena la tuma era pronta. Quando nonno e i figli maschi tornavano dal lavoro nonna metteva sul tavolo due piatti, uno rivoltato sull'altro a coprirne il contenuto. A lato stava immancabile il sale e la "mica" di pane. Lo zio più vecchio tagliava il pane mentre nonno scoperchiava il piatto. Dentro, la tuma fresca che si era adagiata dolcemente sul fondo del piatto assumandone la forma e conservando però ancora la trama del tessuto che l'aveva contenuta per ore a scolare. Sulla superficie candida piano piano affiorava la panna che, al primo affondo di coltello, lacrimava sul fondo del piatto a condire la sua origine. Nonna mi dava una fettina di pane con uno spicchio di tuma, aggiungeva una presa di sale e, senza dimenticare la benedizione, mi mandava a giocare.
Avevo quattro o cinque anni quando tutto ciò accadeva. Dopo, nonno vendette le mucche e la tuma divenne cosa rara. Non ebbi nemmeno l'accortezza di chiedere a nonna di scrivere la ricetta o di raccontarmi bene il procedimento, tanto ero presa dall'ansia di cancellare le mie origini contadine. Dopo, molto dopo, sarebbe rinato il mio orgoglio ed è da lì che son partita a incaponirmi nel voler replicare la tuma di nonna. Non ho il latte delle nostre mucche, mi devo accontentare di quello fresco della centrale, ma sono riuscita a trovare il "caij" in farmacia e rubando qua e là su internet alla fine ho ottenuto una pseudo-tuma che al gusto non è niente male e che è davvero alla portata di tutti.






Occorrente:

Una pentola in acciaio
Un termometro da cucina
Un colino
2 fascelle (io riciclo quelle che contengono la ricotta che compro al mercato, in alternativa fate come nonna, usate un telo pulito,avendolo preventivamente sciacquato da eventuali tracce di detersivi)

1 litro di latte fresco
5 gocce di caglio
la punta di un cucchiaino di sale

Mettete il latte in una pentola e portatelo a 40 gradi, spegnere e aggiungete il sale e il caglio mescolando bene.
Coprite la pentola con un coperchio e avvolgetela in un asciugamano di spugna. Lasciate riposare per 1 ora al riparo da correnti d'aria.
Passato questo tempo vedrete che il latte ha preso la consistenza di un budino. Questa è la cagliata. Tagliatela con un coltello, in cubetti di uno-due centimetri, rimettete sul fuoco e portate a 45 gradi, spegnete e con un colino a rete fitta scolate la cagliata e mettetela nelle fascelle premendo leggermente. Lasciate scolare il siero per qualche ora. Con questa quantità di latte si ottengono circa 300 grammi di tuma.



 
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da "La coscienza di Zeno"
 
 

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