Creato da betulla64 il 22/12/2005
Il coraggio non mi manca. E' la paura che mi frega. (Antonio Albanese)
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ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino.
Siccome - ripeto - sono ambizioso,
volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti:
"Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là".
(Cesare Pavese)
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"La mia ferita emotiva più profonda è stata anche una fonte inesauribile di gioie". Non ti rivelerò perché questa frase è molto importante per me: è una questione troppo personale. Ma tu, Vergine, potresti fare un'affermazione simile? Potresti interpretare la tua vita in modo da vedere un'esperienza dolorosa come una fonte di intuizione, ispirazione e vitalità? Il 2009 sarà l'anno ideale per compiere questo cambio di percezione. E il periodo intorno al solstizio d'inverno è il momento perfetto per cominciare. (Rob Brezsny)
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Non lo sapevo. Ma appena me l'hanno detto ho pensato: la compro io.
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Messaggi di Febbraio 2006
Per il mio unico amico
scelto chissà come a nove ore di treno dal mio bisogno.
Sarà un cielo chiaro.
S'apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell'aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne divertite.
Le scale le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S'aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l'acqua nelle fontane -
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l'odore della pietra e dell'aria mattutina.
S'aprirà una porta.
il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Sarai tu - ferma e chiara.
(Cesare Pavese)
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Pensare di uscire. Si può fare forse, due pillole e via. Ma uscire per andare dove e vedere chi? Un unico amico scelto chissà come a nove ore di treno dal mio bisogno, e vent'anni a perseguire un unico scopo: distruggere ogni traccia della mia esistenza, ogni ricordo in chi un tempo mi conosceva. In un paese dove in tre minuti hai visto tutto il visibile e dove per fare qualsiasi cosa devi salire su un treno e andare in città. Gian Maria Testa la chiama città lunga Cuneo. E lo è lunga, coi suoi portici a riparare dalla pioggia in inverno e dal sole in estate. Dalla Stazione a Piazza Torino venti minuti, venti lunghissimi minuti di passione ripagati da vetrine sfavillanti e caffetterie invitanti golosità, dove non poter entrare perchè più del digiuno può il panico. A Cuneo ci vado ormai solamente in auto con mio marito per i controlli in ospedale. Oltre via Michele Coppino la mia Finisterre. Romantico il suo coincidere con la sagoma del Monviso sullo sfondo, ma triste che sia tutto lì il mio vivere la città: tra il parcheggio e l'entrata dell'ospedale. A volte c'è l'ipermercato, dove faccio una fatica boia, ma almeno ho la certezza che anche le persone sane si sentano a disagio in quel girone infernale, una sorta di mal comune mezzo gaudio. Quando torno a casa dopo una sessione di acquisti, ci metto poi due giorni a riprendermi, perchè il panico è bastardo, non si accontenta di attanagliarti durante, ha un che di scientifico anche nel suo agire dopo. Ti paralizza talmente da lasciarti come se fossi finita sotto a un autobus, con i muscoli a pezzi, in preda ad una gran sposatezza e con un solo pensiero in testa: "mai più!"
E allora. Metà del mio vissuto è trascorso così. Spese tutte le speranze, sforzandomi per quanto il mondo mi chiede di sforzarmi, ovvero oltre ogni limite umano, è possibile che ancora io stia qui a pensare di poter fare qualcosa di diverso dal guardare fuori dalla finestra? Conto sulle dita: quattro uscite in quattro mesi. Tre per andare in ospedale. Il resto del tempo l'ho passato in questa stanza, ora dopo ora. Doloroso constatare che questa ormai sia la norma, per me e per chi è costretto a causa mia. A questo punto stare a farmi paranoie sul significato di un blog mi sa di presa per il culo. Eppure se mi sono posta il problema vuol dire che qualcosa c'è sotto. C'è il piattino da mendicante citato tempo fa da lume. C'è che la solitudine è difficile e che di occhi per piangere ne ho solo due. C'è che serve distrarsi. C'è che aiuta parlare a ruota libera senza sentire il pregiudizio di chi sa da dove arrivi e dove non arriverai mai. C'è che l'analisi non me la posso nè voglio più permettere. C'è che anche cazzeggiare aiuta. C'è che mi è sempre scoppiata la vita dentro, continua a scoppiare e non so dove esploderla. C'è che non sembra, ma sono viva e merito qualcosa di meglio. Se fosse tana, pazienza.
Vamos, decíme, contáme
Todo lo que a vos te está pasando ahora
Porque si no, cuando está tu alma sola llora
Hay que sacarlo todo afuera, como la primavera
Nadie quiere que adentro algo se muera
Hablar mirándose a los ojos
Sacar lo que se pueda afuera
Para que adentro nazcan cosas nuevas.
(Mercedes Sosa)
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Insomma, te li ho ri-linkati quasi tutti :) te compresa. Salvati questa pagina e sei a posto (Lo so, sono stronza)
Un bacio
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Quando ero ragazza, il massimo della libertà si concretizzava nella frase "Andiamo al mare?". Allora si arrembava la prima auto disponibile, si risaliva la valle fino al confine e ci si infilava nel tunnel, che con una magia mai stanca si apriva sulla valle francese di là del monte. La discesa verso il mare, tra le gole scavate dall'acqua, era preludio di sole e caldo, in queste nostre primavere che somigliano spesso a eterni inverni. A Niça arubaren, al fons d'aqueste viatge Vielhs viatjaires s'i dralhas estremàas E da l'aute cant la valada corr Sus i marchiapes la vila vai per so cònte Paures de nos, sobem pus aguntar (Sergio Berardo) Il viaggio - A Nizza arriveremo, alla fine di questo viaggio/ I villaggi passano in fretta e la costa ci attende/Arriveremo a Nizza in fondo a questa notte/Che è fatta di occhi e di silenzio/Tra rupi, rocce e freddo/ Vecchi viaggiatori su viottoli nascosti/Vecchi viaggiatori sul cammino/Suonatori e contrabbandieri /Silenziosi scendono alle ultime Feste/E dall'altra parte la valle corre/ senza un colore al mondo, brullo ulivi e muretti/Rami di palma, sulle onde pelle e canna/ canteremo, flauti e tamburi la moresca del mare/Grido selvaggio del marinaio/ che dispiega vela e canzone/ gioventù la tua fortuna/ scappare da scuola e casa/Sui marciapiedi la città va per proprio conto/ barcollando ai primi raggi si ferma il sogno/ il giorno è troppo chiaro/ maglio nascondersi in un bar/ e bere ancora due Pastis prima di tornare/ Poveri noi, non sappiamo più agguantare/ la cavalcata ubriaca che va/stranieri nell'aria di qua/ Nizza il nostro viaggio è finito.
Oggi nevica, e io canto la malinconia per il mio sud.
I vilatges passen fito e la còsta nos atend,
A Niça arubaren, al fons d'aquesta nuech
Que es facha de uelhs e de silenci
Entre rivas, rochas e freit
Vielhs viatjiaires per lo chamin
Sonadors e contrabandiers
Quiet davalen ai derriers Festins
Sensa color al monde sec olivo e muralhets
Branchas de palmiers, s'i ondas pel e cana
Chanterem, frifre e timbala la morisca de la mar
Bram sarvatge de marinier
Que desplega velo e chançon
Joventura lo tìu bonur
Escapar d'escòlo e meison
Strambalhant ai primers rais s'aresta lo pantai
Lo jorn es trop clar
Mielh anar stremar-se dins un bar
E beure ancar dui Pastis dran de tornar
L'abriviada choca che vai
Estrangero dins l'aire d'eici
Niça, noste viatge es finit
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Ammanitati lu ventu
Si criditi
Ca vi scummina li capiddi
Lu ventu ca trasi dintra li casi
Pi cunnurtari lu chiantu
Lu ventu ca trasi dintra li casi.
Ammanittati lu chiantu
Si criditi
Di cuitari lu munnu
Lu chiantu ca matura dintra li petti
E sdirrubba li muri e astuta li cannili
E sdirubba li muri e astuta li cannili.
Ammanittati la fami
Si criditi
D’addifinirvi li garruna
Ma la fami nunn’avi vrazza
Lu chiantu nunn’avi affruntu
Ma la fami nunn’avi vrazza
Lu chianti nunn’avi affruntu
Lu ventu nun sapi sbarri.
Ammanittati l’ummiri
Che di notti vanno pi li jardina
A mettiri banneri supra li petri
E chiamanu a vuci forti li matri
Ca nunn’annu cchiu sonnu
e vigghianu d’arreti li porti
ammanettati li morti.
Ammanettati li morti
Si criditi.
Paolo Messina
(Traduzione di Lucio Zinna)
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Comunicazione di servizio
Lo avrei fatto comunque di eliminare la lista, perchè ogni giorno scopro che ci sono bei blog da leggere, che magari mi leggono e mi inseriscono nei loro preferiti. Mi mette a disagio non ricambiare e nello stesso tempo non amo perdermi tra decine di link.
Vabbè. Fine comunicazione.
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di EDUARDO GALEANO Un piccolo gesto di dignità nazionale ha scatenato un incredibile vespaio all'inizio di quest'anno. In tutto il mondo la stampa gli ha dedicato i titoli di prima pagina, come se stesse dando notizia di qualcosa di molto strano, qualcosa come: «Cane morso da un uomo». Che cos'era successo? Il Brasile richiedeva ai viaggiatori statunitensi ciò che gli Stati Uniti richiedono ai viaggiatori brasiliani: visto sul passaporto e schedatura alla frontiera, foto e impronte digitali comprese. Molti hanno condannato quest'atto di normalità come un'espressione di pericolosa follia. Forse se il mondo non fosse abituato così male, la faccenda sarebbe stata vista in un altro modo. In fin dei conti, l'anormalità non risiedeva nel fatto che il presidente Lula agisse così, bensì che fosse l'unico: l'anormalità era che gli altri accettassero senza fiatare quelle condizioni che Bush ha imposto a tutti i Paesi, eccezion fatta per pochi privilegiati che sono al di sopra di ogni sospetto di terrorismo e di malvagità. Tutto si spiegava, ci mancherebbe altro, per l'11 settembre. Questa tragedia, che il presidente Bush continua ad utilizzare come una polizza di impunità perpetua, obbliga il suo Paese a difendersi senza abbassare mai la guardia. Tuttavia, come tutti sanno, nessun brasiliano ha avuto niente a che fare con la caduta delle torri gemelle di New York. Al contrario, come pochi ricordano, il più grave attentato terrorista di tutta la storia del Brasile, il colpo di stato del 1964, contò sulla fondamentale partecipazione politica, economica, militare e giornalistica degli Stati Uniti. Questa faccenda della schedatura dei viaggiatori, che ha scatenato tanto bailamme, è solo un caso di giustizia riparatrice e sarebbe ridicolo confonderla con una tardiva vendetta storica. Ma in America Latina l'abitudine alla mancanza di dignità ha molto a che vedere con l'abitudine all'amnesia, cosicchè non sarà inutile ricordare che la partecipazione ufficiale e ufficiosa degli Stati Uniti a quel golpe terrorista è stata dimostrata, documentata e confessata dai suoi principali attori. E varrebbe la pena di ricordare anche che quel colpo di stato non solo aprì la strada a una lunga dittatura militare, ma anche che assassinò e seppellì le riforme sociali che il governo democratico di Jango Goulart stava portando avanti affinché il Paese più ingiusto del mondo fosse meno ingiusto. Quell'impulso giustiziere ci ha messo quarant'anni a risuscitare. In questi quarant'anni quanti bambini brasiliani sono morti di fame? Il terrorismo che uccide per fame non è meno abominevole di quello che uccide con le bombe. Cattive abitudini: mancanza di dignità, amnesia, rassegnazione. Per paura ci costa cambiarle; per pigrizia mentale ci costa immaginarci senza di loro. Ci sembra inconcepibile il rovescio della medaglia, l'altra faccia di ogni faccia. Perché non ci chiediamo che cosa sarebbe successo se l'Iraq avesse invaso gli Stati Uniti col pretesto che gli Stati Uniti hanno armi di distruzione di massa? E se l'ambasciata del Venezuela a Washington avesse promosso e applaudito un colpo di stato contro George W. Bush, come fece l'ambasciata degli Stati Uniti a Caracas contro Hugo Chávez? E se il governo di Cuba avesse organizzato 637 tentativi di assassinio contro i presidenti degli Stati Uniti in risposta alle 637 volte che tentarono di uccidere Fidel Castro? E che cosa succederebbe se i Paesi del Sud del mondo si rifiutassero di accettare anche una sola delle condizioni imposte dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale, a meno che questi organismi iniziassero a imporle agli Stati Uniti, che sono il maggiore debitore del pianeta? E se il Sud applicasse le sovvenzioni e le tariffe che i Paesi ricchi praticano a casa e proibiscono fuori? E se...? Cattive abitudini: il fatalismo. Accettiamo l'inaccettabile come se facesse parte dell'ordine naturale delle cose e come se non ci fosse un altro ordine possibile. Il sole raffredda, la libertà opprime, l'integrazione disintegra: ci piaccia o no, non c'è modo di evitarlo. O così o pomì. Così viene venduto per esempio l'Alca. Là nella notte dei tempi, il vecchio Zeus, il capo supremo, non si sbagliò. Fra tutti gli abitanti dell'Olimpo greco, Hermes era il più bugiardo, l'imbroglione che ingannava tutti, il ladro che rubava di tutto. Zeus gli regalò dei sandali con alucce d'oro e lo nominò dio del commercio. Fu Hermes, poi chiamato Mercurio, a generare l'Organizzazione Mondiale del Commercio, il Nafta, l'Alca e altre creature concepite a sua immagine e somiglianza. Il Nafta, l'accordo commerciale fra Stati Uniti, Canadà e Messico, ha appena compiuto dieci anni. La mano di Hermes ha guidato, passo dopo passo, tutta la sua infanzia. Vita e opera del Nafta, prima decade: ricordiamo solo un paio di episodi rivelatori di quello che ci attende se l'Alca va in porto e questa cosiddetta libertà di commercio, che umilia le sovranità nazionali, si estende a tutto lo spazio americano. Nel 1996 il governo del Canadà proibì la vendita di «una neurotossina pericolosa per la salute umana». Era un additivo per la benzina, fabbricato dall'impresa statunitense Ethyl. Questo additivo tossico, proibito negli Stati Uniti, si vendeva solo in Canada. L'impresa Ethyl, che si dedica da molti anni alla nobile missione di avvelenare i Paesi stranieri, reagì facendo causa allo stato canadese perché la proibizione del suo prodotto azzerava le vendite, danneggiava la sua reputazione e implicava «una espropriazione». Gli avvocati canadesi avvisarono il loro governo che era spacciato: non c'era niente da fare. Nel Nafta le imprese comandano. A metà del 1998, il governo del Canada tolse la proibizione, pagò un indennizzo di tredici milioni di dollari all'impresa Ethyl e le chiese scusa. Nel 1995 un'altra impresa statunitense, Metalclad, non potè riaprire un deposito di scorie tossiche nello stato messicano di San Luis Potosí. Lo impedì la popolazione, con i machete in mano, affinché la ditta-pattumiera non continuasse ad avvelenare la terra e le falde acquifere sotterranee. Metalclad fece causa al governo messicano per questo «atto di espropriazione». Secondo quanto stabilito dal trattato di libero commercio nell'anno 2001 l'impresa ottenne un indennizzo di diciassette milioni di dollari. L'Organizzazione delle Nazioni Unite nacque alla fine della Seconda Guerra Mondiale. John Fitzgerald Kennedy e Orson Welles furono due dei millecinquecento giornalisti che pubblicarono cronache del grande avvenimento. La Carta costitutiva delle Nazioni Unite stabilì «l'uguaglianza dei diritti delle nazioni grandi e piccole». Era la grande promessa: a partire dall'uguaglianza sovrana di tutti i suoi membri, il nuovo organismo internazionale avrebbe cambiato il cammino della storia dell'umanità. Sessant'anni dopo, è sotto gli occhi di tutti: è cambiato in peggio. Ma le cattive abitudini non sono un destino, e sono sempre di più i Paesi che si stanno stancando di recitare il ruolo dello scemo del villaggio in questa grande farsa universale. Un anno fa constatava Thomas Dawson, portavoce del Fondo monetario internazionale: «Abbiamo molti bravi alunni in America Latina». Era il linguaggio di sempre. Adesso, mette in guardia il presidente argentino Néstor Kirchner: «Non siamo più un loro zerbino». È il nuovo linguaggio. Nuovo linguaggio, nuovo atteggiamento. I nostri Paesi non vanno molto d'accordo con i loro popoli e vanno ancora meno d'accordo con i loro vicini, e questa è una lunga e triste storia di divorzi. Ma le più recenti riunioni internazionali - a Cancun, a Monterrey- sono state scosse da un salutare soffio d'aria nuova. Dopo tanti anni di solitudine, noi deboli stiamo iniziando a capire che separati siamo spacciati. Ormai pochi credono come il presidente uruguaiano Jorge Batlle, che possiamo ancora aspirare ad essere mendicanti felici. Perfino i più testoni si stanno convincendo del fatto che in questo vasto crogiuolo di umiliazioni, dove i potenti praticano impunemente il protezionismo commerciale, l'estorsione finanziaria e la violenza militare, la dignità o è condivisa o non c'è. Bisognerebbe sbrigarsi, dico io, prima di diventare come quelle foto che ci stanno arrivando da Marte. (Foto: betulla64)
da Il Manifesto, 27 gennaio 2004
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Ogni volta che vado a Roma, dopo essermi preoccupata di stare male durante tutto il viaggio, dopo essermi premunita stando male in anticipo per quanto starò male dopo, e dopo aver finalmente respirato a pieni polmoni il cielo di quella città che è casa come nessun altro posto al mondo saprebbe essere, ebbene, dopo tutto ciò, regolarmente, mi si spezza il cuore e mi si incrina la coscienza.
Per una montanara abituata a percorrere l'intero centro del proprio villaggio in una manciata di minuti salutando i passanti ad una media di tre al secondo, Roma è decisamente destabilizzante. Se poi, invece di stare con lo sguardo incollato ai monumenti e alle Chiese, si decide di posare lo sguardo sui marciapiedi, ci si rende conto che il mondo vero è lì, in mezzo alle cartacce, alle cicche spente tra orli di impolverate gonne zingare, o lì, sui moncherini di arti saltati chissà dove e chissà in nome di quale dio.
Sulla strada vicino casa c'è spesso un vecchio, o almeno c'era l'ultima volta. Indossa un copricapo ricamato di foggia caucasica e sta lì sul marciapiede tutto il giorno e snocciola un rosario di parole in una lingua oscura, chissà se supplica o maledizione ai passanti. E io passo e tiro dritto. Tiro sempre dritto, o quasi. Perchè sono tanti, perchè non ho abbastanza monetine in tasca mentre dentro una voce mi urla che nessuno mi vieta di allungare loro una banconota. Perchè a volte penso che siano mattacchioni che hanno trovato un modo originale per irridere la fatica. Perchè ci raccontano che sono disgraziati gestiti dalla criminalità e che aiutarli è come foraggiare la mafia. Me la dice la sinistra questa cosa qua, quella sinistra che va a farsi le canne davanti al Parlamento, come se la Marijuana fosse legalmente distribuita dalla Caritas. E perchè mi hanno tirata su a forza di "non sappia la tua mano destra quel che fa la sinistra", mentre questo mondo sfrontato ci costringe a esibire la vergogna della mendicità e il pudore della carità. E così tiro dritto e lascio che ogni volta si infranga un pezzo di me e ho paura che alla fine resti solo un enorme buco dove prima c'ero io.
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Il primo giorno di questo anno, la libertà ha compiuto due secoli di vita nel mondo. Nessuno se n'è accorto, o quasi nessuno. Pochi giorni dopo, il paese del compleanno, Haiti, ha occupato qualche spazio nei mezzi di comunicazione; ma non per l'anniversario della libertà universale, bensì perché là si è scatenato un bagno di sangue che ha finito per rovesciare il presidente Aristide. Haiti fu il primo paese dove la schiavitù venne abolita. Tuttavia, le enciclopedie più diffuse e quasi tutti i testi scolastici attribuiscono all'Inghilterra quello storico onore. È vero che un bel giorno cambiò idea l'impero che era stato campione mondiale di traffico negriero; ma l'abolizione britannica avvenne nel 1807, tre anni dopo la rivoluzione haitiana, e risultò così poco convincente che nel 1832 l'Inghilterra dovette tornare a proibire la schiavitù.
Non c'è niente di nuovo nel fatto che Haiti venga ignorato. Da due secoli è vittima di disprezzo e castigo. Thomas Jefferson, padre della libertà e proprietario di schiavi avvisava che da Haiti veniva il cattivo esempio, e diceva che bisognava «confinare la peste su quell'isola». Il suo paese lo ascoltò. Gli Stati Uniti impiegarono sessant'anni a concedere il riconoscimento diplomatico alla più libera fra le nazioni. Nel frattempo, in Brasile si chiamava haitianismo il disordine e la violenza. I padroni delle braccia nere si salvarono dall'haitianismo fino al 1888. Quell'anno il Brasile abolì la schiavitù. Fu l'ultimo paese al mondo.
Haiti è ritornato a essere un paese invisibile, fino alla prossima strage. Mentre è rimasto sugli schermi e sulle prime pagine, all'inizio di quest'anno, i media hanno trasmesso confusione e violenza e hanno confermato che gli haitiani sono nati per fare bene il male e per fare male il bene. Dai tempi della rivoluzione, Haiti è stata capace di offrire solo tragedie. Era una colonia prospera e felice e adesso è la nazione più povera dell'emisfero occidentale. Le rivoluzioni, hanno concluso alcuni specialisti, conducono all'abisso. E alcuni hanno detto, e altri hanno suggerito, che la tendenza haitiana al fratricidio proviene dall'eredità selvaggia che viene dall'Africa. Il mandato degli antenati. La maledizione nera, che spinge al crimine e al caos.
Della maledizione bianca non si è parlato.
La rivoluzione francese aveva eliminato la schiavitù, ma Napoleone l'aveva resuscitata:
- Qual è stato il regime più prospero per le colonie?
- Quello anteriore
- E allora che venga restaurato.
E per tornare a impiantare la schiavitù ad Haiti mandò più di cinquanta navi piene di soldati. I neri ribelli vinsero la Francia e conquistarono l'indipendenza nazionale e la liberazione dagli schiavi. Nel 1804 ereditarono una terra bruciata dalle devastanti piantagioni di canna da zucchero e un paese bruciato dalla guerra feroce, ed ereditarono "il debito francese". La Francia fece pagare cara l'umiliazione inflitta a Napoleone Bonaparte. Poco dopo la sua nascita, Haiti dovette impegnarsi a pagare un indennizzo gigantesco per il danno che aveva fatto liberandosi. Quella espiazione del peccato della libertà le costò 150 milioni di franchi d'oro. Il nuovo paese nacque strangolato da quella corda legata al collo: una fortuna che attualmente equivarrebbe a 21.700 milioni di dollari o a 44 bilanci generali dell'Haiti dei giorni nostri. Molto più di un secolo ci volle per pagare il debito, che gli interessi di usura andavano moltiplicando. Nel 1938 si ebbe, finalmente, la redenzione finale. A quel tempo, Haiti apparteneva ormai alle banche degli Stati Uniti.
In cambio di quel capitale, la Francia riconobbe ufficialmente la nuova nazione. Nessun altro paese la riconobbe. Haiti era nata condannata alla solitudine.
Nemmeno Simón Bolívar la riconobbe, anche se le doveva tutto. Navi, armi e soldati gli aveva dato Haiti nel 1816, quando Bolívar arrivò sull'isola, sconfitto, e chiese protezione e aiuto. Haiti gli diede tutto, con l'unica condizione che liberasse gli schiavi, un'idea che fino ad allora non gli era venuta in mente. Poi, il padre della patria trionfò nella sua guerra d'indipendenza, ed espresse la sua gratitudine mandando a Port-au-Prince una spada in regalo. Di riconoscimento neanche a parlarne.
In realtà, le colonie spagnole che erano diventate paesi indipendenti continuavano ad avere schiavi, sebbene alcune avessero, inoltre, leggi che lo proibivano. Bolívar promulgò la sua nel 1821, ma la realtà non mostrò di accorgersene. Trent'anni dopo, nel 1851, la Colombia abolì la schiavitù, e nel 1854 il Venezuela.
Nel 1915 i marines sbarcarono ad Haiti. Vi rimasero diciannove anni. La prima cosa che fecero fu occupare la dogana e l'esattoria. L'esercito di occupazione trattenne il salario del presidente haitiano finché non si rassegnò a firmare la liquidazione del Banco de la Nación, che divenne una succursale della City Bank di New York. Al presidente e a tutti gli altri neri era proibita l'entrata negli hotel, ristoranti e club esclusivi del potere straniero. Gli occupanti non osarono ristabilire la schiavitù, ma imposero il lavoro forzato per le opere pubbliche. E uccisero molto. Non fu facile spegnere i fuochi della resistenza. Il capo guerrigliero, Charlemagne Péralte, inchiodato in croce contro una porta, fu esposto, per monito, sulla pubblica piazza.
La missione civilizzatrice si concluse nel 1934. Gli occupanti si ritirarono lasciando al suo posto una Guardia Nazionale, fabbricata per loro, per sterminare qualsiasi possibile rigurgito di democrazia. Lo stesso fecero in Nicaragua e nella Repubblica Dominicana. Qualche tempo dopo, Duvalier fu l'equivalente haitiano di Somoza e di Trujillo.
E così, di dittatura in dittatura, di promessa in tradimento, si andarono accumulando le sventure e gli anni.
Aristide, il prete ribelle, arrivò alla presidenza nel 1991. Durò pochi mesi. Il governo degli Stati Uniti aiutò a rovesciarlo, se lo portò via, lo sottopose a trattamento e una volta riciclato lo restituì, nelle braccia dei marines, alla presidenza. E un'altra volta ha aiutato a rovesciarlo in quest'anno 2004, e un'altra volta c'è stata una strage, e un'altra volta sono tornati i marines, che tornano sempre, come l'influenza.
Ma gli esperti internazionali sono molto più devastanti delle truppe d'invasione. Paese sottomesso agli ordini della Banca Mondiale e del Fondo Monetario, Haiti aveva obbedito alle loro istruzioni senza batter ciglio. Lo ripagarono negandogli il pane e il sale. Gli congelarono i crediti, nonostante avesse smantellato lo stato e avesse liquidato tutti i dazi e i sussidi che proteggevano la produzione nazionale. I contadini coltivatori di riso, che erano la maggioranza, divennero mendicanti e boat people. Molti sono finiti e continuano a finire nelle profondità del mar dei Caraibi, ma quei naufraghi non sono cubani e rare volte compaiono sui giornali.
Adesso Haiti importa tutto il suo riso dagli Stati Uniti, dove gli esperti internazionali, che sono persone piuttosto distratte, si sono dimenticati di proibire i dazi e i sussidi che proteggono la produzione nazionale.
Sulla frontiera dove termina la Repubblica Dominicana e inizia Haiti, c'è un grande cartello che avvisa: Lasciate ogni speranza...
Dall'altra parte c'è l'inferno nero. Sangue e fame, miseria, peste...
In quell'inferno tanto temuto, tutti sono scultori. Gli haitiani hanno l'abitudine di raccogliere lattine e ferri vecchi e con antica maestria, ritagliando e martellando, le loro mani creano meraviglie che si offrono nei mercati popolari.
Haiti è un paese gettato nella spazzatura, per eterno castigo della sua dignità. Giace là come se fosse un rottame. Attende le mani della sua gente.
Eduardo Galeano - Buenos Aires, 4 aprile 2004
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Ci ho messo un poco a tradurre questo articolo di Galeano, giusto il tempo di finire e accorgermi che Il Manifesto lo aveva fatto tre anni fa assai meglio di me. Ma sono orgogliosa e pubblico la mia versione. Per chi volesse leggere qualla del Manifesto cliccate qui . Se invece volete godere di goduria pura e leggervelo in lingua originale, fate un sospirone profondo e cliccate qui Chi possiede l'acqua? La scimmia che possiede il randello. La scimmia disarmata muore di sete. Questa lezione preistorica apre il film 2001, Odissea nello spazio. Per l'odissea del 2003, il presidente Bush ha fatto un preventivo militare di mille milioni di dollari al giorno. L'industria di armamenti è l'unico investimento degno di fiducia: ci sono argomenti che non si possono ribattere, nel prossimo Summit Mondiale a Johannesburg o in qualsiasi altra conferenza Internazionale. Le potenze padrone del pianeta ragionano bombardando. Esse sono il potere, un potere geneticamente modificato, un gigantesco Frankenpower che umilia la natura: esercita la libertà di traformare l'aria in lerciume e il diritto di lasciare l'umanità senza una casa; chiama errori i suoi orrori, schiaccia chi si pone sul suo cammino, è sordo agli allarmi e rompe ciò che tocca. Si innalzano i mari, e le terre basse restano per sempre sott'acqua. Questo parrebbe una metafora sullo sviluppo economico del mondo così com'è, invece no: si tratta di una fotografia del mondo così come sarà, in un futuro non troppo lontano, secondo le previsioni degli scienziati consultati dalle Nazioni Unite. Durante gli ultimi due decenni, le profezie degli ecologisti si sono meritate burla o silenzio. Ora gli scienziati danno loro ragione. E il tre di giugno di quest'anno, perfino il presidente Bush non ha potuto evitare di ammettere, per la prima volta, che sarà un disastro se il riscaldamento globale continuerà sul pianeta. Il Vaticano riconosce che Galileo non si era sbagliato, commenta il giornalista Bill McKibben. Però niente è perfetto: allo stesso tempo, Bush annunciava che gli Stati Uniti aumnteranno di un 43% nei prossimi dieci anni, le emissioni di gas che intossicano l'atmosfera. Da punto a capo, lui presiede di un paese di macchine che funzionano mangiando petrolio e vomitando veleno: più di duecento milioni di automobili, e meno male che i neonati non guidano. Alla fine dello scorso anno, in un discorso, Bush esortò alla solidarietà, e fu capace di definirla: "Lascia che i tuoi bambini lavino l'auto del tuo vicino". La politica energetica del paese leader del mondo è dettata dagli affari terreni, che dicono di obbedire direttamente al cielo. Trasmetteva messaggi divini l'impresa Enron, fallita per truffa, che fu la prima sosteitrice del governo e la principale finanziatrice delle campagne elettorali di Bush e della maggioranza dei senatori. Il gran capo della Enron, Kennet Lay, soleva dire: "Credo in Dio e credo nel mercato". E il suo predecessore aveva un motto simile: "Noi siamo al fianco degli angeli". Gli Stati Uniti praticano il terrorismo ambientale senza il minimo rimorso, come se il Signore avesse loro elargito un certificato di impunità per aver smesso di fumare. "La natura è molto stanca" scriveva il frate spagnolo Luis Alfonso de Carvallo. Era il 1695. Se ci vedesse ora. Una gran parte della mappa dei Spagna sta restando senza terra. La terra se ne va; e più presto che tardi, entrerà la sabbia dalle fessure delle finestre. Della macchia mediterranea resta in piedi il quindici per cento. Un secolo fa, i boschi coprivano la metà dell'Etiopia, che oggi è un vasto deserto. L'amazonia brasiliana ha perso foreste di dimensioni della Francia. In Centro America, diquesto passo, presto siconteranno gli alberi così come un calvo conta i suoi capelli. L'erosione scaccia i contadini del Messico, che se ne vanno dalla campo o dal paese. Più si degrada la terra, più occorre usare fertilizzanti e pesticidi.Secondo la Organizzazione Mondiale della Sanità, questi aiuti chimici uccidono tre milioni di agricoltori all'anno. Così come le lingue e le culture, stanno morendo le piante e gli animali. Le specie spariscono al ritmo di tre per ora, secondo il biologo Edward O. Wilson. E non solo per la deforestazione e la contaminazione: la produzione su grande scala, la agricoltura da esportazione e l'uniformarsi dei consumi stanno annichilendo la diversità. Si fa fatica a credere che solo un secolo fa c'eranonelmondo più di cinquecento varietà di lattuge 287 tipi di carote. E 220 varietà di patate, solo in Bolivia. Si distruggono i boschi, la terra diventa deserto, si avvelenano i fiumi, si sciolgono i ghiacciai ai poli e le nevi sulle alte cime. In molti luoghi la pioggia ha smesso di piovere. E in molti altri piove come se si spalancasse il cielo. Il clima mondiale è pronto per il manicomio. Le innondazioni e le siccità, i cicloni e gli incendi incontrollabili sono sempre meno naturali, benchè i media insistano, contro ogni evidenza, a chiamarli così. E sembra una battuta amara che le Nazioni Unite abbiano chiamato gli anni novanta Decennio Internazionale per la Riduzione dei Disastri Naturali. Riduzione? Questo è stato il decennio più disastroso.Ci sono state ottantasei catastrofi, che hanno provocato cinque volte i morti delle guerre in questo periodo.Quasi tutti, il 96% per essere precisi, sono morti nei paesi poveri, che gli esperti si ostinano a chiamare "paesi in via di sviluppo". Con devozione e entusiasmo, il sud del mondo copia, e moltiplica, le pegiori abitudini del nord. E dal nord non riceve le virtù, ma il peggio: fa propria la religione nordamericana dell'automobile e il suo disprezzo per il trasporto pubblico, e tutta la mitologia della libertà di mercato e della società consumistica. E il sud così riceve a braccia aperte, le industrie più inquinanti, le più nemiche della natura, in cambio di salari che fanno venire nostalgia della schiavitù. Eppure, ogni abitante del nord consuma, in media, dieci volte in più di petrolio, gas e carbone; e nel sud solo una persona du cento possiede un'auto propria. Golosità e digiuno del menù ambientale: il 75% della contaminazione del mondo proviene dal 25% della popolazione. E in questa minoranza non figurano, ci mancherebbe, i milleduecento milioni che vivono senza acqua potabile, nè il miliardo e cento milioni di persone che ogni notte vanno a dormire conla pancia vuota. Non è "l'umanità" la responsabile dello spreco delle risorse naturali, nè del'imputridimento dell'aria, della terra e dell'acqua. Il potere fa spallucce: quando quersto pianeta smetterà di rendere, mi trasferirò in un altro. La bellezza è bella se si può vendere e la giustizia è giusta se si può comprare. Il pianeta viene assassinato dal modello di vita, così come siamo paralizzati dalle macchine inventate per accelerare il movimento e ci isolano in città create per l'incontro. Le parole perdono sentimento, mentre perdono i loro colori il mare verde e il cielo azzurro, che erano stati dipinti grazie alla gentilezza delle alghe che hanno rilasciato ossigeno per tre milioni di anni. Questi luccichii nella notte ci stanno spiando? Le stelle tremano di stupore e di paura. Loro non son riescono a capire come continui a girare, ancora in vita, questo nostro mondo, dedicato con tanto fervore al proprio annientamento. E rabbrividiscono di paura, perchè hanno visto che questo mondo già è pronto ad invadere altre stelle nel cielo. Eduardo Galeano Tratto da: Brecha, Montevideo, 16 agosto 2002 (Foto: betulla64 - alba sull'Atlantico)
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Ho la sensazione spiacevolissima di aver perso il controllo su tutto. Je ne vais plus pleurer (J. Brel)
Non ho più il controllo del mio corpo, che reagisce come impazzito ad ogni minimo stimolo che con naturalezza il mio cervello invia, semplicemente perchè una stupidissima ghiandola ha deciso anarchicamente di non appartenere al corpo che la ospita e quindi di gestirsi da sè.
Non ho più il controllo della mia vita, che viene gestita sadicamente da un me nascosto chissà dove, il quale si diverte da morire a fare i giochetti che fa con Amelie. Io non ho la vasca da bagno su cui vederlo appollaiarsi, ma ne sento la presenza costante.. E' lui che ha il controllo delle mie gambe, del mio cuore, del mio futuro.
Non ho il controllo sulle relazioni. Surrogo qui le amicizie che non so conquistarmi fuori, conscia di quanto sia mutilata la mia vita sociale, dipendendo da una bustina che lampeggia o dall'improvvisa chiusura di un blog su cui magari avevo sperato un po' di più.
Nemmeno sui sentimenti ho il controllo. Sono troppo dipendente da coloro che amo per potermi permettere il lusso di scegliere, così come non ho mai la certezza di essere amata, prevalendo il dubbio di venir compatita.
E' una stanchezza infinita quella che segue a queste incertezze. E' la voglia di rintanarsi in un cantuccio e dire basta a un gioco che non è mai piaciuto ma che ostinatamente mi fanno giocare. Tre pillole sul tavolo, a decidere per me.
Il gioco è semplice: devo solo ingoiarle.
Je ne vais plus parler
Je me cacherai là
A te regarder
Danser et sourire
Et à t'écouter
Chanter et puis rire
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Giornata di Compleanni questa. Mi è tornata alla mente la mia prima festa di Compleanno seria. Avevo sei anni, facevo la prima elementare ed avevo appena scoperto l'esistenza delle classi sociali: esistevano le figlie del Farmacista, i figli del Maresciallo, le figlie del Commissario e tutti questi parlavano italiano; poi esistevamo noi, contadini figli di questa terra, che parlavamo la lingua nostra. I primi portavano blue jeans e scarpe da tennis, noi calze di lana e scamiciati fatti in casa. Loro avevano le cartelle plastificate con sopra Topo Gigio, noi la cartella marrone di cartone. Tirando le somme mi parve normale che ad adeguarsi linguisticamente non fossero i figli dei notabili e così imparai l'italiano. Doveva essere primavera quando la figlia minore del Commissario compì gli anni ed invitò tutta la classe nella caserma della Polizia per una festa. La bambina si chiamava Melania e solo pronunciarne il nome faceva volare la mai fantasia provocandomi grande agitazione, accompagnata da febbre e borbottii di pancia. La caserma si trovava in un edificio che ora mi pare normale, ma allora mi dava l'impressione di essere imponente e quello che ora appare come un leggero rialzo di una parte del tetto a me sembrava la torre di un castello. Non ho il ricordo di giochi, di vestiti o altro, l'unico ricordo netto, limpido, è un salone enorme rispetto alla piccola cucina di casa mia, e una tavola imbandita di ogni ben di Dio. C'erano vassoi colmi di pizzette e pasticcini che io guardavo senza osare avvicinarmi perchè mi era stato raccomandato di aspettare che la mamma di Melania offrisse e di non fare figuracce. Dopo un po' la signora si accorse di me e, bella come la Fata delle favole, mi prese per mano e mi portò vicino al tavolo, dove scorsi tra tutte le prelibatezze un piatto su cui erano stati disposti tanti grissini attorno ai quali erano state arrotolate enormi fette di prosciutto crudo. La Fata mi mise in mano uno di quei grissini e io diedi un morso, sentendo un arcobaleno di sapori sprigionarsi tra le labbra. Da allora e per tutta la vita, quando vedo un grissino e del prosciutto, non posso fare a meno di fare il rotolo, ringraziando silenziosamente la Fata per avermi insegnato che anche i ricchi mangiano con le mani. (Foto: betulla64 a 5 anni)
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Quando le piacciono i regali, concede il favore della sua protezione. Quando li rifiuta, e restituisce alla spiaggia sabbiosa i candidi fiori, gli specchi, i ventagli, i pettini, i profumi e i dolciumi, i pescatori tremano: avranno un pessimo anno, un anno di poco pesce e molti pericoli, e più di uno sarà inghiottito in alto mare affinchè Iemanyà calmi la sua furia e le sue voglie di donna.
(Eduardo Galeano - Las palabras andantes)
(Foto: Josè F. Borges - La Sereia e os Passaros)
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Cuerpo de mujer, blancas colinas, muslos blancos,
te pareces al mundo en tu actitud de entrega.
Mi cuerpo de labriego salvaje te socava
y hace saltar el hijo del fondo de la tierra.
Fui solo como un túnel. De mí huían los pájaros
y en mí la noche entraba su invasión poderosa.
Para sobrevivirme te forjé como una arma,
como una flecha en mi arco, como una piedra en mi honda.
Pero cae la hora de la venganza, y te amo.
Cuerpo de piel, de musgo, de leche ávida y firme.
¡ Ah los vasos del pecho ! ¡ Ah los ojos de ausencia !
¡ Ah las rosas del pubis ! ¡ Ah tu voz lenta y triste !
Cuerpo de mujer mía, persistiré en tu gracia.
¡ Mi sed, mi ansía sin límite, mi camino indeciso !
Oscuros cauces donde la sed eterna sigue,
y la fatiga sigue, y el dolor infinito.
(Pablo Neruda)
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E se non c'è più religione
andremo a casa un'ora prima...
(Alessandro Bergonzoni)
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Grazie a Quotidianamente H.
...Il capitano arrivò, lesse il biglietto, squadrò l'uomo da capo a piedi, e gli rivolse la domanda che il re aveva dimenticato di fare, Sapete navigare, avete la patente nautica, al che l'uomo rispose, Imparerò dal mare....
(Josè Saramago, Racconto dell'Isola sconosciuta)
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Caminante, son tus huellas el camino y nada mas; caminante non hay camino; se hace el camino al andar.
(Antonio Machado)
Parole al vento...
cun tucte le tue creature..."
"El bosque precede al ombre
pero le sigue el desierto"
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