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Rivista di approfondimento culturale e politico dell'Associazione SocialismoeSinistra
 

 

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La partecipazione agli utili aziendali

Post n°277 pubblicato il 07 Settembre 2009 da socialismoesinistra

          

        

          

            La recente proposta tremontiana di far partecipare i lavoratori agli utili aziendali non sembra avere seguito nelle riflessioni politiche, nelle feste di partito, nella ripresa post ferragostana.

            Probabilmente se ne tornerà a discutere per cui conviene da subito chiarirci le idee ed impostare in modo corretto il problema; anche se è difficile impostare in modo corretto il problema quando tale proposta è stata lanciata come un annuncio, senza mettere a conoscenza delle modalità di applicazione di tale proposta.

            La CGIL ha fatto una breve dichiarazione in cui fa rilevare che parlare di partecipazione agli utili in un momento in cui all’ordine del giorno ci sono i licenziamenti e la perdita di posti di lavoro, è quanto meno, asincronico.

            Il PD Cesare Damiano propone, per le grandi aziende, l’applicazione di un modello di partecipazione che consenta la partecipazione dei lavoratori nei comitati di sorveglianza. Dello stesso tono l’art. 3 del disegno di legge in esame al Senato a firma Castro (Pdl) e Treu (Pd) ed elaborato da Ichino, che prevede che nel caso si sia optato per il cosiddetto metodo duale per la governance aziendale, si possano costituire i consigli di sorveglianza all’interno dei quali debbano esserci i rappresentanti dei lavoratori.

            Da parte del governo Giuliano Cazzola (Pdl) è interessato a bruciare i tempi “Fino ad oggi i maggiori problemi a disciplinare la partecipazione dei lavoratori li ha avuti la sinistra. Speriamo che li abbia superati”.

            Da parte di Confindustria c’è attenzione anche se c’è anche la contrarietà che la partecipazione agli utili esondi in controllo delle procedure decisionali delle aziende (cogestione).

 

            Se partiamo dalla premessa che la crisi che stiamo attraversando richiede di rivedere i meccanismi con i quali il turbocapitalismo ha portato il mondo economico ad una crisi che non si vuol che si ripeta, allora tutte le proposte sono legittime e vanno discusse.

            Tremonti inquadra la sua proposta nel disegno più ampio dell’”economia sociale di mercato”; un capitalismo dal volto umano in cui la partecipazione agli utili dovrebbe garantire una maggior responsabilità del mondo del lavoro per l’andamento aziendale. Peraltro la proposta di premiare i contratti di secondo livello detassando gli aumenti di salario legati alla produttività, aggiungeva anche una liason alla redditività aziendale. La proposta governativa tasserebbe al 10% secco la distribuzione di utili ai lavoratori.          

            Se questa è la strategia è facile leggervi questi obiettivi: a) se non ci sono profitti non si avanzino rivendicazioni salariali; b) se ci sono profitti la distribuzione di parte di essi ai lavoratori con modalità e quantità che la governance aziendale riterrà di poter determinare dovrebbe tacitare ogni altra pretesa sindacale. Pare evidente l’intenzione di togliere terreno di trattativa di competenza sindacale per subordinare, ancora una volta, i meccanismi retributivi all’egemonia del capitale.

            Ciò che è importante sottolineare è il fatto che questa proposta assume contorni paternalistici nella misura in cui esclude ogni possibilità da parte del mondo del lavoro di poter entrare e determinare o almeno concorrere a determinare il quantum della sua retribuzione.

            La distribuzione degli utili ai lavoratori, assume una connotazione caritatevole che dipende da: a)dalla capacità di conduzione della gestione aziendale dalla quale il mondo del lavoro è escluso; b) disponibilità di capitale messa a disposizione dal capitalista; c) politica degli investimenti e delle strategie aziendali; d) politiche di innovazione produttiva e distributiva; e) politiche di redazione del bilancio così importanti per la determinazione degli utili da distribuire.

            Insomma chi partecipa agli utili partecipa a qualcosa che non ha alcuna possibilità di determinare o di concorrere a determinare, se non la padronale direttiva di “lavora e taci”.

            Altro sarebbe una politica di incentivazione basata sull’aumento della produttività alla determinazione dei livelli della quale il mondo del lavoro abbia una capacità decisionale e fondi messi a disposizione dal budget aziendale.

            Mi spiego; nella contrattazione sindacale si concorda un fondo per l’innovazione e per lo sviluppo della produttività (nel protocollo del 1993 la moderazione salariale doveva favorire superprofitti da destinare all’incremento della produttività. Il fallimento di quel protocollo consistette nel fatto che i salari furono (e sono ancora) moderati ma i profitti non furono destinati al fondo per l’innovazione e per lo sviluppo della produttività che io propongo.

            Tale fondo viene gestito da un organismo deliberativo eletto tra i lavoratori e con lo scopo di individuare investimenti da fare, nuove procedure di lavorazione, progetti di innovazione etc. anche su base cogestita.

            Gli incrementi di produttività si riflettono sui livelli remunerativi derivanti dalla trattativa sindacale.

 

             Non è chi non veda, in questa proposta, un rinvio  al “Consigli” gramsciani dell’Ordine Nuovo dai quali confesso la provenienza; ma vorrei togliere a questa proposta una patina di mitizzazione della figura operaia che in effetti, se non meglio articolata, rischierebbe di avere. Mi riferisco all’elemento “general intellect” introdotto da Marx nei Grundisse; voglio cioè sottolineare che la iniziativa del mondo del lavoro deve esaltare i nuovi modi di produrre caratterizzati da una shumpeteriana necessità di innovazione e non deve essere per nulla configurarsi come un arroccamento corporativo del mondo del lavoro.

            Se l’obiettivo è il superamento delle catastrofi che il turbocapitalismo ha procurato e procura, la proposta fatta non è assolutamente sufficiente a realizzare quell’obiettivo. La proposta rappresenterebbe una piccola riforma di struttura cui ne andrebbero affiancate altre. Più che di affiancamento sarebbe più corretto parlare di inquadrare quella riforma di struttura nel disegno più complessivo di una programmazione che assicuri l’equilibrio della produzione e quindi la ripartizione del prodotto tra investimenti e consumi; combatta il “reddito non guadagnato” (rendite, rendita ricardiana, bolle speculative, etc).

            Si dice che la sinistra non abbia proposte alternative al liberismo imperante; io penso che al contrario proposte ci siano, che esse vadano discusse ed approfondite ma che soprattutto ci sia la volontà politica di farne oggetto di un programma a lungo termine per una nuova sinistra che prepari un nuovo centrosinistra.

 

Renato Gatti 

 
 
 
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