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Messaggi di Maggio 2019

MMT: “problema non è la teoria, ma uso che se ne farà”

Post n°4449 pubblicato il 31 Maggio 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 31 Maggio 2019, di Alberto Battaglia 

 

Il mondo dell’accademia è sempre stato scettico nei confronti della cosiddetta Modern Money Theory, una scuola di pensiero economico alternativa che mai ha avuto grande credito o attenzione, se non in tempi piuttosto recenti. Fra i sostenitori più in vista di un approccio più favorevole alla spesa in deficit tramite monetizzazione del debito pubblico (cioè attraverso la stampa di moneta sovrana) spicca ad esempio l’investitore Ray Dalio (Bridgewater Associates). Anche l’ala sinistra dei Democratici negli Stati Uniti stanno accarezzando l’idea che questa teoria possa essere parte di un piano di investimenti volti a creare le condizioni di una maggiore equità sociale.

Secondo Robert Dugger, managing partner presso Hanover Provident Capital, il punto cruciale non sarebbe tanto decidere se più deficit pubblico sostenuto dalla banca centrale sia utile o no in principio. Di fatto, negli anni Trenta e Quaranta qualcosa di molto simile alla MMT era già stato messo in pratica negli stessi Stati Uniti. Secondo Dugger, si trattò di “una componente naturale delle risposte del governo alle principali flessioni economiche causate dal debito e alle crisi politiche che esse provocano”.

La vera questione per i decisori politici sarebbe, al contrario, individuare quali spese sarebbe sensato finanziare tramite il ritrovato coordinamento di politica monetaria e fiscale. “Il test politico per giustificare la spesa pubblica finanziata dalla MP3 [la terza fase della politica monetaria, secondo la definizione di Ray Dalio per MMT] è chiaro: sarà il giudizio che daranno le generazioni future sui debiti di oggi. La maggior parte degli americani nati molto dopo la seconda guerra mondiale affermavano che il debito contratto per vincere quella guerra era giustificato, così come lo era il debito che finanziava la costruzione del Sistema autostradale interstatale”. Diremmo lo stesso delle politiche che vorrebbero finanziare i sostenitori della MMT?

“Per accelerare la ripresa dalla prossima recessione, dobbiamo identificare sin d’ora i tipi di spesa che contribuiranno maggiormente alla ripresa sostenibile e che a ben vedere saranno considerati i più giustificati dagli americani di domani”, afferma Dugger su Project Syndacate, “dobbiamo anche progettare quelle istituzioni che si incaricheranno di dirigere la spesa. Queste sono le chiavi per costruire l’unità politica richiesta dalla MMT. Per sapere cosa finanziare e come, i futuri americani possono indicarci la strada” conclude, Dugger, “dobbiamo solo metterci nei loro panni”.

 

 
 
 

Università: dopo i mutui subprime, potrebbe scoppiare la bolla dei prestiti studenteschi

Post n°4448 pubblicato il 31 Maggio 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Mondo | 28 Maggio 2019 

 

Negli Stati Uniti la crisi dei prestiti universitari ha raggiunto una cifra iperbolica, producendo 1.560 miliardi di debiti, l’8% del prodotto interno lordo del paese. Ogni ex studente si è caricato un debito di quasi 30mila dollari; e per farlo studiare, la famiglia si è indebitata a sua volta per più di 35mila. Il fardello affligge non soltanto i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro, ma anche gli anziani pensionati.

Tre milioni di americani con più di 60 anni devono restituire oltre 86 miliardi di dollari in prestiti studenteschi ancora da pagare. “Una montagna che non potrò mai scalare, sono terrorizzata” ha raccontato in televisione un’anziana consulente familiare di 76 anni, ancora gravata da un debito di 40mila dollari che potrebbe seguirla nella tomba.

Il debito universitario che gli ex studenti americani si trascinano per anni e anni, lungo la propria carriera lavorativa e anche oltre, potrebbe diventare un tema importante della campagna presidenziale del 2020, forse più delle pulsioni protezionistiche degli agricoltori e degli operai. Non bastano i gesti esemplari di remissione del debito da parte dei filantropi, come Robert Smith e Ken Langone, per sanare la piaga. Alcuni economisti prevedono che, entro il 2023, il 40% dei mutuatari potrebbe non onorare il debito contratto, con un impatto paragonabile a quello della crisi dei mutui subprime.

La senatrice Elizabeth Warren, candidata democratica, propone di cancellare fino a 50mila dollari di debito dovuto ai prestiti d’onore, un sollievo per 45 milioni di americani. Una virata completa poiché, negli ultimi anni, l’amministrazione di Donald Trump e i governi statali hanno preferito tagliare le tasse a miliardari e corporate; e scaricare il costo dell’istruzione superiore sugli studenti e sulle loro famiglie. La remissione del debito formativo sarà un tema rilevante della prossima campagna elettorale, così come lo furono i temi sollevati da Bernie Sanders e accantonati dai dirigenti democratici, con il prevedibile effetto di condurre Trump alla vittoria del 2016.

Negli Usa, oltre il 66% dei laureati da università pubbliche e il 75% da quelle private ha contratto prestiti d’onore. Se, oltre al debito per la laurea, si considera quello per la specializzazione, la somma aumenta vertiginosamente: dai 50mila dollari di chi opera nel campo scientifico ai 140mila di un avvocato e ai 160mila di un medico. Circa il 12% dei debitori sono in ritardo o addirittura in default. E la questione del debito formativo – quello in soldoni e non quello figurativo che accomuna l’Europa dei crediti formativi universitari – ha molte sfaccettature.

Il debito formativo influenza fortemente la vita privata, soprattutto quella matrimoniale. Le coppie gravate da questo tipo di debiti hanno maggiori probabilità di ritardare il divorzio a causa dei costi legali, che negli Stati Uniti possono arrivare a 20mila dollari se ci sono figli. Inoltre, questo debito è un fattore che favorisce i divorzi, come afferma il 13% degli intervistati da Student Loan Hero.

Non è soltanto una storia americana, come racconto in Morte e Resurrezione delle Università. Nel Regno Unito gli studenti si laureano sotto il peso di un debito che può arrivare a 50mila sterline, da ripianare una volta trovato lavoro. Quando diventa tassativo ottenere un voto eccellente per garantirsi qualche borsa di studio, e poi un impiego ben pagato, la pressione sale e diventa insopportabile per chi non riesce a reggere lo stress. E nel 2015 più di 100 studenti si sono tolti la vita. Fenomeni analoghi si stanno registrando in India, dove la questione tocca soprattutto chi si perfeziona all’estero, e anche in Cina.

In Italia? Nel 2018 il Miur aveva inviato un questionario agli studenti universitari per valutare l’eventuale introduzione del prestito d’onore come metodo di pagamento dei costi dell’istruzione universitaria, sulla quale il paese investe una quota di Pil tra le più basse dei paesi dell’Ocse. La questione è tuttora controversa e non emerge ancora una tendenza precisa, anche se appare già evidente che i destinatari non applaudirebbero a questa novità. Ma nessuno dubita che la trasformazione dell’educazione dei cittadini in un’operazione finanziaria farebbe abbassare ulteriormente l’attuale quota, già imbarazzante, di laureati del nostro paese, circa il 18% della popolazione contro una media Ocse del 37 per cento.

Mondo | 28 Maggio 2019

 

 

 
 
 

Deficit, Ue chiede lumi all’Italia. “Spread a 300 poi crollerà”

Post n°4447 pubblicato il 29 Maggio 2019 da ninograg1
 

Fonte: W.S.I. 29 Maggio 2019, di Daniele Chicca

 

Il governo ha appena ricevuto una lettera in cui la Commissione Europea chiede spiegazioni sulla mancata riduzione della traiettoria del debito e sulla violazione delle regole sul deficit. La missiva, che porta la firma di del vice presidente dell’organo esecutivo europeo Valdis Dombrovskis e del commissario agli Affari Economici Pierre Moscovici, dice che le stime economiche del governo (su cui si basavano i conti dell’ultima legge di bilancio) sono state smentite dai fatti.

A essersi rivelate scorrette, secondo le rilevazioni degli specialisti della Commissione, sono soprattutto le aspettative di crescita economica, con conseguenze dirette sul debito e sul deficit. La conseguenza di tutto ciò è che “alla luce dei dati economici definitivi, è confermato che l’Italia non ha rispettato la regola del debito” pubblico nel 2018.

Il rischio per Roma è di incorrere in sanzioni. Gli strategist di Intermonte SIM prevedono che il differenziale tra Italia e Germani toccherà i 300 punti base per via delle tensioni tra Roma e Bruxelles, ma poi – vista anche l’assenza di speculazioni ribassiste di rilievo – dovrebbe “crollare”.

È Antonio Cesarano, Chief Global Strategist della SIM, a dirlo. Finanziariamente e a livello di fiducia, la soglia di 300 sarebbe gestibile dalle autorità. Il valore di pericolo sarebbe più verso i 400 punti base, visti i tanti Btp in scadenza e i 120 miliardi di rimborsare nella seconda parte dell’anno.

Mercati e Spread, perché l’Italia non è sotto attacco

Cesarano ritiene che due siano i principali motivi alla radice del fenomeno di una mancata speculazione contro l’Italia. Uno riguarda il fatto che gli investitori esteri sono meno presenti oggi sulle scadenze a breve dei Btp. Questo tende a mitigare i rischi di aumento della volatilità e ridurre le chance di vedere sbalzi di prezzo eccessivamente forti.

L’altra ragione per cui le pressioni sullo Spread dovrebbero rientare è relativa alle continue misure ultra accomodanti della Bce. Mario Draghi comunicherà infatti i dettagli del nuovo programma TLTRO di aiuti alle banche dell’area euro il 6 giugno. Il tempismo non pare casuale se si considera che un giorno prima la Commissione UE potrebbe annunciare l’avvio di una procedura d’infrazione contro l’Italia.

In questi giorni il commissario Moscovici si è detto contrario all’imposizione di sanzioni contro governo italiano ma le previsioni per un rapporto deficit Pil al 3,5% tra un anno non lasciano indifferente le autorità europee. È assolutamente possibile che si trovi un accordo tra le due parti, ma per il momento tocca alla Banca centrale europea gettare acqua sul fuoco.

Investimenti, sull’Italia meglio essere prudenti

Sul nuovo round di piani TLTRO, Cesarano è dell’idea che “visto il notevole carry negativo amplificato dal tasso Bund 10 anni in ampio territorio sotto zero, è possibile ipotizzare un progressivo ritorno sotto i 250 punti base dello spread durante il mese di giugno per effetto delle ricoperture e di una rifocalizzazione su altri temi, soprattutto la guerra commerciale fra Usa e Cina“.

I manager di Amundi sono un po’ meno ottimisti. Secondo loro la pressione per maggiori stimoli fiscali probabilmente metterà sotto stress gli spread dei BTP (e le banche) e aumenterà la volatilità. “Anche se non riteniamo che ciò sia una grave minaccia nel breve periodo, perché l’Italia e l’Unione Europea potrebbero trovare un accordo su un orientamento fiscale più flessibile, preferiamo adottare un atteggiamento prudente per il momento”.

In generale, dicono in un’analisi sulle conseguenze delle elezioni europee sui mercati, Didier Borowski, Head of Macroeconomic Research, Eric Brard, Head of Fixed Income, Kasper Elmgreen, Head of Equities e Tristan Perrier Senior Economist di Amundi, che le divergenze nelle misure fiscali a livello di paese e nei fondamentali di paese / settore potrebbero offrire potenziali opportunità per la selezione attiva e per l’allocazione del rischio.

 

 
 
 

Europee 2019, i sovranisti vogliono restare nell’Unione per conquistarla e trasformarla

Post n°4446 pubblicato il 27 Maggio 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Elezioni Europee 2019 | 26 Maggio 2019

 

Siamo arrivati alla vigilia del ribaltamento politico europeo, elezioni che cambieranno non solo la composizione del parlamento europeo ma l’anima dell’Unione. unione eurIronia della sorte vuole che anche il Regno Unito, che da due anni cerca di uscire dall’Ue, si ritrovi di fronte ad un cambio della guarda, Theresa May ha dato le dimissioni e la lotta per conquistare il potere è iniziata.

Impossibile parlare dei personaggi di questo sceneggiato politico europeo, sono tutte figure un po’ grigie, di bassa statura. Quelli che appartengono a fermenti rivoluzionari, come i gilet gialli, si tengono a distanza da chiunque faccia politica, e fanno bene perché ci vogliono pochi secondi per essere fagocitati da un partito o da un altro. Il vero problema è la mancanza di una tensione ideologica tra le parti, di schieramenti politici dicotomici del tipo comunismo/democrazia. Queste sono parole che oggi hanno solo un significato storico, alle quali non corrisponde alcuna espressione politica. E’ bene capirne il motivo.

Il ribaltamento delle posizioni della destra e della sinistra storica europea iniziato trent’anni fa, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, l’avanzare della globalizzazione, l’ascesa di istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea hanno fatto tabula rasa dei tradizionali schieramenti politici e dato vita a politiche senza ideologia, basate su temi specifici, che non trascendono il quotidiano: dai vaccini al reddito di cittadinanza alla flat tax. Ma la politica è ideologia altrimenti perde il significato di guida.

L’unico tema universale che si avvicina alle vecchie politiche ideologiche è il sovranismo, di cui, ahimè, Matteo Salvini è l’emblema in Europa. I sovranisti si presentano come la punta di diamante del cambiamento socio-economico che la stragrande maggioranza dei 500 milioni di cittadini dell’Unione europea si auspica. Politici come Salvini hanno una presa elettorale trasversale, raccolgono voti tra gli ex operai del Pci e tra i membri della Confindustria. Ma si badi bene, la Lega e la rete europea di partiti sovranisti con i quali si è alleata, non è la versione moderna ed europea del Peronismo, ma qualcosa di ideologicamente più solido e potenzialmente più pericoloso per la democrazia occidentale.

Abbandonata la politica secessionista, i sovranisti adesso vogliono rimanere in Europa e conquistarla per poterla trasformare. Perché? La risposta elettorale è ben semplice: così come è strutturata l’Unione non funziona. I fatti sembrano dar loro ragione. Negli ultimi dodici anni l’Unione Europea ha gestito tre crisi epocali, quella del credito, quella del debito sovrano e la crisi migratoria. Secondo i sovranisti lo ha fatto male danneggiando alcuni Paesi, si pensi all’imposizione della politica di austerità in Grecia. Il destino dei singoli stati membri dell’Unione non viene più deciso dalla classe politica che il popolo elegge ma da poteri esterni, e.g. la Commissione europea che il popolo non elegge. Ma non basta, l’Europa è vittima di una profonda ingiustizia economica.

Dalla crisi del 2008 ad oggi, con qualche piccolissima eccezione, il divario tra ricchi, classe media e poveri è aumentato. Secondo i sovranisti i singoli Paesi non sono stati in grado di proteggere la classe media e i meno abbienti contro lo strapotere dei ricchi globalizzati perché non avevano gli strumenti per farlo, non possedevano la sovranità monetaria. Ed ecco il secondo tema elettorale della campagna per le elezioni europee, la promessa di rettificare questa anomalia riprendendo il controllo della politica monetaria ed economica. E ancora, i sovranisti proteggeranno il continente contro il nemico futuro: la Cina. Lo dice Mischael Modrikamen, il politico Belga di destra co-fondatore con Steve Bannon del centro studi Movement, il cui scopo è portare i sovranisti alla vittoria nelle prossime elezioni del parlamento europeo. Naturalmente tutte queste sono parole e slogan ma potrebbero funzionare e portare la nuova destra al potere in Europa.

Elezioni Europee 2019 | 26 Maggio 2019

 

 
 
 

Sovranismo, le ragioni del successo elettorale in Italia per classi di reddito

Post n°4445 pubblicato il 25 Maggio 2019 da ninograg1
 

Fonte: Il Fatto Quotidiano Zonaeuro | 23 Maggio 2019 

 

di Gianmarco Oro*

1. Con l’avvicinarsi delle Elezioni europee è possibile che alcuni governanti uscenti vengano colti da un qualche presagio e che istintivamente cerchino di scongiurarlo attraverso una decisa rivendicazione dei propri risultati oppure una mite ammissione di colpa: è questo il caso di Jean-Claude Juncker. Con un intervento a Strasburgo, il presidente della Commissione europea ha infatti ammesso l’imprudenza con cui sono state adottate le politiche di austerità del fiscal compact e si è rammaricato della “mancanza di solidarietà nel momento di affrontare la crisi greca”.

Non c’è dubbio che Juncker abbia preso nota dei recenti sondaggi elettorali e che si sia accorto che, oltre alla congiuntura economica e alla fatalità della crisi del debito sovrano, possono essere state proprio quelle politiche a innescare la bomba del sovranismo. Infatti, egli ha precisato che in nessun modo la Commissione voleva “sanzionare chi lavora o chi è disoccupato”, proprio perché sembra avere finalmente riconosciuto le categorie sociali che stanno adesso chiedendo conto della propria condizione economica attraverso il voto politico. In particolare, sono stati i risultati delle ultime elezioni italiane a far materializzare la “controparte” della classe politica europea al governo (Ppe+Pse), ormai distante dagli interessi dei cittadini comuni (i forgotten men che in America hanno votato Donald Trump) e privata di ogni visione ideologica, tanto da arrivare a confondere il suo europeismo con la pura e semplice eurocrazia.

La storia del sovranismo italiano si sviluppa in tre fasi distinte: la prima risale alla situazione che ha preceduto la crisi del debito sovrano del 2011, la seconda è stata la fase dei vari governi tecnici (con supporto dei partiti di centro-destra e di centro-sinistra) nominati all’unico scopo di applicare il Patto di bilancio europeo pur di rientrare “nelle grazie” della Commissione (e dei mercati finanziari), e infine la fase della presa di coscienza (di classe) dei ceti medi. Per ripercorrerle basta osservare alcuni dati macroeconomici.

2. Non è una novità che, dall’adozione della moneta unica, l’Italia non sia riuscita a trarre quei benefici economici che alcuni prospettavano. Questo si deve al fatto che la politica italiana ha cercato per molto tempo di sostenere le esportazioni (una componente rilevante della produzione) ricorrendo alla svalutazione del cambio che, quando conduceva a un processo inflazionistico interno, riusciva anche a contenere il rapporto debito-Pil. In altre parole, la politica comunitaria di contenimento dei prezzi, volta ad assicurare la valorizzazione del capitale dei “paesi produttivi”, ha generato un divario tra questi e i paesi del “Mezzogiorno europeo” e in particolare l’Italia, che ha subito un rallentamento della crescita causato dalla bassa produttività del lavoro e dalle rare opportunità di investimento. La prima fase, pertanto, è stata segnata dalla limitata governabilità dell’economia nazionale all’interno di quei vincoli finalizzati a uniformare i bilanci pubblici dell’Eurozona.

Se l’Italia era già affaticata sul piano finanziario e produttivo, la sua condizione è peggiorata dopo la situazione critica del 2011 che, secondo il pensiero economico egemone, avrebbe potuto risolversi soltanto impartendo a quei paesi indebitati una severa lezione di stabilità finanziaria. Sono seguiti dunque gli anni dell’austerità, ovvero di quelle misure introdotte allo scopo di ridurre il rapporto debito-Pil agendo essenzialmente sul suo numeratore. E mentre lo Stato si defilava da ogni intervento economico, la ricetta prevedeva anche un ulteriore abbassamento del costo del lavoro dipendente (già perseguito peraltro dagli anni Novanta), nella promessa di una crescita degli investimenti privati ed esteri. Tuttavia, tale orientamento politico ha prodotto dei risultati ben diversi.

Continua su economiaepolitica.it

*Cultore della materia in Storia del Pensiero economico – Università di Macerata

 

Zonaeuro | 23 Maggio 2019

 

 

 
 
 

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