Abbandonare Tara
abbandonare le sicurezze, i luoghi comuni, alla scoperta di cosa c'è fuori di qui
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4 novembre 1966
Dal Diario di Ugo Procacci:
"La mattina del 4 novembre 1966, alle 7 e 25, mi fu telefonato che l'acqua d'Arno stava straripando, fuori delle spallette, proprio in prossimità della Galleria e già aveva invaso alcune strade. Dieci minuti dopo, mentre stavo per uscire, la stessa voce di prima, ora alterata per l'eccitazione, mi gridava ancora al telefono: "Devo fuggire e abbandonare tutto. L'acqua a valanga sta invadendo la mia casa."
Agli Uffizi dove potei giungere solo un'ora e mezzo dopo - la maggior parte delle strade del centro della città erano ridotte a torrenti - amici e colleghi giunti prima di me già stavano portando in salvo quelle opere d'arte che si trovavano al piano terreno della Galleria. Si trattava di trasportare su per le scale, al primo piano, in affannosa lotta con l'acqua il cui livello continuava a crescere rapido, inesorabile, anche dipinti su tavola di grandissime dimensioni e solo a forza di braccia. Ma non si conosceva fatica.
Drammatico fu il salvamento dei quadri della famosa galleria degli autoritratti : il pavimento del lungo corridoio che porta dagli Uffizi al Ponte Vecchio tremava di continuo sotto i nostri piedi come per un violento terremoto perché al di sotto l'acqua si abbatteva vorticosamente contro le arcate del Lungarno degli Archibugieri.
E questo mentre ci accompagnava incessante, deprimente, lugubre, il cupo rumore dei bidoni di benzina che battevano vuoti contro il Ponte Vecchio. Fino a quando la furia delle acque che crescevano di continuo non trovò libero sfogo attarverso le finestre delle botteghe degli orafi.
Se in quel primo giorno noi, isolati dal resto del città, si operò come storditi, quasi senza pensare ad altro, i giorni che seguirono dovevano rivelarci a pieno la tragica realtà.
Delle nostre gallerie, dei nostri musei, delle nostre chiese, tutto era imbrattato sozzamente da fango e nafta. E là, in mezzo, le nostre opere d'arte, offese, ferite, spesse volte distrutte.
Si passava di dolore in dolore.
E quando si giunse nel Museo dell'Opera di Santa Croce e si vide in quale stato era ridotto il Crocifisso di Cimabue uno dei più grandi capolavori dell'arte di tutti i tempi, non si poté non crollare e piangere".
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A richiesta degli amici inserisco i link a tre miei post dello scorso anno, quarantesimo anniversario dell'alluvione di Firenze.
Tanti di questi amici li ho conosciuti per la prima volta - o un po' meglio - anche grazie a quei post. E questo, di per sé, vale il rischio di sembrare autocelebrativa: l'amicizia vale.
Ma soprattutto voglio sottolineare che scrivere dei miei ricordi e della mia malinconia personale, inserita nel quadro di un evento di portata storica, mi ha dato modo di riflettere su come, in fondo, anche quella che io sono oggi derivi da quella lontana catastrofe. Forse la mia vita sarebbe stata diversa se non fossi stata segnata dall'alluvione e dall'ammirazione che, sia pur bambina, provai per chi salvò l'arte ferita.
Nemmeno dieci anni dopo, un pomeriggio, presi il telefono e chiamai un numero fino ad allora sconosciuto, quello di Ugo Procacci, l'autore del brano di diario riportato sopra.
Da allora quel numero divenne familiare, lui divenne il mio maestro. E io divenni "familiare" con l'arte e la necessità assoluta di tutelarla per trasmetterla alle future generazioni.
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E allora ho deciso di aprire un FOTOLOG:
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