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L'abito bianco

Post n°148 pubblicato il 19 Maggio 2007 da odio_via_col_vento
 

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C'è una frase di un mio vecchio post (ANDARE) che probabilmente nessuno ha capito: certo nessuno ha raccolto e commentato.
Ma penso di essere stata volutamente criptica e che certo solo io sapevo di cosa parlavo.

E' l'ultima parte del post, quella in cui dico:

Esci un pomeriggio di fine estate e la tua unica preoccupazione è il tempo: un abito bianco... e se pioverà? Esci con la felice certezza del futuro, esci quasi con spavalderia. Ti guardi adesso e ti fai tenerezza, quante cose avresti da dire a quella te che oggi ti sarebbe figlia, quante raccomandazioni, quante prudenze da suggerire. Ma allora tu chiudesti la porta e basta. Le raccomandazioni rimasero tutte, tra dette e non dette, sul tavolo della cucina gialla.

E' la simbologia del vestito bianco che speravo parlasse da sola.
Ma forse questo era vero cent'anni fa e oggi parlare di abito bianco fa venire in mente solo l'estate e non quello che avevo in mente io scrivendo: il matrimonio.

Era proprio fine estate, c'era un sospetto di pioggia, poi fugato da un bel sole caldo mite, con quella dolcezza dell'autunno che sopraggiunge e si è lasciata alle spalle l'asprezza che ti prende alla gola dell'estate bruciante.
In quella cucina gialla, quella di casa mia, della mia infanzia, c'era mia madre e c'era un tentativo di raccomandazioni, un tentativo di rincorrere e, forse, fermare il tempo che correva. Correva sui miei desideri di ragazza di allora, appena uscita dall'adolescenza. Mi sentivo adulta, perfettamente in grado di decidere della mia vita in un modo così forte e permanente come quello dell'andare verso il matrimonio.

Mia madre rincorreva un'occasione di colloquio, come se della vita si dovesse parlare ad appuntamenti fissi, come se la vita non la si insegnasse vivendo, giorno dopo giorno, nella apparente banalità del quotidiano che invece è un libro aperto sulle cui pagine - fatte di attimi, di ore, giorni e anni - si racconta il cuore e la mente di chi ti vive accanto.
Mia madre voleva parlare: dirmi in pochi minuti quello che già mi aveva detto con i suoi gesti, le sue paure, i suoi sogni repressi, le sue malinconie, per tutti i giorni della nostra vita insieme.

E io non la volevo ascoltare. Volevo andare incontro alla mia vita con i mei sogni: non portandomi dietro invece i suoi, non realizzati o sognati per me.
E io non volevo portarmi dietro in quel giorno nessun peso, nessuna aspettativa, nessuna remora e nessun timore che non fosse solo mio.

Non mi sono mai pentita di non avere ascoltato. Non mi sono pentita della baldanza avventurosa e un po' incosciente con cui sono uscita di casa quel giorno.
Ma adesso che mia madre non c'è più, adesso talvolta mi domando cosa avrebbe voluto dirmi quel giorno in cui si sedette al tavolo di quella cucina gialla, chiedendomi di sedere con lei e di ascoltarla.
Mi chiedo quanto si sia sentita ferita e delusa del mio rifiuto a parlare.
Mi chiedo che cosa, io, madre adesso della me di allora, avrei da dire a quella ragazza determinata e avventata.

Ma forse non avrei niente da dire e da raccomandare.
Anche io ho parlato a me stessa nelle perle infilate della collana dei giorni. 
La vita mi ha insegnato a viverla.
 


 
 
 
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