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Abbandonare Tara

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Memoria domenicale

Post n°163 pubblicato il 28 Giugno 2007 da odio_via_col_vento
 

Il profumo del sugo che cuoceva piano piano, sul fornello di cucina fin dalla prima mattina si diffondeva per casa, lentamente percorreva il corridoio, entrava in camera, superava la barriera del sonno, mi stuzzicava le narici e inequivocabilmente mi avvertiva che era domenica.
A questa prima percezione si aggiungeva poi la radio accesa, in bagno, mio padre che si faceva la barba ridendo e cantando, ascoltava Gran Varietà. Personaggi che la voce costruiva, inconfondibili e caratterizzati, Alberto Sordi e l'irresistibile "Mario Pio", la caricatura della attempata "romantica donna inglese" in cerca di emozioni italiane di Enrico Montesano, il garbo dei presentatori di una volta.





C'erano poi, tempo permettendo, le lunghe passeggiate della mattina: autobus, ma forse era il vecchio tram. Solo che la memoria mi consente sprazzi di immagini, non un unico film in bianco e nero di quell'Italia che fu.
Ricordo il bigliettaio appollaiato su un banchetto, i biglietti di diversi colori, a seconda della tratta e dell'età: a me ne toccava uno rosa che mi sembrava bellissimo e che conservavo nel pugno chiuso per ore, fino a che qualcosa di più bello e più allettante non mi facesse dimenticare quel primo tesoro della giornata.
Il babbo parlava spesso col bigliettaio: capitava che ci si conoscesse tutti, che i confini della città fossero ancora più ristretti di oggi, che su una stessa linea, a orari simili, si creassero amicizie, almeno conoscenze. Si davano tutti del lei e quello era per me un segno distintivo dell'età adulta. Si davano del lei anche mio padre e le sue cognate, hanno continuato a darselo per tutta la vita: non era un segno di distanza, caso mai di rispetto, di riguardo per l'appartenenza ad un ceppo familiare diverso, un sesso diverso, troppa confidenza non sarebbe stata accettabile.





Poi c'era la passeggiata: il Piazzale Michelangelo, nelle belle giornate.
E allora mi toccava un palloncino colorato attaccato a un filo, che un attento venditore mi legava al polso grassoccio di bambina per risparmiarmi delusioni e pianti se mi fosse sfuggito di mano. Mi ricordo ancora quella cordicella sottile, bianca, preso grigiastra di sudore e polvere, che mi si insinuava nelle pieghe della carne, segnandomi di un rigo appena appena rosso: voleva dire che lo avrei riportato a casa, il palloncino, che la mamma avrebbe accettato di ospitarlo in camera mia, che per un po' avrebbe ballonzolato, caparbio e insistente, contro il soffitto, come a cercare un cielo; e poi, inevitabilmente, si sarebbe avvilito, sgonfiandosi, abbassandosi sempre più, per poi sparire, un giorno della settimana a venire, e lasciare il posto al suo successore di un'altra domenica fortunata.

Oppure, d'inverno, la passeggiata col babbo mi portava in centro.
E allora mi sarebbe toccato il mangime per i piccioni, in piazza del Duomo. Era divertente, ma di di quel divertimento che confina con la paura. Non potevo rassegnarmi ad aprire la mano e aspettare che quel frullo pesante di ali venisse a mangiare i chicci lucenti direttamente dal mio palmo aperto. Mi sembrava un assalto, scappavo, strillavo, mi rincantucciavo al riparo delle lunghe gambe del babbo.

Poi c'era sempre la Messa, in Duomo o a San Miniato, dipendeva dalla meta della "girata" (così si chiamava la passeggiata fiorentina di allora).
Il fresco delle chiese enormi e buie, l'immancabile candela che pretendevo di accendere. Le nenie incomprensibili - ancora di Messa in latino si trattava.
L'acqua benedetta per il segno di croce attinta a acquasantiere altissime, inarrivabili per me: a volte passava dalla mano del babbo alla mia, a volte lui mi prendeva in braccio ("in collo") e allora era la gioia di scrutatre dentro il bacile di marmo, alla ricerca di cosa c'era dentro a rendere santa quell'acqua sporchina e salata che tavolta di nascosto assaggiavo leccandola dalle mie dita, per cogliere la santità almeno dal sapore.

L'ultima tappa era per "le paste": i dolci che scandivano la ricorrenza domenicale. Bigné allo zabaione, la meringa con la panna riservata a mia madre, il cannolo di pastasfoglia e crema ("il dito") per mio padre. Senza quel piccolo vassoio incartato e legato con un filo dorato, non era domenica. E certo paste non entravano in casa se non di domenica.
Tutto era scandito da ritmi, liturgie, appuntamenti che si ripetevano e che davano sicurezza, che aiutavano a percepire lo scorrere del tempo e al tempo stesso ne caricavano di aspettative e di significato le piccole partizioni. Una domenica uguale all'altra, la settimana in attesa della domenica successiva, un anno fatto di tante domeniche in fila, una vita che si sdipanava ricalcando le orme di quella precedenta, un fluire della vita che sembrava immutabile, sereno e sicuro nella sua ripetitività.









 
 
 
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