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New York: a state of mind

Post n°16 pubblicato il 21 Dicembre 2005 da odio_via_col_vento
 
Foto di odio_via_col_vento

Eppure a me New York piace.

Probabilmente perché io sono in contraddizione continua col mondo (e con me stessa), amo questa città dai grandi eccessi, somma del mondo moderno ma senza un passato alle spalle. E non solo un "passato" come lo intendiamo noi europei. Ma che nega anche il suo passato recentissimo. Dove c'è continuamente un cantiere o una voragine: perché hanno distrutto un grattacielo di inizio secolo, una guglia art nuveau in granito, per tirare su un incubo di vetro che moltiplicherà, fra breve, in un gioco di specchi, grattacieli impazziti, angoli, pareti, nuvole che passano in mezzo alle muraglie, finestre che non si aprono mai.

Amo l'incubo di New York: il girone dell'inferno di Times Square, dove si vende e si compra di tutto, alta finanza e sesso. Amo gli improbabili giardini in mezzo alle montagne di edifici, il grigio squallore di Central Park, con salutisti che fanno jogging di lusso, babysitter portoricane che chiacchierano tra loro sorvegliando la prole privilegiata, questi bambini miliardari che giocano nel parco-giochi più costoso del mondo, ma giocano come tutti i bambini del mondo.

La scuola cattolica sulla Fifth Avenue, dove andavano i rampolli Kennedy; le chiese neogotiche che sembrano minuscole, schiacciate fra gli edifici enormi; le statue di bronzo dorato che popolano piazze e parchi e che non hanno vita, tanto quanto non hanno piedistalli e spesso rappresentano vita e non la morte dei campi di battaglia; amo gli infiniti taxi gialli, su cui scopri sempre un immigrato recente che lotta per integrarsi. Perchè come cantava Frank Sinatra: "If you can make it here, you can make it anywhere".

Amo l'infilata senza fine delle Avenue, per cui si perde il senso delle distanze e tutto sembra a portata di mano e tutto è invece lontanissimo; gli yuppies in divisa rigorosamente nera, uomini e donne, con occhiali da sole anche in pieno inverno, perché anche la neve in città, in questa città, non è sporca, ma scintillante.

Amo quella Mirabilandia che è la Fifth Avenue, con i portieri gallonati, il riscaldamento all'esterno, sotto le pensiline degli stramiliardari condomini, i giardini pensili di Babilonia sugli attici, le vetrine-museo delle grandi marche italiane, il cattivo gusto salmone e oro della Trump Tower. E poi la decadenza del Plaza, passato in un mese da grande hotel-simbolo a cantiere edile sull'angolo più costoso del mondo, il South-East corner di Central Park, dove le bancarelle vendono foto seppia e l'artista di strada insegue la fama vendendo arte in fil di ferro.

Amo il lusso della Madison Avenue, gli edifici in mattoni rossi e scalette esterne dell'Upper East Side e del Village entrati nell'immaginario di tutto il mondo attraverso i film di Woody Allen; e dietro l'angolo la contraddizione della povertà più assoluta, l'homeless che vive sui cartoni e si riscalda ai tombini fumanti che spuntano ovunque, come misteriosi gyger di una sotterranea città.

Amo questa città tentacolare, che tutto risucchia e tutto vomita; che sembra un horror e che parla la lingua assurda dei musical; ghiaccio e fuoco, raffinatezza e pacchianeria; mondo nuovo senza radici e, insieme, radici di un mondo futuro in divenire.
Amo il crogiuolo di razze, la mancanza di dolcezza e di dolciastro, la sua cruda e spietata realtà, paradigma del mondo che noi abbiamo creato e che su noi incombe, come un incubo e come una maledizione che ci chiede ragione delle tragedie sotterranee che abbiamo provocato. E' l'espressione totale del nostro mondo, di questa civiltà ormai agli sgoccioli. Lusso e miseria infinita, speranza e disperazione, contraddizione estrema.

Forse solo Roma imperiale era così: con i barbari alle porte e i suoi imperatori folli che la distruggevano dall'interno.

 

 
 
 
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