Ricordo una orribile pubblicità degli anni '80 che poi diventò quasi uno slogan di quel decennio di rampantismo e rincorsa del successo: diceva "Milano da bere".
Bene, quanti abbinamenti (al di là degli aperitivi) si potrebbero fare tra le città del mondo e i verbi cercando di costruire un complemento di modo che abbia senso?
Firenze sarebbe allora certo "da leggere". Occhi enormi, cuore e mente. E soprattutto memoria. Per un libro lungo secoli che si srotola sulle pietre consumate, una città grigia di macigno e rossa di teracotta.
Roma, chissà perché, ma per me rimane "da annusare": il vecchio ponentino di una volta che portava fino in città l'odore dei pini dal Gianicolo; la frittura di verdura delle vecchie trattorie non ancora preda e predatori del turismo.
New York, "da camminare": distanze enormi, le infilate lunghissime delle avenue, le vedute da torcicollo della geometria altissima dei mille grattacieli; una città dove vorresti perderti, anche, scomparire nel magma della sua popolazione, anonimo tra i tentacoli delle strade.
Berlino "da ascoltare": musica, la Berliner Philarmonia, i cento concerti tutti intorno, improvvisati. Ma anche le memorie del passato, le voci della disperazione, le invocazioni di libertà, tutte che gravano nel vento.
Ma Londra, Londra è da amare.
E non so nemmeno spiegare perché. E' un amore di pelle. Lo stesso che porta alcuni ad amare i gatti e altri ad amare i cani. Forse un amore fatto di affinità, o di attrazione per gli opposti; di nuovo: non saprei dire.
Ma Londra fa spesso questo effetto. E chi la ama, di solito non ama Parigi.
Ed è così: non posso non vedere la bellezza e non subire in qualche misura il fascino di Parigi. Troppa letteratura, tropppa storia per passare insensibile sui quai e i boulevard. Ma non c'è amore in questo. La città mi schiaccia e mi opprime. Mi dà un senso di repulsione (soprattutto il doverla condividere con i francesi, credo, la loro grandeur, il loro snobismo).
Londra è invece, a dispetto di tutti gli stereotipi, accogliente; di quell'accoglienza riservata, serena, distaccata, che ti fa sentire a casa, senza fronzoli e cerimonie, senza doverti sentire in debito, senza premure eccessive. Proprio come quando si arriva dopo un lungo viaggio, dalla vecchia zia. Sei a casa e basta.
Una accoglienza, una città, soffuse, pervase dell'understatment di un popolo che non sai se è tale perché non abituato alla troppa luce, allo scintillio mediterraneo, perché costretto a vivere in un grigio che tutto attenua.
Amo quel senso mistico delle tradizioni: le cabine telefoniche tutte rosse, tutte uguali a se stesse da sempre; la lunga infilata di taxi neri a berlina, gli autobus a due piani, le lunghe e ordinatissime file che si formano spontaneamente ovunque: perché Londra rispetta e vuole essere rispettata.
Amo la multietnicità straordinaria, i turbanti indiani, i burqua afghani che svolazzano in Hyde Park, il venerdì, e che si mescolano con i sopravvissuti punk dalle creste multicolori sui roller blade lungo il Serpentine. E di là dal laghetto c'è un gruppo di omaccioni in kilt che affitta le canoe. Mentre il nero delle divise degli uomini e delle donne d'affari macchia i prati verdi: affittano tutti una sdraio, nei rari giorni di sole, per una mezz'ora ad occhi chiusi nel parco. Sognano forse i nostri lidi, ma forse no: ché la bellezza inglese dev'essere pallida, la English Rose di cui Lady Di era una perfetta epitome.
Amo i riti tutti uguali, tutti sincroni: il cambio della guardia, il té alle cinque, il caffé lungo e polveroso (regular, come l'hanno battezzato con ineffabile sense of humour), la marmellata di arance, unica a potersi fregiare del titolo di "marmalade": tutte le altre sono generiche "jam", poltiglie.
Amo la ricercatezza (un po' posh) del creare un linguaggio da iniziati dentro la lingua: spectacles per occhiali, lou per toilette, queue per fila, tube per metropolitana. Provatevi a usare questi termini fuori dall'Inghilterra! Ma usarli a Londra ti fa sentire parte del clan.
Amo la consapevole antistorica testarda costanza del conservare la guida a sinistra, i sistemi di misura medievali (le pinte per la birra, le yarde per le distanze, le once e libbre per il peso: sì, le libbre, come le famose libbre di carne umana che Shylock voleva in pagamento, nel Mercante di Venezia; e le pinte di birra, le stesse di sir Falstaff).
Amo il gusto orribile nel vestire, i colori pastello che indossano eteree e svampite vecchiette dalla pelle incartapecorita: chi l'ha detto che la vecchiaia debba essere tetra? A Londra succede il contrario: finché sei giovane vesti di di nero, sarai illuminato dalla tua stessa età; è da vecchi che si ha bisogno di stringere ancora la vita, di vederla bene, un bersaglio è colorato, no?
Amo i templi della separazione tra i sessi, i misteriosi club esclusivi di Pall Mall, portieri in livrea e atri tappezzati di legno, il versante laico e nebbioso dei monasteri del Monte Athos.
Amo la splendida confusione di Soho, i giovani degli slums che si riversano nelle vie strette, creano ingorghi e bevono, ridono, l'esuberanza trattenuta per tutta la settimana che esplode.
Amo il cretonne a fiori delle tende delle bow windows; l'alba che è quasi crepuscolo, tanto è scura; i tralicci Tudor sulle pareti di vecchia pietra; le square alberate, i crescent di Bloomsbury e Regents.
Amo riservatezza, io che sono esuberante e invadente; amo sense of humour io che sono sarcastica e permalosa insieme; amo ordine e tradizione, io che sono irriverente e confusionaria.
Lasciatemi Londra. Tutto il resto è per voi.
Inviato da: cassetta2
il 25/02/2024 alle 16:14
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