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Vorrei essere un autarchico
Una delle pochissime cose che salverei del fascismo è il ricorso all’autarchia, ovvero l’indipendenza di un sistema economico, ottenuta cercando di produrre tutti i beni ed i servizi all’interno di un paese. C’era stato quel periodo in cui, sottoposti alle “sanzioni”, ovvero un vero e proprio embargo da parte della Società delle Nazioni (antesignana dell’Onu) a causa della guerra d’Abissinia (bombardamento ed uso dei gas sulla popolazione civile) che ci precluse l’accesso alle materie prime di importazione. In un discorso del 23 marzo 1936, Mussolini delinea quello che dovrà essere il comportamento degli italiani in previsione della prossima guerra, riguardo alla mancanza di materie prime italiane. Vedendo alcuni film e documentari ambientati in quegli anni, salta subito agli occhi il traffico cittadino con automobili, bus e camion con una caldaia esterna, una specie di scaldabagno nero che produceva un sacco di fumo. Infatti come primo punto dell’autarchia c’era il ricorso, al posto dei combustibili liquidi, del carbone, o meglio dell’idrogenazione delle ligniti, che è in pratica un utilizzo della carbonella economica, che doveva essere accesa, portata a temperatura e spruzzata di vapore acqueo, per causare l’emissione di un gas detonante, compresso ed inviato ai cilindri. Purtroppo c’era una grande emissione di ossido di carbonio, e col 50% di azoto contenuto nell’aria, aveva una bassissima potenza, circa dieci volte meno della benzina come potere calorifico. Ovviamente gli automobilisti non erano troppo contenti, così che dalla denominazione ufficiale gassogeno o gas arricchito, lo trasformarono in “gas povero”. I tedeschi in questo modo ci fabbricarono la benzina sintetica, idrogenando industrialmente carbone e bitumi, e riuscirono a produrre combustibili per aerei. Dalle parti di Piacenza un po’ di petrolio c’era pure, ma come scoprimmo nel dopoguerra, la benzina “supercortemaggiore” dell’Agip non veniva vista di buon occhio dalle sette sorelle, come il caso Mattei ci ha dimostrato.
C’era però il metano, di cui a quei tempi avevamo una buona produzione, da giacimenti naturali della pianura padana. Però mancavano le bombole. Con l’acciaio si dovevano costruire i cannoni e gli altri armamenti. Addirittura per la mancanza di ferro, con serbatoi per benzina costruiti con lo zinco, riuscirono a rovinare immensi quantitativi di combustibili. A volte si usava l’alcool derivato dalle barbabietole.
Praticamente non avevamo materie prime, solo una grande inventiva. Poca lana alla quale si ovviava con fibre tessili come quelle derivate dalla ginestra. Si usava aggiungere alla fine della parola del nuovo materiale, “ital” ed ecco lanital, bronzital eccetera.
Tristi momenti, ben lontani dal visibile sfarzo tecnologico e benessere in cui viviamo oggi, pienamente immersi ma senza capire quanto tutto ciò influisca sull’ambiente e sui commerci consumistici. Ma la sferzata di innovazione, ben distante dall’immobilismo passivo in cui siamo oggi, e dal quale sembriamo risvegliarci solo in epoca di saldi, è stata probabilmente figlia della voglia di riscossa ed orgoglio nazionale, completamente mancante oggi. I chiari incarichi dati al CNR a quei tempi risvegliarono, se ce ne fosse stato bisogno, la qualifica di “popolo di inventori” che gli italiani si erano appioppati da tempo. Ho fatto una ricerca all’ufficio brevetti, e di idee strampalate ce ne sono state tantissime, molte geniali, altre ridicole o ingenue, ma libere di essere portate ad un esame pratico. Magari con pochi risultati, in confronto alle nazioni che riempivano di soldi la ricerca scientifica ad alto livello, e che ancora lo fanno. E dovremo aspettarci sempre meno risultati considerando la mancanza di fondi verso la ricerca, la sudditanza scientifica tecnologica e culturale cui siamo sottoposti ed in fatto non indifferente che la fuga dei cervelli ci ha trasformati da popolo di inventori ad un popolo di navigatori fuggitivi. E sappiamo chi ringraziare.
Tornare all’autarchia? Ci si potrebbe provare…
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