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Imitation of life

Post n°167 pubblicato il 09 Febbraio 2008 da il_presidente77
 

Ricordando  Django Reinhardt

Il mio nome è Django e sono un chitarrista. Ho ereditato il mio nome come una maledizione. Django era un vecchio amico di famiglia, un gitano, un chitarrista, proprio esattamente come me. Coincidenze e maledizione. Il mio nome fu un segno che mio padre tracciò nel mio destino.
Django non fu solamente un chitarrista. Difficile dire cosa fu Django in realtà. Poso dire cosa fu Django per mio padre, cosa significasse per lui guardare orgoglioso la foto che lo ritraeva con Django. Così di fronte ai suoi occhi lucidi non riuscii mai a domandare perchè mi chiamavo Django e perché mi aveva regalato una chitarra.
Mio padre mi voleva bene. Sì, a suo modo mi amava tantissimo più di quello che meritavo e a suo modo sapeva che non l'avrei mai tradito, che avrei realizzato i suoi desideri, che avrei percorso quella strada tracciata per me. Non mi ha mai chiesto cosa desiderassi. Mi voleva bene e non mi ha mai chiesto cosa desiderassi. Aveva già deciso. Tutto. Per questo motivo non riesco ad amarlo. No, non lo odio e non l'ho mai odiato. Ho odiato Django. Sì, Django, ma non mio padre. Lui innocente fu l'obiettivo del mio oddio. La sua sola colpa fu di essere nato.
Django non lo seppe mai. Non potei dirglielo. Non potei mai gridargli in faccia il mio odio. Era morto, morto prima della mia nascita. Inutile anche il mio odio più profondo. Django era intoccabile, irraggiungibile, semplicemente era morto. Era troppo distante, perché il mio odio potesse raggiungerlo. Talmente distante che non potevo disturbarlo neppure suonando la chitarra.
Imparai a suonare la chitarra. Non avevo scelta. Semplicemente tutto era già stato deciso. Avevo dieci dita. Questa era l’unica differenza tra me e Django. Però neppure con dieci dita sarei riuscito a suonare come Django. In confronto a Django ero stato fortunato, lui le aveva perse in un incendio. Per me non c'era bisogno di alcun incendio per segnare la mia vita, era già segnata al momento della mia nascita.
Quando scappai da mio padre, piansi. Quella notte piansi pensando a mio padre. Non a mia madre o ai miei fratelli, ma a mio padre. Fu una decisione difficile, ma era l'unica cosa che potevo fare, l'unica mia possibilità. Non fu coraggio o ribellione, ma solamente la scelta di provare a diventare adulto. Volevo vivere la mia vita. Volevo solo provarci, anche se non sapevo cosa significasse essere liberi, vivere la propria vita.
Non lasciai nessuna lettera, nessun segno della mia partenza. Non era necessario salutare nessuno. Stavo scappando e non volevo guardami alle spalle. Non volevo vedere mio padre o la foto di Django o entrambi nel caso mi stessero inseguendo. Non sarei più tornato là o almeno questa era il mio desiderio. Non volevo ritornare là per osservare quella foto ingiallita con Django, che mostrava quanto mio padre stesse invecchiando. Volevo solo andarmene, andarmene verso dove sarei stato uno sconosciuto. Questo era il mio unico desiderio: andarmene affinché nessuno conoscesse il mio nome. Il nome di Django.
Scappai. Ora non ho paura ad ammetterlo. Scappai da mio padre e dal mio destino già scritto, e scappai anche da me stesso. Ero debole per questo scappai e non rimasi ad affrontare la realtà. Scappai, ma il mio destino non mi abbandono mai. Quella notte tra le poche cose che presi c'era la mia chitarra bianca. Viaggi per anni senza alcuna direzione e alcuna idea sul mio futuro, poi una sera stranamente mi ritrovai a Parigi. Sorte, destino, casualità tutto sembrava cospirare contro di me. Non ho mai capito se il destino era crudele o ironico. Però oggi non è più importante, perché finalmente sono felice.
Oggi finalmente non odio più Django. I miei sentimenti verso mio padre non sono cambiati, ma posso dire di odiare più Django. Non posso dire che chiamarmi Django mi faccia piacere, ma la cosa non ha più alcuna importanza. L'unica cosa importante nella mia vita è suonare la chitarra. Mi emoziono, quando suono la mia chitarra bianca. Tutto il resto scompare. Non mi importa se suono jazz in piccolissimo club della periferia di Parigi per pochi clienti. Suono e loro mi stimano molto più del mio misero stipendio. Nessuno conosce il mio vero nome. Nessuno mi chiama Django. La sera, quando ho voglia di suonare, mi reco in quel club sconosciuto e suono. Per loro non sono Django. Sono solo un chitarrista e mi ascoltano e mi stimano. Si emozionano con me. Sono solo me stesso ed è questo che ho sempre desiderato.

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Commenti al Post:
odio_via_col_vento
odio_via_col_vento il 10/02/08 alle 16:36 via WEB
il pare gestiva i nomi come se fossero portatori di destino. o forse è Django a viverlo così.
 
 
il_presidente77
il_presidente77 il 11/02/08 alle 09:53 via WEB
Non per fare il sofistico e tirarla lunga ti dico alcune cose secondo il mio unto di vista.
Credo che il punto cruciale sia il rapporto tha il Django-protagonista e il padre, uno creca di imporre e l'altro "subisce".
Per quanto riguarda il nome in diverse culture il nome di un cosa o di una persona racchiude l'essenza stessa del "proprietario" del nome.
Poi ognuno è libero di leggerlo e interpretarlo con vuole, personalmente credo che da quando ho iniziato a scriverlo a quando ho finito di aver cmbiato su alcuni punti idea, ma queste sono altre storie.
 
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