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Membro Coordinamento Cittadino Italia dei Valori Reggio Calabria, Delegato Italia dei Valori Congresso Nazionale, Membro della Presidenza del Forum del Quartiere di Gallico, inviato giornalistico e radiofonico, addetto stampa APD Gallicese, studente in Ingegneria delle Telecomunicazioni presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria, candidato all'Assemblea Costituente Nazionale alle Primarie 2007 del Partito Democratico con I Democratici per LETTA.

 

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« Te lo chiedo sotto la pi...Gheddafi, di te nessuna paura »

Italia si, Italia no.. 150 anni fa io non c'ero, però..

Post n°2142 pubblicato il 17 Marzo 2011 da fernandez1983
 

 

Solo la ’ndrangheta UNISCE L’ITALIA

In un’orgia di retorica si celebra il centocinquantesimo ma il paese è in frantumi: sono i clan a unire Nord e Sud

Con grande spargimento di retorica, oggi si celebra il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia. Cioè si ricorda il successo della spedizione militare dei piemontesi, che permise la conquista del Mezzogiorno d'Italia e la sua annessione al regno Sabauda. Come potete ben vedere dal titolo, noi non ci associamo. Il tricolore non fa battere il nostro cuore e la retorica non c'è mai piaciuta. I valori dei quali da diverse settimane sentiamo parlare molto spesso, e con commozione (patria, nazione, unità...) li rispettiamo: però, sinceramente, non ci entusiasmano. E ancor meno ci entusiasma la superficialità con la quale si celebra la nascita del Regno nel 1961. Con un po' di ironia - come capite – abbiamo voluto immaginare un modo per vedere da qui, dalla Calabria, l'idea dell'unità. Oggi.

Beh, ci sembra che sia in corso un tentativo di unificazione alla rovescia – e cioè che parte dal Sud anziché dal Nord – e che questo tentativo sia guidato dalla malavita calabrese. Dalla ’ndrangheta. Non c’è da esserne fieri. E però non c’è molto da andare fieri neanche dell’unificazione del 1961, che fu realizzata in modo un po’ diverso da come raccontano le celebrazioni ufficiali. E comportò prepotenze, ingiustizie, dolore, morte, sottomissione. La spedizione dei Mille fu una grande impresa, sollevò grandi speranze. Anche nella popolazione del Mezzogiorno. Garibaldi, eccelso condottiero, si era fatto precedere da importanti promesse di riforme. Soprattutto aveva garantito la riforma agraria, e cioè la riduzione delle colossali ingiustizie e delle fortissime disparità sociali che erano la piaga del Sud al tempo dei Borbone. Non si era presentato in Sicilia semplicemente sventolando il tricolore e sollevando speranze patriottiche e nazionaliste, delle quali, ai meridionali, interessava ben poco. Aveva prospettato un cambio di regime politico, un cambio nell’economia, un grandissimo rinnovamento democratico: nuovo potere al popolo, nuova distribuzione delle terre e delle ricchezze. Purtroppo questa speranza durò pochissimo.

Lo sbarco dei “Mille” a Marsala è dell’11 maggio 1960. Appena tre mesi dopo, il 10 agosto, si conclude la strage di Bronte (massacro, in un villaggio siciliano in rivolta, Nino Bixioguidato da Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi); il 26 ottobre a Teano, a nord di Napoli, Garibaldi consegna il Mezzogiorno al re Sabaudo Vittorio Emanuele II. Da quel momento inizia una vera e propria guerra civile. Perché il Sud si sente tradito. Venduto. Capisce che le promesse di riforma erano una truffa, che la liberazione era solo una guerra di conquista e il risultato è la sottomissione del Mezzogiorno ai piemontesi. Una parte della popolazione si ribella. Nasce quel fenomeno che ha preso il nome di brigantaggio. Cioè una forma disperata di resistenza. Disperata ma molto robusta, e che poté durare un tempo lunghissimo – dieci anni – solo perché i briganti che combattevano contro il potente esercito dei Savoia godevano del pieno appoggio della popolazione. Fu una vera guerra civile. Che per intensità, drammaticità, sanguinosità e quantità di dolore, non fu inferiore alla “Resistenza”, cioè alla gloriosa guerra partigiana del 1943-45. I caduti furono decine e decine di migliaia. Forse duecentomila. I fucilati tantissimi, e spesso venivano fucilati non solo i combattenti ma anche la popolazione civile. Il livello di ferocia della repressione delle truppe del Nord, guidate per molti anni dal famigerato generale Enrico Cialdini, fu senza precedenti.

Cialdini aveva stabilito questo metodo: attaccare i villaggi e colpire indiscriminatamente. Dare una lezione al popolo. Il massacro di ferragosto 1861, che costò la vita a centinaia e centina di civili nei paesi di Pontelandolfo e Casalduini - paesi che furono completamente rasi al suolo e le macerie date alle fiamme – è un episodio di una tale brutalità che probabilmente bisogna arrivare ai massacri nazisti di quasi cent’anni dopo per trovare dei paragoni possibili. Eppure quasi nessuno conosce il nome di questi due paesi contadini. Chiedete in giro, o magari promuovete un sondaggio in Piemonte o nella Bergamasca: conoscete Casalduini, conoscete Pontelandolfo? Vi risponderanno di no, tutti. È più probabile che conoscano il nome di My Lay, la cittadina vietnamita annientata dagli americani nel 1968, e che sollevò uno scandalo mondiale.

Nessuno scandalo invece per i massacri sabaudi. Cialdini era stato mandato a guidare l’esercito di occupazione piemontese nel Regno delle Due Sicilie. Nel 1862 aveva a sua disposizione il 40 per cento delle forze militari italiane. Il luogotenente per il Sud, cioè il “viceré di Vittorio Emanuele, si chiamava Luigi Carlo Farini, e quando arrivò a Napoli mandò a Torno il seguente dispaccio: “Altro che Italia! Questa è Africa. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile!”. Un anno dopo questa lucida analisi Farini fu nominato presidente del Consiglio. Perché in questo centocinquatesimo, di tutte queste storie non si parla? Perché si ignora la realtà storica? Perché la guerra civile è stata cancellata? E anche la sua grandiosità, la partecipazione di migliaia e migliaia di donne e uomini? Perché non si parla di come si impedì la nascita di una nuova classe borghese meridionale? Semplice: per negare la realtà dei fatti. E per cancellare la questione merdionale. Che è un problema molto complesso, naturalmente, ma che nasce da lì: dall’invasione, dalla prepotenza, dalla rapina e dalla grande ingiustizia perpetrata dalle istituzioni politiche del Nord Italia. Si può chiedere al Sud, alla Calabria, di festeggiare la propria sconfitta? Lasciamo stare.

Sarebbe bello, invece, se da questo 17 marzo nascesse una nuova consapevolezza meridionalista. Nascesse una riscossa. Nei mesi scorsi, su questo giornale, un po’ provocatoriamente abbiamo rilanciato lo slogan: “boia chi molla”. Lo ripetiamo anche oggi. Ci sembra uno slogan più libertario delle cannonate di Bixio e Cialdini. E meno retorico della retorica nazionalista di queste ore.

Piero Sansonetti, direttore "Calabria Ora

 
 
 
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