30 Ottobre 1974: The rumble in the jungle

alibumaye

Come abbiamo già affermato, il fatto di essere un blog di calcio non vuol dire che non dobbiamo parlare pure di altri sport.

A questo proposito, vogliamo ricordare che quarantacinque anni fa, a Kinshasa, nello Zaire, veniva disputato uno degli incontri di boxe più celebri della storia tra Muhammad Alì e George Foreman, match ancora oggi conosciuto con il nome di “The rumble in the jungle”.

Su quest’incontro è già stato detto e scritto tanto.  Sono stati realizzati libri, film, pure canzoni, perciò non ci dilungheremo.

Vogliamo però sottolineare un fatto. Grazie a quel match l’Africa fu al centro del mondo, una volta tanto.

“Abbiamo lasciato l’Africa in catene, da schiavi, e oggi ci torniamo avvolti in un’aura di splendore e di gloria. Da campioni. I campioni sono qui”, furono le parole di Don King, il celebre e discusso promoter di boxe, organizzatore dell’incontro in questione.

Quel match dunque non fu solo un evento sportivo, rappresentò infatti una sorta di riscatto morale di un popolo che per secoli è stato sottomesso, oppresso, bistrattato, linciato.

A differenza di Foreman, Alì capì tutto questo, come ha sempre anche sostenuto Gianni Minà, che nel 1994, a vent’anni da quel match, scrisse su Repubblica: “…Muhammad Alì, invece, aveva trasformato la vigilia (dell’incontro, ndr) nel trionfo dei suoi ideali, scoperti prima con Malcom X e poi con i Black Muslim. Si sentiva a suo agio davanti al fiume Congo, il fiume della tradizione nelle ballate degli ex schiavi d’America, e trasformò questa allegria in una guerra psicologica. Il giorno delle operazioni di peso le sue provocazioni rischiarono di anticipare lo scontro. Foreman fu trattenuto, ma la rabbia lo aveva già sconfitto”. Non a caso, il pubblico a Kinshasa quella sera fu tutto dalla parte di Muhammad Alì.

Perché lui, che si era battuto per la sua gente, che preferì essere squalificato e privato del titolo di Campione del Mondo, piuttosto che servire l’esercito di un paese dove i neri come lui venivano tenuti ai margini della società (“I Vietcong non mi hanno mai chiamato sporco negro”, fu la sua frase, rimasta nella storia, a proposito della Guerra in Vietnam, contro cui protestò senza se e senza ma), meglio di chiunque altro incarnava quello che fu, appunto, un sacrosanto desiderio di riscatto.

Fa pensare che per realizzare questo riscatto, furono determinanti non organizzazioni umanitarie, bensì un equivoco manager pugilistico come Don King (non certo Biancaneve) e un dittatore spietato come Mobutu, presidente dello Zaire.

Come ebbe a dire Alì però, solo dei ragazzi di Chicago (riferimento ai Black Muslim, a cui Alì apparteneva e che di fatto, erano i suoi amministratori) non sarebbero riusciti a farlo.

 

 

 

 

 

 

Nadia, la ragazzina che stupì il mondo

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(Nadia Comaneci nel 1976 e oggi )

Fare un blog sul calcio non significa assolutamente considerare gli altri sport spazzatura. Quanti sportivi/e ci hanno appassionato con le loro gesta! Oggi vogliamo omaggiarne una.

Leggendo la cronaca di questi giorni, ci è stato ricordato che 43 anni fa il mondo dello sport e in particolare la storia dei Giochi Olimpici vedeva nascere una nuova, indiscussa stella. Il 18 luglio 1976  a Montreal, durante i Giochi Olimpici, una ragazzina romena di 14 anni scriveva la storia. Fino ad allora mai nessuno aveva realizzato ciò che riuscì a realizzare lei: ovvero prendere tutti 10 per la sua esibizione. Il 10 a computer (attraverso il quale i giudici votavano) non era stato nemmeno caricato, tanto per capire quanto venisse considerato possibile a livello umano ciò che fece la giovane ginnasta.

Quella  ragazzina si chiamava Nadia Comaneci.

Ora, un’impresa sportiva è un’impresa sportiva. Compierla prendendo tutti 10 in un’esibizione di ginnastica o dribblando tutta la difesa (portiere compreso) partendo dalla propria metà campo (come fece Maradona nel 1986 in Messico), alla fine, non è poi così differente come sembra. Perché chi la compie, nel suo sport sarà sempre ricordato come  un numero uno, come qualcuno di irraggiungibile, un’icona.

Questa è indubbiamente ancora adesso Nadia, che ha continuato ad essere un’icona nella sua nazione, da cui fuggì nel novembre 1989 a piedi (erano gli anni della dittatura di Ceausescu. Di lì a poco, il 16 dicembre 1989, con la rivolta di Timisoara, sarebbe iniziata la Rivoluzione che avrebbe portato al rovesciamento e all’uccisione del dittatore romeno), rifugiandosi in Ungheria, in Austria, per poi stabilirsi negli States, dove fu accolta come rifugiata politica.

Oggi è una donna di 57 anni, vice presidente del consiglio di amministrazione di un’associazione per la lotta alla  distrofia muscolare e che ha aperto una clinica per bambini nella “sua” Romania, a Bucarest.

Chi la vede oggi naturalmente, fatica a collegarla a quella ragazzina dallo sguardo timido, sperduto, che stupì il mondo con il suo talento e che alla stregua di un Pelè, di un Borg, di un Merckx, di un Carl Lewis, ha scritto la storia non solo del suo sport, ma dello sport.

(foto tratte da www.pinterest.it e da www.zimbio.com)