Residenze familiari: Andria, Lecce, Milano-Morgex e…

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Nonno Gioacchino, molfettese coniugato con nonna Margherita Accetto andriese (cfr.  Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, Trani).

Cfr.   Logo Citiamo:

Passa Umberto I, ma Molfetta è in crisi. Frammenti di storia

15 ottobre 2005

Gli anni Ottanta dell’Ottocento furono anni difficili, terribili, per la Puglia e per Molfetta. Nel 1884 il daco, volgarmente chiamato mosca delle olive, compromise gravemente la produzione olearia della stagione e rovinò per sei anni di fila gli uliveti molfettesi. Nel 1887 il protezionismo doganale introdotto a vantaggio delle industrie del Nord, intrecciato agli interessi dinastici sabaudi, portò alla “guerra commerciale” con la Francia, che nel 1888 bloccò le importazioni dei prodotti italiani con forti inasprimenti daziari. Di conseguenza le principali derrate agricole del Sud furono all’improvviso private del principale sbocco d’esportazione. Quanti si erano indebitati per affittare vigneti o impiantarne di nuovi nell’agro di Molfetta o nei territori vicini videro crollare paurosamente il prezzo dei vini da 40 lire a 2 lire l’ettolitro. «Fu un cataclisma universale», scriveva dopo appena un decennio il giovane Gaetano Salvemini. «I fitti non si poterono più pagare; i fallimenti dei coltivatori si succedettero a decine per mese; dopo i piccoli caddero i grandi; due case, che avevano milioni di debito con le banche e coi privati, fallirono e trascinarono con sé tutti i loro creditori; fallirono la Cassa di Risparmio e la Banca Popolare; fallirono i due terzi degli stabilimenti industriali». Per i prestiti l’interesse “onesto” del denaro salì al 9-12%, mentre l’interesse usuraio balzò a tassi da capogiro. «I più degli antichi proprietari», aggiungeva Salvemini, «sono andati ad accrescere la classe dei braccianti e dei massai; di quelli tuttora esistenti, credo che si possano contare sulle dita i fortunati che non abbiano tutti i loro cenci ipotecati; gli altri tirano avanti penosamente». Fu proprio la Puglia la regione italiana che più di ogni altra pagò lo scotto della rottura delle relazioni commerciali con la Francia. Per questo Francesco Crispi, nella prima metà di agosto del 1889, convinse il re Umberto I a fare un viaggio nella terra pugliese, accompagnandolo di persona. Dopo essere sbarcato a Napoli dal panfilo regio “Savoia” nella sera del 18 agosto 1889, il sovrano transitò per la Puglia in treno, accolto dovunque con calore, grazie anche all’impegno dei prefetti. A Lecce il re partecipò all’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II. A Bari giunse nel pomeriggio del 24 e si fermò per due giorni. A Molfetta il treno reale arrivò verso le diciannove di lunedì 26 agosto. Già due ore prima la stazione era imbandierata e illuminata a festa con l’ottino (un gas detto anche caprilidene). Lungo i binari nei due sensi opposti, stando al cronista del “Corriere delle Puglie”, era accalcata una folla di circa ottomila persone, che si snodava fino all’ultimo casello ferroviario verso Giovinazzo. Alle sette di sera, finalmente, spuntò il convoglio e Umberto di Savoia e il principe di Napoli furono salutati da sonori evviva e da prolungati applausi. Ad attenderli, oltre a buona parte della cittadinanza, c’erano il deputato Giuseppe Panunzio, avvocato leader dei monarchici molfettesi, il sindaco Luigi Epifani, proprietario terriero esponente della sinistra liberale crispina locale, e la Giunta comunale, tra cui si trovava l’assessore Gioacchino Poli, un benestante radicaleggiante di sentimenti repubblicani. Gli onori militari furono resi da un plotone di soci del Tiro a Segno muniti di trombe e bandiera e armati di vètterli, gli stessi fucili adottati dal 1871 dall’esercito italiano e prodotti dalla Reale Fabbrica d’armi di Torino. Il plotone, comandato dal tenente Panunzio-Poli, meritò le lodi di prammatica del generale Lanza quando gli sfilò davanti. Nella cronaca non si fa nessuna menzione dell’autorità religiosa. Come mai il vescovo era assente? Prima di tutto perché il presule di Molfetta, Gaetano Rossini, aveva 93 anni ed era pieno di acciacchi. In secondo e fondamentale luogo perché la “questione romana” era tutt’altro che risolta. Dopo l’abortito tentativo conciliatorista del 1887, nei due anni seguenti tra lo Stato italiano e la Chiesa erano sorti nuovi attriti. Nel gennaio del 1888 fu eclatante la destituzione, da parte di Crispi, del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, reo di aver portato in Vaticano l’omaggio della cittadinanza romana al pontefice Leone XIII in occasione del suo giubileo sacerdotale. Il clima di tensione si accrebbe ancor più dopo il 9 giugno 1889, quando a Roma fu inaugurato il monumento a Giordano Bruno in Campo dei fiori, «ove il rogo arse», come recita l’epigrafe di Giovanni Bovio. L’avvenimento diede nuovo vigore all’anticlericalismo italiano, tanto è vero che il papa, in una allocuzione ai cardinali, criticò aspramente la grande manifestazione romana tesa ad esaltare il libero pensiero. A livello locale, poi, non risultava opportuno l’omaggio del vescovo al monarca che nel 1886 aveva definito Roma «intangibile conquista», né poteva reputarsi conveniente per il clero e i cattolici molfettesi la presenza di mons. Rossini accanto all’onorevole Giuseppe Panunzio, che appena un anno prima del passaggio di Umberto I, il 20 settembre, diciottesimo anniversario della breccia di Porta Pia, nel discorso per la inaugurazione del campo di Tiro a Segno di Molfetta, auspicando il ritorno alle «libere e laiche» tradizioni italiane, aveva ammonito: «Il Quirinale sorge più in alto del Vaticano» e: «Roma è intangibile. Guai a chi la tocca!». Il re, insieme al principe Vittorio Emanuele e al presidente del Consiglio Crispi, si fermò per brevissimo tempo a Molfetta, esprimendo il suo compiacimento di circostanza al sindaco, all’onorevole Panunzio, che gli si mantenne costantemente vicino, e alla Giunta municipale per la dimostrazione di simpatia ricevuta dalla popolazione. Altre acclamazioni furono fatte al principe ereditario e a Crispi. Un apposito album commemorativo fu consegnato al re dal Comitato di accoglienza a nome della cittadinanza. Il sovrano ringraziò per l’omaggio e, dopo circa tre minuti, ripartì in direzione nord. Si vuole che in questa circostanza Umberto I, osservando le ciminiere delle fabbriche vicine alla stazione ferroviaria, avrebbe definito Molfetta “la Manchester delle Puglie”, ma il giovane Salvemini, con una punta di ironica malizia, pochi anni dopo, nel 1897, smontò l’aneddotica attribuzione, assegnandola piuttosto al «gergo retorico delle città di provincia». E in effetti si trattava di un motto entrato già da alcuni anni nel blasone popolare autocelebrativo, anche se lo stesso Salvemini, in una lettera del 1° settembre 1897 ad Andrea Costa, osservava: «Molfetta nelle Puglie è la sola città industriale, che comprende più di mille operai. Quando Ella verrà qui vi troverà un cantuccio di Lombardia». Se poi si desiderasse andare più indietro nel tempo per avvicinarsi alla genesi della leggenda urbana, occorrerebbe retrodatare la frase “storica” umbertina alla mattina del 16 novembre 1878, quando il convoglio reale, venendo da Bari, toccò la stazione di Molfetta portando Umberto I, la regina Margherita, il principino e i ministri Benedetto Cairoli e Francesco De Santis a Foggia. In tal caso bisognerebbe far riferimento non ai fumaioli che si innalzavano nei pressi della stazione, ma a quelli di altre zone. Festeggiamenti e campanilismo a parte, in quell’agosto dell’89 restava tuttavia la dura realtà di una città in ginocchio, una città di oltre 34 mila abitanti afflitta dalla povertà e dalla sottoalimentazione, dalla disoccupazione e dall’emigrazione recrudescente. La miseria della popolazione e la proletarizzazione dei piccoli proprietari terrieri che avevano investito nella vignetazione erano l’effetto della crisi vitivinicola e della “guerra commerciale” tra Francia e Italia, il principale responsabile delle quali era ritenuto proprio Crispi. Per questo la gran massa dei pugliesi era fortemente avversa al presidente del Consiglio. Lo si vide chiaramente la sera del 13 settembre 1889, quando, mentre Crispi attraversava via Caracciolo a Napoli in compagnia della figlia Giuseppina in una vettura scoperta, l’operaio pugliese Emilio Caporali, in un attentato, gli lanciò addosso una pietra, ferendolo al mento, ma guadagnandogli il rammarico di amici e avversari e un telegramma augurale di Giuseppe Verdi. Lo stesso corrispondente del “Corriere delle Puglie”, che nel resoconto della breve sosta di Umberto I a Molfetta aveva prudentemente evitato ogni riferimento ai gravi disagi economici patiti dalla città, in una cronaca teatrale del 6 settembre 1889, riferendosi alle rappresentazioni di “Ninetta” e “Le astuzie di un segretario comunale” date dalla Compagnia di operette italiane De Zerbi nel Teatro municipale di Molfetta, attribuiva la carenza di pubblico alla «malaugurata crisi» attraversata dalla città. La verità era che il numero di mendicanti era spaventosamente aumentato. Uno strascico del viaggio reale fu la polemica tra “L’Emancipazione” e Gioacchino Poli. La testata giornalistica radicale, con un articolo anonimo, accusò l’assessore molfettese di repubblicanesimo a parole, stante la sua partecipazione alle dimostrazioni di simpatia per il re d’Italia. Per difendersi dalle accuse mossegli e far luce su alcune infondate dicerie, Gioacchino Poli inviò una lettera al direttore del “Corriere delle Puglie” Martino Cassano il 27 agosto, cioè il giorno immediatamente successivo al passaggio di Umberto I da Molfetta. La missiva fu pubblicata sei giorni dopo, il 2 settembre. Eccone gli stralci più significativi: «In occasione della venuta del Re molte voci si sono sparse di diversa natura, tra cui andava blaterandosi una stranissima, quella del mio arresto con l’on. Imbriani. È inutile fermarsi su di questo, che è semplicemente ridicolo e non ha bisogno di altri commenti. Sento però la necessità ed il dovere di dare una spiegazione netta ed esplicita sulla condotta da me tenuta in questa ricorrenza, fraintesa da alcuni amici di qui e di fuori. […] Avvi chi mi ha dato del fedifrago, altri mi ha chiamato repubblicano all’acqua di rosa; di quest’ultimo non m’addoloro. Risponderò solamente al corrispondente dell’Emancipazione il quale mi chiamò repubblicano a parola. Io non conosco questo tale che si nasconde con un x incognito; ma ho l’onore di sostenergli sul viso che i radicali a parola sono proprio quelli che appartengono alla sua categoria. Se l’incognito x sapesse meglio uomini e cose della nostra Provincia, parlerebbe ben diversamente, conoscendo quanto a me sia costato l’affermazione della mia fede politica, non trascurando nessuna occasione. Certamente né la monarchia ha guadagnato nulla, né la Repubblica ha perduto, avendo io adempito ad una cortesia e ad un dovere, come assessore municipale. […] Ora però o monarchici o radicali dovremmo aver tutti la lealtà cavalleresca di riconoscere in Umberto I tutte le qualità di un Re eminentemente cittadino». A dimostrazione di questa asserzione, il Poli faceva riferimento al perdono concesso da Umberto I all’anarchico lucano Giovanni Passanante, il suo attentatore del 1878, al conforto dato dal re ai colerosi di Napoli nel 1884, alla proclamazione dell’intangibilità di Roma nel 1886 e ad altro ancora. Quindi concludeva: «Sia questa mia dichiarazione di risposta a quanto si è detto e scritto o da amici o da avversari d’ogni parte, ricordando per ultimo che Garibaldi e Cairoli non smentirono la loro fede per aver fatto omaggio al Capo dello Stato. Finisco con le parole di Bovio pronunziate alla Croce Bianca in Napoli: “Ammiro il Re, ma resto nella mia fede politica”».

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Cfr. Michele Viterbo, La Puglia e il suo Acquedotto, Editori Laterza, Bari, 1954. § IMMAGINI.

Citiamo:

«Capitolo dopo capitolo, parola dopo parola, col fiato mozzato dallo scorgere tanta bellezza così sconosciuta, c’è lo spazio per appropriarsi della storia di tutti e assieme ricostruire la storia d’ognuno.» dalla Prefazione di Fabiano Amati, Assessore regionale alle Opere pubbliche della Regione Puglia, quella dell’Acquedotto Pugliese è la storia delle vicissitudini sopportate e delle battaglie condotte dalle operose genti di Puglia e dai suoi figli più illuminati, per affrancarsi definitivamente dalla penuria e dal bisogno antico della sete. Vicende che si svolgono lungo l’arco di quasi un secolo e su cui il ponderoso studio di Michele Viterbo rimane, a quasi 60 anni dalla prima pubblicazione, un valido e solido punto di riferimento. (segue)

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Un autografo di Zola (corrispondenza con nonno Gioacchino). Il nonno tenne corrispondenza per lungo tempo con Victor Hugo. In onore del grande scrittore francese, fondò a Molfetta a Palazzo Poli l’Associazione I Lavoratori del mare.

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Biblioteca Nazionale di Bari.

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Trulli ad Alberobello.

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L’illustre antenato Giuseppe Saverio Poli.

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Carri armati dell’VIII Armata Britannica entrano ad Andria in via Gioacchino Poli il 26 settembre 1943, provenienti da Corato-Bari. Tedeschi in ritirata verso Foggia-Napoli. (Foto Riccardo Poli).

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Lecce, piazza S.Oronzo. (A destra) Fontana dell’Armonia.

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Carmiano, via Lecce (vedi, cfr. Villa Foscarini 1936).  Particolare:(In basso) Palazzo dei Celestini.

Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco - Fondazione Terra D'Otranto

Fondazione Terra D’Otranto

Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco – Fondazione Terra D’Otranto

 

 

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