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Concerto incerto

Post n°426 pubblicato il 12 Maggio 2010 da kremuzio
 
Foto di kremuzio

Oggi mi sono riletto un raccontino che avevo scritto 3 anni fa. Ieri avevo ascoltato e guardato questo video di un concerto a Roma a cui assistetti troppi anni fa, lasciandomi in memoria sensazioni fantastiche. Era la vigilia della finale del mondiale di calcio in Spagna, certamente un argomento di moda in questi giorni. E praticamente questa era la cronistoria semifedellissima di quelle ore...

 

Concerto incerto -  Roma - 10 luglio 1982

Il mio primo cd stava sul tavolo, e rifletteva la luce della lampada. Io lo stavo osservando, confrontandolo mentalmente alla schiera di LP che erano impilati alla meno peggio sopra i libri dell’università. Avevo saputo che qualcuno negli states lo aveva messo direttamente sul piatto, ma la puntina di zaffiro scivolava via con un rumoraccio da gatto calpestato. Il suono del telefono mi distolse dalle trasposizioni mentali. Antonio mi chiamava per dirmi che era arrivato Frank Zappa con la sua band, in città. Le sue melodie, talmente strane da essere considerate rumore dai vecchi, a me evocavano frotte di ragazzi in festa, nudi, a rotolarsi nel fango ed a danzare intorno a fuochi festosi.

“A Ste’, niente donne! Andiamoci da soli” mi disse Antonio: “andiamo, scavalchiamo e ci infiliamo in quella ressa calda a far casino…”. Beh, se c’era da far casino, non potevo tirarmi indietro. Preparo cartine, tocchetto e la maglietta bianca con il testone di Frank, acquistata per 5000 sudatissime lire sul banchetto fuori dal Palasport l’ultima volta che ero andato ad un suo concerto. Niente jeans, anche se c’era da scavalcare. I pantaloni neri erano appostissimo con la maglietta bianca, come tutti quelli della band (l’avevo visto in tv qualche giorno prima). Non c’era il pericolo che mi scambiassero per uno ska.

Il concerto è alle 9 di sera, c’è tutto il tempo per aprire il frigorifero e finirmi la mezza fettina avanzata a pranzo e quella pastarella alla crema dell’altro ieri. La bottiglietta di limonata la metto nella tasca della giacca, nera.

La 500L color aragosta stenta un po’ a partire, come al solito, ma in una traballante cacofonia di marmitta sfondata esce dal posto macchina condominiale in un nuvolozzo nero. Devo mettere l’olio… e devo ricordarmi di farlo domani. 

Passo a prendere all’incrocio Antonio, vestito da rimorchio come lui l’intendeva: Rayban neri a specchio non da vista, anche se lui era abbastanza miope, Lacoste bianca su jeans nuovi e Superga bianche. La sua facciona rubizza e butterata sorrideva in un accenno di sfida al mondo.

“A Ste’, andiamo a vedere Frankie finalmente. A me non è che importa molto della musica, ma si tratta di un evento che attira migliaia di persone e a me interessa la vita, la gente, le facce, come si muovono e parlano”.

Al solito voleva darsi arie da filosofo, invece avrebbe tentato, come sempre, di puntare qualcuna di suo gusto e provarci. Con la sua voce da professorino querulo, riusciva quasi a coprire il rombo del tubo di scappamento.

Sono fortunato. Trovo un posto sul marciapiedi a poche centinaia di metri dal mattatoio di Testaccio, luogo dove si sarebbe svolta la kermesse. Gruppi di ragazzi con i loro Ciao incatenati l’uno con l’altro ai lampioni, caracollavano con l’andatura di chi voleva saperla lunga dribblando quei pochi anziani che portavano a spasso i loro cani, ignari di dove si sarebbe recata tutta quella marmaglia capelluta e strana.

Individuiamo una nutrita schiera di ragazzotti robusti che invece di dirigersi verso il cancello principale, giravano verso una rientranza del comprensorio dove qualche anima pia aveva sistemato dei secchioni, qualche sediaccia metallica ed una corda legata direttamente sopra un muretto efficacemente senza spuntoni o filo spinato. “su, dai sbrigatevi!” diceva uno “ che se se n’accorgono è finita la pacchia”. Facciamo la fila. Antonio ovviamente aiuta una ragazza a salire spingendola per le terga. Questa s’accorge delle mani calde e gli rivolge uno sguardo che se fosse stata un fumetto sarebbe stato disegnato con tanti piccoli coltelli. Ma dato che ormai era dall’altra parte, con una corsetta si allontana sibilando un vaffa, rossa in viso.

“A Ste’ lo sapevo che ci stava… ora che salgo guarda dove se ne è andata che la voglio seguire..”.

“Anto’ ma non lo vedi che quella sta con quello grosso con la barba?”.

“Ah…” dice secco, e scavalca.

E’ il mio turno. Scivolo puntando male il piede sinistro in una piccola breccia che si sbriciola e sento un secco strappo proprio dietro i pantaloni, ma con un ultimo slancio oltrepasso il bordo e salto dalla parte opposta. Arrivano un paio di inservienti gorilla di corsa, ma fortunatamente pescano un mingherlino alle mie spalle che non se n’era accorto e fuggo neanche dovessi scappare dal controllore dell’autobus.

Bene, ci siamo salvati per ora. Ci mischiamo alla calca di quelli che, giusto dietro le mura perimetrali, erano entrati correttamente col biglietto. Boh? Chi diceva quindicimila, chi ventimila ed addirittura uno si vantava di aver pagato trentamila. Troppo comunque. Col prezzo minimo avrei girato con la 500 per un bel pezzo.

Inizia il concerto puntualmente un’ora dopo l’orario prefissato. Io rimango seduto tutto il tempo su una tettoia di legno per non farmi vedere i pantaloni scuciti. Antonio si è perso nella folla sotto il palco. Ogni tanto ascolto qualche voce femminile che spara una raffica di vaffa tra una canzone e l’altra. So che Antonio è da qualche parte laggiù. Rollo una canna appena in tempo per “Inca road”. Ci voleva tutta. Una ricciolina bionda davanti a me annusa l’aria e si gira, mi guarda e mi spara un sorriso. Io ricambio ed allungo lo spino. Lei riceve e ripassa facendo l’occhiolino. Il filtro è umido della sua saliva. Non mi fa schifo, anzi.

“Bobby Brown” e “Pojama People” allungano i tentacoli sonori strappandomi un brivido lungo la spina dorsale. Un vaffa urlato da una voce femminile un po’ più dappresso mi ricorda che c’è Antonio da qualche parte nei paraggi e si sta avvicinando. Probabilmente mi ha visto.

La ricciolina si gira ogni tanto, forse per controllare le fasi di rollaggio.

“A Ste’ stavi qua?” Eccolo, è arrivato.

“C’è bella gente laggiù?” chiedo?

“Si, si, niente male. Una ci stava.”

“Ci credo…” Mento, memore dei vaffa.

La crema andata a male, unita agli sconvolgimenti sia fisici che ormonali, al nervoso per essere con le chiappe al fresco, ed al fatto che la riccia stava con un tipo che sembrava un rasta, pungono vaghezza al nervo vago o chissà cosa e vomito a schizzo, fortunatamente addosso a niente e nessuno, tranne una mia scarpa. Al rasta, scioccato, va di traverso un peroncino appena deglutito, con ancora il collo della bottiglia tra le labbra. La riccia mi guarda prima schifata e poi comincia a ridere. Ovviamente ambedue s’allontanano ridendo di me.

 Il tempo passa veloce, e le canzoni anche. I bis infilati uno dopo l’altro vanno via veloci e la band con loro. Noi anche, dopo aver fischiato per una decina di minuti, invano.

E quindi arriva il momento dello sbaraccamento: tutti ma proprio tutti, vociando cantando urlando, sia quelli che avevano pagato il biglietto sia noialtri, ora avevano come meta il ritornare a casa.

Stento sempre a pensare che qualcuno possa portarsi un cane al concerto. Ma per qualcun altro era la cosa più naturale di questo mondo, Ed il cane, prima prese di mira la mia scarpa sporca, poi, mentre cercavo di non perdere di vista Antonio che stava seguendo una rossa con un vestito attillato verde, il botolo alza la gamba e la fa senza neanche fermarsi, saltellando sulle tre zampette, felice di avermi marcato la ex bianca scarpa da tennis.

Per sottolineare il momento, il mio amico profittando di un momento in cui la calca aveva serrato i ranghi in quei tira e molla tipici delle code, con molta probabilità allungò una mano dritta sul posteriore della rossa, che girandosi di scatto propalò urlando informazioni delicate sulla madre ed alcuni degli avi di “potete immaginare chi”. Ahimé la pulzella non era sola, ma con un energumeno con la faccia da Visitor che allungò un braccio con pugno terminale che non prese in faccia il reo per pochi centimetri. Naturalmente feci finta di non conoscerlo, mentre correva via districandosi tra la folla come un vietcong tra gli alberi fitti.

La 500 era sempre nello stesso posto, anche se senza più i cerchioni. Io puzzavo come un punk impossessato da mille demoni, con pantaloni sfondati, giacca spiegazzata, scarpe putride e nel sedile accanto Antonio sudato per la corsa che rideva con il suo modo che sembra forzato e troppo alto di volume. Poi serio, si gira verso di me e dice con la sua solita faccia: “A Ste’, domani e dopodomani ci sono i Rolling a Torino. Ci andiamo?”

“domani no, Anto’, domani c’è la finale e io non me la perdo manco per Mick Jagger”

 
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