A Room of One's Own
This is my letter to the world, That never wrote to me, The simple news that Nature told, With tender majesty. Her message is committed To hands I cannot see; For love of her, sweet countrymen, Judge tenderly of me!
Messaggi di Aprile 2007
Post n°203 pubblicato il 29 Aprile 2007 da lilith_0404
Oggi si svolge a Roma la manifestazione organizzata per sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto avviene in Darfur. Un genocidio che ha finora fatto centinaia di migliaia di vittime, e milioni di sfollati, e che si consuma nell’indifferenza dell’opinione pubblica mondiale. Non si capiscono forse gli interessi in gioco, non fa notizia perché in fondo i grandi protagonisti delle guerre attuali sembrano assenti. Ma questo è solo apparenza. Il Sudan è uno dei più grandi stati africani, con buone risorse di petrolio, nello sfruttamento delle quali è particolarmente attiva la Cina. Ed ecco spiegato perché proprio la Cina ponga il veto all’intervento dell’ONU nella regione. Inoltre, come ho già sottolineato in un precedente post, il Sudan è situato in una posizione strategica per controllare le acque del Nilo, da cui dipende l’approvvigionamento idrico dell’Egitto. E l’acqua è in questa regione, come dovunque, anche più preziosa del petrolio. Il genocidio che si sta consumando in Darfur si inserisce nel più ampio quadro della situazione del medio oriente, ed è emblematico del fatto che quando ci sono in gioco interessi economici molto grandi, non ci sono diritti umani che tengano. E’ questo il modo di operare che vogliamo continuare a permettere? Perché conflitti del genere, per l’accaparramento di risorse scarse saranno sempre più probabili in futuro, anche secondo quanto è contenuto in un promemoria distribuito dalla Gran Bretagna ai membri Onu il 5 aprile 2007, in cui si sostiene come grande parte del mondo rischi di divenire inabitabile a causa dell'innalzamento dei livelli del mare, della diminuzione di acqua fresca o di terra adatta all'agricoltura. Ci sono stime secondo le quali fino a 200 milioni di persone rischiano di essere obbligate a spostarsi entro la metà del secolo, e il risultato della migrazione dalle zone rurali alle città e lungo i confini internazionali rischia di incrementare il potenziale per l'instabilità e il conflitto, dice il documento presentato all’Onu. Vogliamo continuare a risolvere i problemi sterminando le popolazioni che, per il fatto di esistere, sono di volta in volta di impedimento agli interessi del più forte di turno? Oggi tocca al Darfur. A chi toccherà domani?
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Post n°202 pubblicato il 26 Aprile 2007 da lilith_0404
Ebbene, si, lo ammetto, faccio parte di quel 54,5 % di italiani che secondo le indagini dell’Istat citate da SandaliAlSole nel suo post 1444, in famiglia si esprimono in dialetto. In effetti, come ho scritto qualche settimana fa in risposta ad un commento in cui venivano sottolineate le mie lacune in fatto di lingua italiana, la mia lingua madre è il dialetto bresciano: me ne accorgo specialmente quando sono arrabbiata, che mi vengono parole ed espressioni dialettali che solo in seconda battuta traduco in italiano, con risultati non sempre del tutto efficaci. Non che di questo io pensi di dover essere particolarmente orgogliosa. Ci sono anzi stati dei momenti in cui mi sono sentita in imbarazzo per il mio accento, come quando al primo esame in università la professoressa che mi interrogava lo notò e me lo fece notare. Ma quando io ero piccola, nell’ambiente sociale in cui vivevo parlare in Italiano era considerato uno snobismo, una cosa di cui poi farsi beffa. Chiaro, alla maestra, al dottore, in genere alle persone ‘istruite’ che venivano da fuori ci si rivolgeva in italiano, ma tra di noi, con i genitori, con la gente del paese, finanche con il prete e con il sindaco, parlare in italiano sarebbe stato considerato un volersi dare delle arie. Non ricordo con esattezza quando le cose han cominciato a cambiare, ricordo però molto bene che fu con i bambini. La cosa avvenne in modo del tutto spontaneo, niente di simile a quello che racconta Pelino55 nel suo commento al post di SandaliAlSole citato. Da un certo momento in poi, si cominciò a usare l'italiano quando ci si rivolgeva ai bambini piccoli, come se così facendo fosse più semplice farsi capire, anche se poi per parlare con la mamma e con il resto della famiglia si tornava tranquillamente al dialetto. Sicuramente il processo era già ben avviato quando a metà degli anni settanta nacque l’ultima delle mie sorelle. Benché tutti parlassimo abitualmente dialetto tra di noi, perfino mio papà quando parlava con lei usava l’italiano. Non saprei dire se questo sia stato un bene o un male per la sua generazione, non sono del tutto sicura che il dialetto sia effettivamente un patrimonio linguistico inestimabile la cui perdita sia da considerare un danno. Però questo è il motivo per cui mia sorella, al pari degli altri giovani della sua generazione, pur comprendendolo perfettamente, quando vuol parlare dialetto sembri stonata, e si può tranquillamente includerla tra quel 45,5% di popolazione che in famiglia parla in Italiano.
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Post n°201 pubblicato il 21 Aprile 2007 da lilith_0404
“Ciao Anna, non sapevo che avessi un cane. Sbaglio o è la prima volta che, anche se di striscio, ne parli?” Così mi scrive Lupopezzato in risposta ad un commento che ho lasciato nel suo blog. In realtà, io non ho un cane, nel senso che il cane a cui mi riferivo nel commento citato non appartiene a me, ammesso e non concesso che possa appartenere a qualcuno. Però cani, a casa, ne ricordo da sempre. Il primo di cui abbia memoria era un Collie bianco e nero, e chiaramente, in ossequio ai telefilm che si trasmettevano in televisione a quei tempi, non poteva chiamarsi che Lassie, anche se ancora oggi mia mamma é convinta che Lassie fosse non il nome ma la razza del cane. Ero ancora alle elementari quando morì, e papà lo seppellì nell’orto. In seguito ci fu un cane pastore tedesco. Quando nel 1985 ci fu quella nevicata eccezionale che ci isolò in paese per una settimana, mentre tutti gli uomini erano impegnati a spalare neve, si allontanò da casa e non tornò più. Dopo qualche tempo arrivò Black. Era un pastore belga, e naturalmente era nero. La sera aspettava papà che tornava dal lavoro, lo seguiva mentre sbrigava i suoi lavori nell’orto, poi entrava con lui in cucina e si accucciava in parte alla sua sedia intanto che cenava. Ricordo quando papà tornò dall’ospedale dopo essere stato operato per un tumore ai polmoni. Papà scese dalla macchina intanto che io aprivo il cancello, e Black non stava nella pelle nel riconoscerlo, voleva scavalcare la ringhiera per corrergli incontro. Papà aveva temuto che da quell’ospedale non sarebbe mai tornato vivo, e di fronte a quell’accoglienza scoppiò a piangere. Quando Black, ormai vecchio e quasi cieco si ammalò e fu necessario chiamare il servizio veterinario per farlo portar via, mi sembrò un presagio di sventura. Non passò molto tempo che anche papà si ammalò di nuovo e morì. Per qualche anno non ci furono altri cani in casa, finché non arrivò Alita, una piccola femmina di Beagle. La portò a casa che era ancora un cucciolo con l'argento vivo addosso il ragazzo di mia sorella, ma ora loro stanno a Milano, e Alita è rimasta con noi al paese. Quando arrivò, mamma fu categorica, per nessun motivo la voleva in casa, e le venne sistemata una cuccia nel cortile sul retro della casa. E’ cresciuta sola, e questo l’ha resa indipendente, curiosa del mondo che le sta intorno. Benchè il cortile di casa non sia piccolo, non si fa a tempo a lasciare il cancello socchiuso che non le sembra vero di poter scappare. Mi dicono che sia la sua natura, e non ho difficoltà a crederlo. Perciò dico che non appartiene a me e probabilmente neppure a nessun altro. |
Post n°200 pubblicato il 14 Aprile 2007 da lilith_0404
Il ‘vestito bianco’, per molte credo sia un ricordo legato al giorno del matrimonio. Io non mi sono sposata, e quindi questa associazione mentale mi manca. Tuttavia un vestito bianco l’ho avuto anche io. Ci pensavo leggendo il post di Amoildeserto, in cui parla della pasqua dei suoi quindici anni e del suo primo coloratissimo tailleur.Il mio ‘vestito bianco’ fu appunto un tailleur e arrivò a dodici anni. In realtà non fui io a sceglierlo, ma mia mamma. Successe infatti che per diversi anni il vescovo non venisse in paese per celebrare le cresime. All’epoca, la cresima si faceva a sette anni, e normalmente per l’occasione veniva riciclato lo stesso vestito che si era usato l’anno prima per la prima comunione, un vestito che per le bambine era una cosa tutta sbuffi di tulle che le faceva somigliare a sposine in miniatura. Ma dopo aver cresimato i bambini della classe di mio cugino, che avevano un anno più di me, per cinque anni il vescovo disertò l’appuntamento annuale in paese. ‘Quasi si sposano, e ancora non sono cresimati’, commentavano le donne anziane, scotendo la testa con disapprovazione. Alla fine il loro grido di dolore venne ascoltato e il Vescovo trovò il modo di tornare a farci visita, ma io ormai avevo raggiunto la rispettabile età di dodici anni. Quell’anno a fare la cresima eravamo davvero in tanti, due miei fratelli e un numero imprecisato di cugini erano della partita, ma vista la nostra età, i vestiti della prima comunione erano diventati improponibili. Fu così che un'altra tradizione venne infranta e arrivò il mio primo tailleur. Bianco, che a mamma sembrava un colore appropriato per la circostanza. Per le scarpe col tacco però dovetti aspettare ancora qualche tempo.
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Post n°199 pubblicato il 09 Aprile 2007 da lilith_0404
La digestione, lenta dopo l’abbuffata del pranzo di Pasqua, invogliava a starsene tranquillamente seduti e a tirar tardi, la bella giornata invitava a stare all’aperto, così ci siamo sistemati all’ombra di un albero, sull’aia della cascina di mia sorella, chiacchierando del più e del meno. Si finisce a parlare dei figli, e dei criteri sui quali impostare la loro educazione. Mia sorella ha due figlie adolescenti. Le due ragazze sono già uscite, son rimaste con noi giusto il tempo di stare a tavola, e poi son schizzate via, ché gli amici le aspettavano. Mia sorella racconta degli scontri con le figlie, del braccio di ferro continuo per le uscite, per le persone da frequentare, per la scuola, per qualsiasi cosa. L'ascolto e penso che sono brave ragazze, e mia sorella fa la mamma a tempo pieno, ma il tempo passato non ha cancellato il ricordo dei miei diciassette anni, e so che crescere è anche prendere le distanze dai genitori, e definirsi in contrapposizione a loro. Un gattino di poche settimane, un batuffolo di pelo bianco si accoccola in grembo. L'aria é fresca, ma il sole è caldo al punto giusto, e il cervello è in stand by. Mia cognata rimprovera la sua bambina, che si è tuffata a piè pari con le scarpe nuove nell’unica microscopica pozzanghera che ancora ricorda la pioggia caduta nella notte. Il pensiero va ai commenti letti di recente, a seguito del suicidio di quel ragazzo sedicenne. Mentre ascolto mia sorella mi ritorna in mente quello che scrive Mara2003 nei commenti al post di Tanksgodisfriday : “Nessuna legge da applicare uniformemente, ci facciamo guidare dal buon senso caso per caso…Ma siamo sicuri che sia il buon senso giusto? E soprattutto chi dà l’indice di misura del buon senso?” Probabilmente ha ragione Tanksgodisfriday: ci vuole anche un pizzico di fortuna. |
Post n°198 pubblicato il 07 Aprile 2007 da lilith_0404
"Che cosa c'è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un'altra parola avrebbe lo stesso odore soave." Questo fa dire Shakespeare a Giulietta nella seconda scena dell’atto secondo. Tuttavia, credo che se in linea di principio posso essere d’accordo con lui, di fatto spesso associamo ad un nome le caratteristiche di una certa persona che abbiamo conosciuto con quel nome. O evitiamo un certo nome per l’uso improprio che ne è stato fatto, come racconta Tanksgodisfriday nel suo post 410 a proposito del nome di Margherita che avrebbe voluto dare alla figlia. Queste riflessioni sui nomi mi hanno fatto ripensare a quando è nata la mia ultima sorella. Nella nostra famiglia vigeva la consuetudine di chiamare i nuovi nati con il nome dell’ultimo parente morto. Senza arrivare al ‘Filippa Filippazzi’ del post di Liberante, questa pratica ha sortito tuttavia qualche risultato non proprio esaltante: così mia sorella si è trovata a portare il nome Bernarda, perché poco prima della sua nascita era morto uno zio di papà che si chiamava Bernardo. Per sua fortuna era un parente un po’ alla lontana, e si sono accontentati di metterglielo come secondo nome. Quando è nata l’ultima delle mie sorelle invece il defunto più recente era un fratello di papà, e si chiamavava Battista. Ricordo un pomeriggio in cui con una zia e alcune cugine parlavamo del nascituro. Non sapevamo se sarebbe stato maschio o femmina, ma concordammo immediatamente sul fatto che nel caso fosse stata femmina per niente al mondo avrebbe dovuto chiamarsi ‘Battistina’. Vennero proposti alcuni nomi alternativi, e nella scelta vennero coinvolte anche le altre mie sorelle. Ricordo che molto gettonato era il nome di Roberta, ma alla fine si raggiunse l’accordo su quello di Alessandra. Quando nacque una bambina mettemmo i nostri genitori di fronte alla scelta già fatta che quello sarebbe stato il suo nome. E’ l’unica di noi che non ha il nome di un parente morto, e anche questo è stato un segno che i tempi erano cambiati. |
Post n°197 pubblicato il 01 Aprile 2007 da lilith_0404
Quando ero bambina ricordo che sul mio libro di storia c’era la frase: “L’Egitto è un dono del Nilo”, e penso che un po’ tutti abbiamo recepito fin dalle elementari l’equazione Nilo = Egitto, ma in realtà le sorgenti del fiume si trovano in Tanzania e il suo corso attraversa ben nove stati del continente africano. Sappiamo tutti che la disponibilità di acqua è stata di importanza cruciale fin dagli albori della civiltà egiziana. Per il suo controllo si sono combattute guerre e stipulate alleanze e contrariamente a quanto si potrebbe ingenuamente credere,l'acqua continua ad essere un fattore critico un po’ ovunque nel mondo, ma lo é in modo particolarmente pressante in Egitto. Infatti l’Egitto condivide il controllo del fiume con il Sudan e con l’Etiopia e dalle modalità di controllo e di approvvigionamento degli stati a monte dipende la disponibilità d’acqua per Il Cairo, che proprio sul controllo del Nilo fonda quasi totalmente le sue aspettative idriche. Un ruolo cruciale in questo momento lo sta giocando il Sudan, uno degli stati geograficamente più grandi del continente africano. Ha risorse di petrolio, certo, ma è anche strategicamente determinante per il controllo del Nilo. Khartoum si trova dove il Nilo Blu che esce dall’Etiopia si unisce al Nilo Bianco che da li scende verso l’Egitto. C’é un accordo tra Egitto Etiopia e Sudan per il controllo delle acque del fiume, e una alterazione dell’equilibrio delle forze nell’ambito di questo accordo rischia di essere molto rischioso per la stabilità politica della regione. Oltre al resto, c’è anche questo dietro la crisi del Darfur: un accordo sull’acqua, che in questa regione è infinitamente più preziosa del petrolio, e che se adeguatamente strumentalizzata può mettere in crisi, con l’Egitto, tutta la regione circostante. Oggi come all’inizio della storia, è per l’acqua che si combatte.
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