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Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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L'occhio del coniglio 6. Rina pedalava sotto il solleone.

Post n°681 pubblicato il 27 Gennaio 2013 da LaDonnaCamel
 
Foto di LaDonnaCamel

La sesta puntata del romanzo L'occhio del coniglio.
Già che faccio l'editore di me stessa, ho prodotto anche una versione digitale, mobi, epub e pdf. Se ti stanchi di leggere a schermo e la vuoi mettere nel tuo lettore eBook oppure se hai occasione di stampare a ufo e vuoi il pdf, scrivi a ladonnacamel@gmail.com e te la mando. Gratis e senza DRM!
(Però poi non venire qui a spoilerare il finale eh, t'ammazzo! Che, se non si era capito, le puntate qui continuerò a metterle, al ritmo di due a settimana, più o meno.)

Zerbo 2011

 

Rina pedalava sotto il solleone. In discesa il vento le faceva volare la gonna a fiori e lei si godeva la frescura, nei campi non c’era nessuno, poteva fare a meno di guidare con una mano sola per tenerla giù. Andava a fare la puntura alla figlia del macellaio del paese dov’erano sfollati.
In città non aveva voluto stare perché aveva molta paura delle bombe, quando suonava il primo allarme non aspettava un istante, si presentava in cantina con la borsetta sotto braccio e stretta al petto quella piccola sveglia di porcellana fatta come un arco di trionfo, regalo di nozze del principale. Erano due colonnine bianche dipinte a fiori di pesco con sopra una curva, come un tubo piegato e in mezzo l'orologio, i numeri romani scritti in oro. Sembrava fragile ma ha resistito alla guerra e a più di venti traslochi.
La figlia del macellaio soffriva di febbri, era una bambina magra e pallida, per quanto il mangiare non le mancasse - i macellai non morivano mai di fame. Ammazzavano il maiale in segreto nella cantina di casa e lo spartivano in cambio di altre derrate proibite o favori o anche soldi.
Rina rallentò, imboccò il viottolo sterrato che girava intorno alla casa, pronta a evitare le galline che razzolavano in giro.
Era stato facile imparare a fare le punture, aveva guardato bene la suora in ospedale quando era morta sua mamma e poi si era esercitata su una patata cruda. Bastava un po’ di decisione nel momento di pungere, “mano ferma senza paura” diceva la suora, schiacciare adagio e massaggiare bene per fare assorbire la medicina, questo l’aveva imparato da sola con l’esperienza dei tanti sederi che aveva visto.
C’erano molte cose che si potevano fare per aiutare gli altri quando non c’è più il lavoro, era sempre disponibile a rivoltare un cappotto o riadattare un vestito anche gratis, in qualche modo ci si aggiustava.
Scampanellò senza scendere, in attesa che la moglie del macellaio le venisse incontro. C’erano i cani sciolti in giro, aveva messo giù un piede ma stava pronta a scattare via oppure a appoggiare la bicicletta al pozzo in mezzo all’aia, quando la donna le fosse venuta vicino. Le mosche cavalline le ronzavano sulla faccia, le scacciò con la mano e si ravviò i capelli, togliendosi una ciocca dalla fronte sudata. La macellaia si affacciò da una porta, scostando la tenda le fece un cenno con la mano.
La cucina era in penombra, gli scuri erano chiusi per tenere fuori il caldo. La bambina scoppiò a piangere appena la riconobbe.
“Dai ninin, vieni qui che non te la faccio la puntura” le sorrise mostrandole le palme delle mani vuote, “son venuta solo a prendere le salsicce”. La piccola stava abbracciata alla gamba di sua mamma, nascondendo la faccia nel grembiule.
Rina mise a bollire sulla stufa la scatoletta di metallo con dentro gli aghi e la siringa di vetro smontata, controllava personalmente che fosse tutto ben pulito, non si fidava. La donna la seguiva con lo sguardo,  carezzava la figlia sulla testa e teneva l’altra mano appoggiata su un fianco. Era giovane, si vedeva che aveva soggezione.
“La vuoi la caramella?” disse Rina dopo un po’. La bambina girò gli occhi verso di lei per un momento e poi li chiuse con un sorrisetto. Teneva la testa bassa e la schiena ancora appoggiata alla madre, non osava guardare.
Aveva steso una tovaglietta di lino bianca con tutto l’occorrente a portata di mano. Si sedette vicino al tavolo e le porse la mano aperta, sul palmo aveva un bottoncino di zucchero rosa.
“Vieni a prenderla, su.”
La bambina si avvicinò, prese il bombon e se lo cacciò in bocca. Rina la tirò su per le braccine magre, la sollevò di peso e se la mise in grembo, girandosi in modo che non vedesse la siringa pronta sul tavolo.
“Cavallino trotta trotta” la fece saltare sulle ginocchia fino a che la sentì ridere, la accarezzò sulla schiena che si era rilassata.
“Fammi vedere una cosa” disse rovesciandola bocconi. La bambina si dimenava ma Rina la schiacciò giù con un gomito,  le prese le gambe tra le sue tenendola stretta, le alzò la vestina e le strofinò il sedere con l’alcool – in campagna non portavano le mutande.
“Non ti faccio la puntura” le disse.
Premette lo stantuffo per togliere l’aria fino a che una goccia di medicina non uscì dalla punta. L’urlo arrivò quando aveva già estratto l’ago e la stava massaggiando.
“Niente, niente, è già finito” disse forte per coprire gli strilli. La macellaia era rimasta a guardare con le mani sui fianchi.
“Le salsicce non sono pronte, le sta facendo adesso” disse dopo che Rina aveva allentato la presa con le gambe e la bambina era scappata via.
“Va bene, non importa. Le mando mia figlia stasera.”
Mentre pedalava verso casa pensò che non le aveva offerto neanche un bicchiere d’acqua, col caldo che faceva. I campi di grano maturo tutto intorno facevano venire sete, non c’era una nuvola o un albero a fare ombra, si vedeva l’aria tremolare all’orizzonte. Non c’era una casa su quella strada piena di polvere e anche il paese era piccolo, avrebbe voluto andare via da lì, era già stufa. Non si trovava niente, voleva darsi da fare per avere in cambio qualche mezzo chilo di burro o uova, zucchero, o le sigarette - che quelle arrotolate da lei con la camomilla facevano schifo.
 
Verso sera le donne si sedevano davanti alle porte delle case a prendere il fresco. Lavoravano a maglia oppure rammendavano le calze infilando nei talloni consumati un uovo di legno e intanto si raccontavano sommessamente i fatti del paese. Luisa aveva portato fuori una seggiola impagliata e leggeva Martin Eden, uno dei libri di suo padre. Ogni tanto alzava la testa e tendeva l’orecchio, se le sembrava di aver colto il nome di qualcuno che conosceva perdeva il segno e doveva rileggere da capo tutto il paragrafo.
Rina la chiamò dalla cucina “vieni qui ninin che ti devo mandare a fare una commissione.” Lei piegò un angolo della pagina e appoggiò il libro sulla sedia, come se dovesse tenersi il posto.
“Prendi su la bici e vai a casa del macellaio, lo sai dov’è?”
“No. Perché parli piano?”
“Sst” fece Rina allontanandosi dalla porta “passa dal cortile di dietro, prendi la strada per il manicomio e vai sempre dritta per i campi. In fondo c’è una casa un po’ isolata. Digli che sei la figlia della Rina, lo sa lui.”
“Cosa devo prendere? C’è da pagare?”
“Lo sa lui. Prendi il pacco che ti dà e non farti vedere.”
Era ancora chiaro, Luisa pedalava nei sentieri in mezzo ai campi e le sembrava quasi una gita di piacere, la faceva lunga anche se c’era ancora l’afa. Si era fatta forza per ubbidire però adesso si riempiva gli occhi di tutto quel giallo fino all’orizzonte e il grano o il frumento o la segale che si piegavano a ondate, ogni tanto in lontananza un albero isolato con qualche cespuglio sotto o il quadrato verde di una marcita o una cascina coi muri screpolati e le macchie d’edera. Respirava forte gli odori sconosciuti che cambiavano a ogni refolo, assordata dalle cicale che non si capiva da dove venivano e sembravano dappertutto. Ma la cosa più bella erano quelle strisce di nuvole colorate di viola giù in fondo che a Milano non le aveva mai viste, le sembrava di essere in un quadro.
Il macellaio le aveva dato il pacco legato con uno spago e le aveva detto di salutare la mamma. Le aveva anche detto se non aveva paura a passare davanti al manicomio a quest’ora. Lei aveva detto di no ma a dire il vero non ci aveva pensato, all’andata non ci aveva fatto caso.
Adesso era quasi buio, gli uccelli gridavano forte e si spostavano in cielo tutti insieme come se dovessero andare da qualche parte. L’aria era ferma e la strada sembrava tutta diversa senza le ombre.
Davanti al manicomio le matte si attaccavano alle sbarre delle finestre e anche se lei guardava dall’altra parte sussurravano, urlavano, la chiamavano, signorina! per favore può venire qui un momento?, e poi ridevano e piangevano, cambiavano la voce, ti prego, ti prego!, con urli e brusii che non si capiva da dove venivano, prima sembravano lontani e poi aveva l’impressione di averle lì dietro, di fianco, davanti come se la potessero toccare, prendere, buttare giù dalla bici. Non riuscì a non guardare, c’era una che si era strappata la camicia da notte di dosso e si era messa in piedi sul davanzale, si vedeva tutta nuda con una macchia nera in mezzo alle gambe, i capelli sciolti, le braccia tese verso di lei attraverso le sbarre, gli occhi rossi spalancati.
Fece uno scatto in avanti pedalando con tutte le forze nonostante la leggera salita e non si fermò fino a che non si sentì bruciare in mezzo al petto, là dove le cominciavano a crescere. Mise giù i piedi e le sembrava di sentire ancora gridare, anche se ormai era solo il vento o gli uccelli o i pipistrelli. L’ultimo pezzo lo fece a piedi spingendo la bici, le gambe legnose e il sudore che si raffreddava sul coppino.
Poi arrivata a casa si lamentò con sua madre e giurò che non ci sarebbe andata più, le disse di mandarci Giorgio piuttosto.
Danilo le abbracciò le gambe, “Ci posso andare io?”
“No, tu sei piccolo!”
Ma a Giorgio non l’avrebbe mandato, sia perché era il suo preferito, il delfino lo chiamavano tra loro con scherno, sia perché invece di portare a casa le salsicce se le sarebbe vendute a borsa nera, era capacissimo.

(continua)

 

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