Creato da LaDonnaCamel il 16/09/2006
Il diario intimo della Donna Camèl con l'accento sulla èl
 

 

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Domenica (26 gennaio 1930)

Post n°405 pubblicato il 04 Giugno 2010 da LaDonnaCamel
 

“Ma deve proprio gridare in questa maniera qua?”
Vittorio si tiene le orecchie con le mani, i gomiti appoggiati al tavolo della cucina. Sua nonna gli mette davanti una scodella grande come una marmitta piena di latte appena sporcato dal caffé di cicoria. Spezza tre fette di pane e le butta dentro a tocchetti. Lui chiude gli occhi e poi li apre, guarda i bocconi di pane gonfiarsi e poi affondare nella zuppa.
“Mangia” dice la nonna e subito si volta verso il lavandino.
Alfonso lo guarda, piega la testa da un lato.
“Poi mi vai a prendere il giornale?” dice tirando fuori di tasca qualche moneta. Guarda verso l’altra stanza, ci pensa un momento e rimette la mano in tasca, “anzi, compramene due copie, che una la leggo. Il Corriere della sera.”
“E se non c’è? Prendo il Popolo?”
“Se non c’è prendi niente. Mi arrangio io.”
Gli mette una banconota davanti alla tazza.
“Una lira?” dice Vittorio ma non la tocca. “E il resto?”
“Il resto puoi tenertelo.”
In due cucchiaiate ha finito, beve le ultime gocce direttamente dalla tazza e spinge indietro la sedia.
“Shh,” fa la nonna col dito sul naso, “adagio.”
Lui prende il cappotto e il cappello, mette in tasca la banconota e si ferma con la mano sulla maniglia, si volta verso suo padre, “e la messa?”
“Vai tu.”
Vittorio chiude piano e subito si sente il galoppo che fa scendendo gli scalini a due a due.
Alfonso guarda la suocera. “Vada a vedere,” dice.
“Eh, c’è tempo” risponde lei, e si avvia verso la camera da letto.
 
Vittorio corre fuori dal portone verso l’edicola, svolta l’angolo di Via Cialdini e rallenta di colpo. C’è tutto il tempo. Cammina poggiando un piede davanti all’altro come se dovesse misurare i quadrelli del selciato. Il freddo gli morde le ginocchia. Toglie di tasca una mano e ci soffia sopra, con l’altra stringe i soldi. Cosa farà con il resto? Pensa alle biglie di vetro del Galimberti, gliele ha sempre invidiate, specialmente quella con i riflessi viola, ma ha detto che non la vende. Potrebbe fermarsi in latteria quando esce da messa, comprare una stecca di rigolizia o sei bonbon per cinque centesimi. Se invece prende il Corrierino stasera l’ha già finito e se ne pente, è naturale. Intanto è arrivato all’edicola e resta lì a guardare le figure sulle copertine. L’uomo dentro il chiosco bofonchia qualcosa che non si capisce, crede che non abbia i soldi, che stia lì a perder tempo, si vede dalla faccia. Lui mette la banconota sul piattino, “Corriere della sera” dice, “due copie”.
“Altro?” Gli porge i giornali e conta il resto. Ha una coperta grigia sulle spalle, una berretta di lana in testa e dei guanti con le dita tagliate.
Vittorio mette le monete nella tasca dei calzoncini e gli volta le spalle. Coi giornali sottobraccio va verso la chiesa.
Nel piazzale ci sono il Caminiti e il Franceschi che giocano a figurine contro il muro dell’oratorio. Lui si ferma a una certa distanza, con le mani dietro la schiena. Cerca di vedere se ci sono pezzi interessanti, stropiccia i piedi per terra, muove la gamba per sentire il peso delle monete. La gente che arriva entra subito in chiesa, dal portone escono effluvi d’organo che si spengono di colpo quando il battente viene richiuso. Al rintocco delle campane i due raccolgono le figurine sparpagliate e prima che si voltino Vittorio è già dentro. La puzza di incenso e candele gli fa colare il naso.
 
La signora Speranza ha uno scialle marrone che tiene chiuso sul petto con una spilla a forma di margherita. Ha una faccia tonda e lucida e incarta i bonbon con le sue dita tozze, tenendo il mignolo rialzato. Mentre prende la moneta gli trattiene la mano, “la tua mamma come sta? E’ già ora?” dice e lo guarda fisso.
“Sta partorendo adesso,” fa lui con la faccia sera, da uomo.
“Povera donna,” sospira lei, come se fosse una sciagura. “Sei contento se ti nasce una sorellina?”
“No.” Gli sta venendo su il magone e non sa nemmeno perché. Apre il cartoccio e si ficca in bocca un bonbon.
“Allora speriamo che sia un maschietto.”
Vittorio alza il mento e non si capisce se gli importa niente oppure è arrabbiato.
“Vai a casa dalla tua mamma,” insiste lei.
“Ma se m’han mandato via.” Si volta di colpo e esce senza salutare tirandosi dietro la porta con un botto.
Torna sulla piazza, adesso è deserta. Sono andati tutti a casa al calduccio, davanti alla tavola imbandita della domenica.
 
La signorina Bacchetta si lava le mani nel catino di smalto, ha già tolto il grembiule e messo via i suoi ferri. Ha accettato l’invito a pranzo, ha accettato anche l’involto con dodici uova fresche che la madre della puerpera le ha offerto, portate apposta dalla campagna. Si sente un buon profumo venire dalla cucina e il rumore delle stoviglie, i passi della donna che va avanti e indietro e la sua voce: “Alfonso, il bambino?”
“Dovrebbe essere già indietro,” risponde lui.
“Gli vada incontro che metto in tavola.”
Alfonso prende la sciarpa e il cappello e va fuori. Scende le scale con calma e vede Vittorio seduto sull’ultimo gradino in basso. Sta curvo con i gomiti puntati sulle ginocchia, appena lo sente alza la testa e lo guarda.
“E’ un maschio” dice il padre e sorride.
Vittorio si alza e sale le due rampe.
Entra diretto in cucina senza guardare la porta della camera dei genitori. Allunga le mani davanti alla stufa, si sente allargare il petto in un respiro.
A tavola per tutto il tempo guarda nel piatto, mangia piano. C’è il pollo con la polenta ma s’è guastato l’appetito coi dolci. La nonna e la levatrice discutono a mezze parole le cose del parto, alludono, alzano i sopraccigli per colmare i vuoti. Come se lui non capisse. E gli andrebbe bene, se solo fosse capace. Si sente la faccia rossa, pensa che sia per la reazione dal freddo che c’era fuori. Per il resto c’è silenzio, forse la mamma dorme. Suo padre si versa il vino e non parla mai.
“Signor Alfonso,” dice a un tratto la Bacchetta, “si ricordi che deve andare in comune per mettergli il nome.”
“A Milano?”
“Siamo anche qui a Milano,” risponde lei e fa una risatina.
“Eh. Mi tocca chiedere una giornata di permesso. Se era qua, invece.” Alfonso si pulisce la bocca col tovagliolo per troncare il discorso.
“Qua era più comodo,” conviene lei, “ma ci sono altri vantaggi.”
La suocera apre la bocca per intervenire, guarda Alfonso che si è rabbuiato e invece si alza da tavola, “faccio il caffé” dice a nessuno in particolare.
“Il comune di Affori aveva più di mille anni, lo sa?” riprende Alfonso, piega il tovagliolo e scuote la testa. “Di vantaggi per noialtri non ne vedo. I vantaggi son tutti per loro.”
“Prima di andare controllo un’ultima volta come sta la signora,” conclude lei alzandosi. Le sembra di aver toccato un brutto tasto, non vale la pena. Del resto non le importa niente della politica. Le hanno lasciato la sua condotta come prima, le hanno anche aumentato lo stipendio. I bambini nascono sempre allo stesso modo, che sia Affori o la grande Milano e Mussolini sta facendo un sacco di cose belle per il popolo.
Vittorio aspetta solo che gli diano il permesso di alzarsi da tavola. Non vuole ascoltare niente, riconosce quella nota arrabbiata nella voce di suo padre, una rabbia educata, trattenuta. Andrebbe a letto a dormire se potesse.
 
“Vieni qui Vittorio, guarda.”
La nonna ha sparecchiato e sta lavando i piatti. Suo padre ha aperto sul tavolo il giornale di oggi e vicino ci ha messo il suo.
“Leggi un po’ la data?” dice e sorride. Questa la sa a memoria, ogni anno al suo compleanno gli fa vedere il giornale che ha messo da parte dal giorno in cui è nato.
“Ventisei febbraio millenovecentoventuno” recita lui, gli tiene il gioco. Suo padre ha la mania della storia. Non parla quasi mai ma se incomincia a raccontare un fatto, più vecchio è e più si infervora. Legge apposta dei libri, è capace di contraddire anche la sua maestra, dice che gli fa studiare le bugie. Come fa a saperlo, poi, se delle volte non era ancora nato.
“Vuoi andare a vedere il fratellino?” dice Alfonso. La nonna si ferma e volta la testa verso di loro. Lui alza le spalle.
“E la mamma? Non la vuoi salutare?”
Adesso abbassa il mento di colpo e guarda in giù come se l’avesse colto in castagna.
“La prendo come un sì?”
Lui non si muove, suo padre gli accarezza una spalla, lo spinge dolcemente, “dai, andiamo.”
 
Bussano alla porta, Amalia dice avanti con una voce squillante che sembra stia cantando. Alfonso entra deciso, Vittorio si ferma sulla soglia. La stanza è in ordine, sua madre è seduta nel letto con due cuscini dietro la schiena.
“Vieni qui ninin.” Ha i capelli ben ravviati, una camicia da notte pulita e gli sorride, gli tende le braccia.
Lui esita, si avvicina svogliato, la guarda fissa per cercare di capire.
“Mamma,” dice piano, “stai bene adesso?”
“Sì, sì, sto bene. Vieni qua.” Picchia con la mano sulla coperta, si sposta un poco per fargli spazio. “Cos’hai fatto stamattina? Sei andato a messa?”
“Sì” risponde lui. Si siede sull’orlo, si appoggia appena, circospetto, “davvero stai bene?”
Gli viene da piangere ma resiste, è un po’ arrabbiato e un po’ sollevato. C’è un buon profumo nella stanza. Borotalco, lavanda, camomilla. E’ l’odore di lei. Vittorio chiude gli occhi. Fa un respiro.
“Hai gridato tanto, mamma. Non finivi più.” Deglutisce, non vuole piangere.
Lei sorride ancora. Cosa avranno tutti da ridere, pensa lui e si lascia abbracciare, affonda sulla sua spalla e respira, respira. Si lascia accarezzare anche la testa, non si muove.
Alfonso è rimasto in mezzo alla stanza, in piedi. Si scambia uno sguardo con la moglie. “Vogliamo conoscerlo questo fratellino?” dice con una voce un po’ troppo allegra che rimbomba nella stanza.
Vittorio si stacca, si guarda intorno. Non l’aveva visto, è lì nel letto, vicino alla mamma. E’ rosso e grinzoso e pelato, ha la testa storta, è bruttissimo. Un mostriciattolo.
“E’ bello, vero?” dice il papà.
Vittorio si volta e lo guarda, poi guarda il bambino che dorme. Vorrebbe andare di là dalla nonna oppure uscire. Andare a scuola, all’oratorio. Fuori.
Si allontana dalla mamma, si alza in piedi.
“Come si chiama?” chiede, cercando di essere gentile.
“Gianluigi” risponde suo padre.

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